martedì 27 dicembre 2016

"Nora" di Rebecca di Santo

Nora è seduta sulla poltroncina beige in mezzo al salone, vicina alla porta a vetri dello spazio riservato ai fumatori. 
Le piace stare lì e fare un cenno di saluto a chi entra ed esce perché così, dice, le sembra di stare al corso, seduta al sole con il cappello di paglia e il rossetto rosa.
- Sedano, sedano, sedano. Il cuore verde e senza fili. Sedano che scrocchia, sedano solo qualche volta.
Il professor Ferraresi ha impiegato del tempo prima di unire tutte le parole e i luoghi che la memoria di Nora ricompone ogni giorno. Era stato facile riconoscere le ripetizioni infinite dei suoi piccoli rituali, ma individuarne il filo conduttore non lo era stato altrettanto.
Dal momento in cui Nora apre gli occhi, fino alla sera, quando si addormenta, è tutto un muoversi in un reticolato di sogni e vincoli. Il padre è il maestro dell’orchestra che non permette mai a Nora di andare col suo passo. Lui sa dirigere, lui conosce tutti gli elementi e sa come si reagisce anche agli imprevisti.
Per Nora nessun imprevisto.
Siede sulla poltroncina, il camicione color conchiglia, il fard leggero sugli zigomi e il lucidalabbra alla fragola che mette e rimette.
- Sedano e gassosa in vetro. Sedano verde. Il cuore del sedano. E gassosa.
Nora è in clinica da molti anni. È entrata poco dopo aver compiuto 18 anni. 
Era un filo di carne e di voce. Le ossa più evidenti erano quelle del volto e quelle delle spalle. Gli occhi erano sembrati più grandi e spauriti di quanto in realtà fossero, incavati nello scheletro.
Tutta la sua vita precedente era stata vissuta nella parte alta di una bella cittadina toscana. La parte in abbandono in cui solo i turisti arrivavano a passeggio. Nora li guardava da dietro la frangia castana, sempre lunga e storta. 
I primi occhi che aveva guardato con sguardo diretto erano stati quelli di Lucia, l’unica degente della clinica con cui riusciva ad entrare in contatto quando il mix di farmaci, la allontanava dalla sua prigione dall’aria viziata.
Anche Lucia era molto giovane, tondetta e sempre allegra.
Se la mente di Nora poteva essere rappresentata come un cupo labirinto, quella di Lucia era un vasto prato luminoso, con alberi da frutto e orridi tutt’intorno.
Lucia era stata per Nora il contatto con il sole, di lei non aveva paura.
Ferraresi non ha mai compreso se il giorno in cui Lucia si tolse la vita gettandosi dalla torre campanaria, Nora abbia capito cosa fosse accaduto, vero è che il suo corpo riverso e sfranto le fu davanti agli occhi per qualche minuto, ma nessuna reazione e, soprattutto, nessuna variazione sui suoi tempi paranoici, permise di registrare l’evento come evento assimilato .
Per Nora gli accadimenti hanno avuto consistenza solo fino alla prima adolescenza, da lì in poi una nebbia lattiginosa li ha coperti.
- Sedano.
Una vita lunga protetta dalla corruzione del tempo, ma totalmente priva di slancio.
Il refrain felice e sciocco di un dolore radicato e reso tenebra, così fitto il buio da non poter andare più a guardare.

Un giorno la polizia venne chiamata dai compaesani preoccupati per la scomparsa della ragazza. Tutti conoscevano bene il padre, l’uomo da sempre in lutto, rimasto vedovo quando sua moglie era morta di parto.
Al momento in cui bussarono all'uscio quell’uomo era morto già da qualche settimana.
Nessuno venne ad aprire.
Dopo aver sfondato la porta trovarono Nora al piano superiore della piccola casa. Era seduta alla finestra, coperta da un grande scialle di lana color amaranto. Ai piedi degli scarponi da montagna.
Non si era voltata neanche per il frastuono, l’invasione del suo silenzio non l’aveva minimamente interessata.
I poliziotti avevano chiamato la clinica ed erano arrivate due infermiere.
Le avevano parlato, l’avevano carezzata, poi l’avevano esortata ad alzarsi, a prendere dei vestiti da portare con lei.
Ma Nora non le aveva sentite, era così lontana che dovettero alzarla e trascinarla, non perché opponesse resistenza ma perché era totalmente passiva.
Il professor Ferraresi la incontrò solo il giorno dopo, quando era stata lavata e nutrita con le flebo. Oltre l’aroma del bagnoschiuma e dello shampoo, era possibile intravedere la giovanissima ragazza che era. Il suo corpo aveva reagito subito al cibo chimico, al calore della notte passata in un letto pulito.
Negli anni, questi erano stati gli unici risultati: un corpo in buona forma, il ritmo sonno veglia sempre preciso, ma Nora non era mai atterrata.
Le evidenze del suo comportamento conducevano tutte al rapporto con il padre.
La gassosa che beveva da bambina ai bordi del campo di bocce in cui lui giocava.
Il sedano del pinzimonio, che sembrava il cibo degli Dei nelle loro serate estive, con la finestra aperta e il silenzio come condimento.
Ma questo e nient’altro era stato possibile ricostruire.
Davvero pochi i momenti in cui la loro piccola e lugubre famiglia aveva vissuto in pubblico.
Il medico di famiglia aveva visto per l’ultima volta Nora, attorno al suo dodicesimo anno, quando aveva avuto il menarca, dopodiché più nulla.
Ora il corpo di Nora era vivo, sano. In lei tutto funzionava, ma la sua mente era stata corrotta a tal punto da divenire impermeabile alla vita.

La piccola Nora, ora donna di cinquant’anni, viveva nell’eterno presente di una giornata ideale, senza dolore, senza coscienza.

Rebecca


venerdì 9 dicembre 2016

"Antonio e Cleofe" di Rebecca di Santo

- Ho freddo.
- uhm…
- Antonio, ho freddo. Non riesco a dormire.
Antonio si avvicina e sente che il corpo di  Cleofe è infagottato da mille strati. Sua moglie, così gracile, quando gli si affianca nel letto gli rimanda sempre alla memoria un cucciolo di balena: piccola ma densa di lana e pigiami e coperte.
Cleofe ha da sempre temuto la notte. Era piccina e già il buio le rendeva l’anima pesante.
Ora è grande, anzi è vecchia, ha imparato a tuffarsi ad occhi aperti nell’oscurità, ma le accade comunque di trovarsi smarrita quando il sonno non la accoglie.
Antonio, nel tempo, si è fatto trovare pronto. Non quando c’erano i giorni della tensione, non nei periodi di rabbia.
Ma è sempre stato pronto quando le fragilità delle loro vite si incontravano, o quando l’una trovava porto certo nelle braccia degli altri.
- Eccomi. Ti ricordi però qual è il segreto? 
Cleofe conosce il segreto. Il segreto che tante notti ha sollecitato lei stessa. Il segreto che tante notti ha condiviso a fatica. Il segreto che ora, in vecchiaia, si è trasformato in fuoco tenue, che brucia lentamente.
Il segreto è che quando si ha freddo, molto freddo, bisogna raggiungere l’anima per tornare a sentire il caldo e, per farlo, bisogna essere nudi. L’anima si affaccia più volentieri se un corpo tocca un altro corpo. 
- Non lo ricordo… ma sono convinta che fra poco lo ricorderò. Me lo ricorderai, vero?
Memoria e calore si confondono.
Lui le leccava le dita dei piedi. Questo Cleofe lo rammenta spesso. È avvenuto forse due o forse dieci volte, ma ciò che nella mente di Cleofe è chiaro è come lei si fosse sentita una regina in quei momenti.
Antonio ricorda il pudore tenero di quando facevano all’amore davanti al caminetto. Avevano impiegato un po’ di tempo per comprendersi. La vergogna non è una buona amica dell’intimità sessuale. Ma sono cresciuti insieme, hanno trasformato il silenzio in complicità. Così fare all’amore sul divano era stata una conquista, un’affermazione di amore e libertà. Un re e una regina nudi nel loro regno.
Le mani di Antonio liberano dagli strati il corpo di Cleofe. Strati di stoffa, strati di storia. Ogni velo che cade fa aumentate il calore che sotto le coperte si irradia dall’uno all’altro. Cleofe si volta, allaccia i piedi alle gambe di Antonio e gli carezza il volto. Anche al buio riconosce le rughe, la barba, le grandi orecchie così ben attaccate alla forma della testa. Antonio ritrova sotto le carezze i fianchi ossuti di sua moglie e il fondo della schiena che, sempre, lo ha eccitato. Insieme hanno imparato ad amarsi senza peccare.
Mani nelle mani, sesso nel sesso, occhi negli occhi.
Cleofe gli carezza l’inguine, sente ancora e sempre la risposta di Antonio, il suo brivido che le rimanda un senso di grandezza simile al cielo e al vento.
Fanno l’amore così, gesto dopo gesto. Senza l’impeto confuso dei primi anni e delle prime conquiste. Fanno l’amore scaldandosi dal gelo della notte. Trovandosi nell’oscurità muta per zittire la morte.


Rebecca


domenica 4 dicembre 2016

Che Guevara. L'Avana, anno dell'Agricoltura. 31 marzo 1965

Fidel,
in questa ora mi ricordo di molte cose, di quando ti ho conosciuto in casa di Maria Antonia, di quando mi hai proposto di venire, di tutta la tensione dei preparativi.
Un giorno passarono a domandare chi si doveva avvisare in caso di morte, e la possibilità reale del fatto ci colpì tutti. Poi sapemmo che era proprio così, che in una rivoluzione, se è vera, si vince o si muore, e molti compagni sono rimasti lungo il cammino verso la vittoria.
Oggi tutto ha un tono meno drammatico, perché siamo più maturi, ma il fatto si ripete. Sento che ho compiuto la parte del mio dovere che mi legava alla rivoluzione cubana nel suo territorio e mi congedo da te, dai compagni, dal tuo popolo, che ormai è il mio.
Faccio formale rinuncia ai miei incarichi nella direzione del partito, al mio posto di ministro, al mio grado di comandante, alla mia condizione di cubano. Niente di giuridico mi lega a Cuba; solo rapporti di altro tipo che non si possono spezzare come le nomine. Se faccio un bilancio della mia vita, credo di poter dire che ho lavorato con sufficiente rettitudine e abnegazione a consolidare la vittoria della rivoluzione.
Il mio unico errore di una certa gravità è stato quello di non aver avuto fiducia in te fin dai primi momenti della Sierra Maestra e di non aver compreso con sufficiente rapidità le tue qualità di dirigente e di rivoluzionario.
Ho vissuto giorni magnifici e al tuo fianco ho sentito l’orgoglio di appartenere al nostro popolo nei giorni luminosi e tristi della crisi dei Caraibi.
Poche volte uno statista ha brillato di una luce più alta che in quei giorni; mi inorgoglisce anche il pensiero di averti seguito senza esitazioni, identificandomi con la tua maniera di pensare e di vedere e di valutare i pericoli e i princìpi.
Altre sierras nel mondo reclamano il contributo delle mie modeste forze. io posso fare quello che a te è negato per le responsabilità che hai alla testa di Cuba, ed è arrivata l’ora di separarci.
Lo faccio con un misto di allegria e di dolore; lascio qui gli esseri che amo, e lascio un popolo che mi ha accettato come figlio; tutto ciò rinascerà nel mio spirito; sui nuovi campi di battaglia porterò la fede che mi hai inculcato, lo spirito rivoluzionario del mio popolo, la sensazione di compiere il più sacro dei doveri: lottare contro l’imperialismo dovunque esso sia; questo riconforta e guarisce in abbondanza di qualunque lacerazione.
Ripeto ancora una volta che libero Cuba da qualsiasi responsabilità tranne da quella che emanerà dal suo esempio; se l’ora definitiva arriverà per me sotto un altro cielo, il mio ultimo pensiero sarà per questo popolo e in modo speciale per te; ti ringrazio per i tuoi insegnamenti e per il tuo esempio a cui cercherò di essere fedele fino alle ultime conseguenze delle mie azioni; mi sono sempre identificato con la politica estera della nostra rivoluzione e continuo a farlo; dovunque andrò sentirò la responsabilità di essere un rivoluzionario cubano e come tale agirò; non lascio a mia moglie e ai miei figli niente di materiale, ma questo non è per me ragione di pena: mi rallegro che sia così; non chiedo niente per loro perché lo stato gli darà il necessario per vivere e per educarsi.
Avrei molte cose da dire a te e al nostro popolo, ma sento che le parole non sono necessarie e che non possono esprimere quello che io vorrei dire; non vale la pena di consumare altri fogli.
Fino alla vittoria sempre. Patria o Morte!
Ti abbraccio con grande fervore rivoluzionario

Che
L'Avana, anno dell'Agricoltura.
31 marzo 1965


























Non sono Cristo né un filantropo, io sono tutto il contrario di un Cristo; 
io combatto per le cose in cui credo con tutte le armi a mia disposizione e cerco di lasciare morto l'altro, 
invece di lasciarmi mettere in croce o in qualsiasi altro luogo.
Ernesto Guevara, El Che, 
Rosario (Argentina) 14 giugno 1928 - La Higuera (Bolivia) 9 ottobre 1967

sabato 26 novembre 2016

Fidel Castro, Birán, 13 agosto 1926 – L'Avana, 25 novembre 2016


Il peggiore dei sacrilegi
è il ristagno del pensiero.

Fidel Castro



Arrivo all’Avana, il 1 gennaio 1959

17 aprile 1961. Fidel Castro durante l’invasione della baia dei Porci.



Visita a Johannesburg, 2 settembre 2001

















Fidel Castro alle Nazioni Unite, 1960

Richard Eder intervista Fidel Castro a Cuba, 1964

domenica 20 novembre 2016

Adulti contro Bambini. Rebecca


Il Mondo dei Bambini non è semplice, non lo è affatto.
Il peggio è che hanno noi adulti di fronte.
Noi, pronti a distrarci al minimo alitare di vento
rispetto a loro
concentrati e schietti.




martedì 8 novembre 2016

Emanuela. di Rebecca di Santo

Aveva graffiato le pareti con rabbia estrema, pur avendo orrore di quell'odore acido sotto le unghie.
La vernice scrostata faceva pensare al ferro, puzzava di ruggine. 
Emanuela sentì gemere quelli che dovevano essere dei bulloni a sostegno della struttura nella quale era rinchiusa. 
La nausea le dava la sensazione di avere lo stomaco cotto, con una consistenza simile alla lana infeltrita che la nonna aveva estratto una volta dai cuscini della casa di campagna. Sentiva la pancia come una borsa vecchia e bagnata. Le gengive erano gonfie e la lingua picchiettata da bollicine dolenti.


Si era ritrovata a vomitare tante di quelle volte da quando quel prete l’aveva presa. 
Dopo il pianto e i singhiozzi aveva scoperto che il vomito era un modo eccellente per perdere conoscenza, per svenire e smetterla di sentire la paura.
Non mangiava quasi nulla, così vomitare riusciva a sfinirla. 
Poteva bere tanta acqua, gliene davano in quantità. Acqua liscia, dentro bottiglie di vetro che le lasciavano a terra, sotto una minuscola finestra che dava alla stanza un minimo di luce, l’unica a disposizione.
Almeno questo era stato nei primi giorni. Poi si era generata in lei una grande confusione ed era iniziata la fase dei lunghi mancamenti, della perdita di conoscenza e, forse, del delirio.
Non appena si svegliava si presentava il peggio da cui voleva di nuovo fuggire. Nonostante la giovane età sapeva che vivere così l’avrebbe portata alla morte in poco tempo, ma quel tempo le sembrava infinito, il dolore le pulsava fin dentro l’anima, era così intenso da farle provare terrore di esserci ancora, ancora viva a un nuovo risveglio.
La mamma l’aveva salutata, questo lo ricordava sempre, sia negli sprazzi di lucidità che nel dormiveglia malato.
«Emanuela, ricordati che passo da Gisella, non troverai nessuno a casa quando torni...»
Che parole inutili da farsi rimbalzare in testa. 
Le immagini però rimangono come lame affilate nel caldo del suo cuore. 
Mentre la mamma le parlava, Emanuela aveva allungato la mano a prendere la custodia col flauto e si era voltata. La madre sporgeva dalla porta del suo studio, con la testa di ricci rossi e la spalla, e un braccio, e una mano, illuminata da un riflesso così chiaro da far apparire quel ricordo già pronto per la malinconia. Una tale bellezza sporgeva, con naturalezza, da quella porta. 
Emanuela si era voltata, non ricordava più che parole avesse detto, ed era uscita.
Le scale, la strada, la lezione, un gelato e poi la chiesa.
Si perdeva a pregare nella vastità della basilica, una sensazione talmente forte quella che provava che solo raramente vi metteva piede. Sebbene la cappella laterale contenesse il mosaico di Cristo Pantocratore, così arrabbiato e duro, era proprio quello il luogo in cui andava a inginocchiarsi. A godersi la sua fetta di torta di Dio. Così l’aveva sempre pensata.
E proprio sotto gli occhi di quel Cristo si era voltata, attratta da un passo dal ritmo spezzato. Un prete tozzo e pelato si avvicinava. Abito nero e il viso sfigurato da una vasta cicatrice. Emanuela ne aveva viste di simili solo in qualche film e mai portavano una buona storia. La pelle lucida e violacea nascondeva sempre qualcosa di tremendo e, in più, quel povero prete zoppicava.
– Chissà se a pensare male di un prete si commette peccato! – questo si era chiesta, tornando a pregare. Il prete intanto si era poggiato sul marmo appena finite le scale della cappella, fra la cappella stessa e l’ingresso al chiostro.
La ragazza in piedi, riprese il suo flauto e si diresse verso l’uscita. Lo sguardo del prete era di traverso, teneva la mano sulla bocca forse per coprire parte della smorfia che la cicatrice gli cuciva sul volto. Aveva degli occhi chiarissimi ma cupi, da pazzo. 
Intanto la basilica si era abbigliata per la sera. 
Vestiva candele, lungo le navate, e incensi. 
Dal ciborio proveniva il suono del parroco che si dedicava alle ostie. Suono di oro generato dalla pisside che toccava le pareti del tabernacolo. 
Il pensiero del corpo di Cristo così vicino la rassicurava un poco, ma i suoi passi erano comunque attratti verso la fuga.
Ciò che era riuscita a notare, ed è l’ultimo ricordo di qualcosa di normale, anche se già mostruoso, fu un movimento repentino del prete. Il suo torcersi verso di lei e allungare un braccio, liberando completamente il volto dalla copertura della mano. Lo stupore e il tentativo di non guardare proprio verso il punto in cui la pelle si faceva tesa e scura la distrassero. 
Il prete le prese un polso, torcendoglielo, e le tappò la bocca. 
Non poté urlare e, nonostante mordesse, il prete sembrava non sentire il minimo fastidio.
La condusse alla porta del chiostro e la trascinò dentro una stanzetta e, da quella, in una serie di corridoi che si facevano sempre più stretti.
Finché entrò con lei in quello che era un luogo molto umido. 
Emanuela sapeva qualcosa dell’odore di muffa, grazie alla cantina in cui il nonno aveva accantonato gran parte della sua vita: c’era la muffa dei giornaletti, la muffa del legno, la muffa degli angoli dove misteriosa acqua colava dai muri. 
Per questo comprese che in quella stanza, quasi completamente buia, c’era muffa. 
L’odore quasi le bagnò il naso.
Proprio mentre si voltava verso la porta, la vide chiudersi.
E da allora le urla non esistono più, solo vomito e acqua.

Poi, dopo un numero di giorni che la ragazza non ha saputo contare, era stata portata via con un cappuccio sulla testa. Anche durante il viaggio aveva perso i sensi e si era risvegliata in quel contenitore illuminato da una piccola luce artificiale alla parete, sopra una porticina borchiata. 
L’odore non era più di muffa ma di sale e ferro.
Nel poco senso che riusciva a rintracciare in tutto quello che le stava avvenendo, si fece spazio un’unica convinzione: quell'uomo era l’incarnazione del Cristo Pantocratore, lei lo aveva dileggiato, ne aveva pensato male e per questo era stata punita. 
La rabbia del Dio dallo sguardo attento aveva preteso che le venisse rubato il corpo per punirle l’anima.

Durante quel viaggio, poiché la camera in cui era racchiusa era nella stiva di una grande nave, Emanuela si era pentita molte volte. 
Aveva bevuto e rimesso. Aveva mangiato come una bestia il raro cibo che le lanciavano a terra aprendo velocemente la porta.
Finché Dio l’aveva riaccolta nel suo seno.
Così pietoso Dio da non farle neanche comprendere se fosse quella una morte o un’assunzione in cielo.


Rebecca

chiedo scusa se mi sono permessa di narrare di Emanuela Orlandi, chiedo scusa a lei e alla sua famiglia.
ma avevo 13 anni in quell'estate, erano le prime volte in cui uscivo da sola per stare con le mie amiche e ricordo la mia città, Roma, tappezzate del suo volto.
ragazzina come me, lei non è più tornata.


domenica 6 novembre 2016

“Coraggio” di Rebecca di Santo


Coraggio ne aveva, ne aveva tantissimo. 
Aveva così coraggio che la sera invece di andare a dormire sotto le coperte, si metteva sul balcone e, poggiato fra pavimento e ringhiera, sentiva il freddo arrivare a bruciargli la gola. 
Solo nell'ultimo inverno aveva curato due polmoniti doppie. 
Poi aveva così coraggio che andava in bicicletta senza mani. Anche in motorino. 
Il giorno che aveva provato in macchina, a 130 km orari, aveva rischiato grosso. 
Ma tanto non sentiva nulla. 
Allora aveva deciso di provare a non dormire. 
Riuscì a non dormire per quattro giorni. 
Gli occhi cerchiati uscivano delle orbite ed era nervosissimo. 
Ma nulla, solo coraggio. Banale e inutile coraggio, senza emozione.
Nulla in ciò che faceva lo convinceva che le controindicazioni fossero importanti.
Poi, proprio ieri c'è stato il terremoto. 
No, non è corso via urlando.
Solo qualche minuto dopo la scossa, e dopo il rumore delle case cadute in frantumi, è sceso in strada e ha camminato senza nemmeno sentire il cuore che batteva, indifferente.
Fino a quando ha visto una bambina che sembrava di fatta di polvere e pietra, accovacciata a terra, tenere stretta stretta una mano che sbucava dalle macerie. 
Una mano di donna.
Nell'aria ancora il rumore. 
Lui ha tremato un solo istante e poi... fra le gambe gli è colata la pipì.

Rebecca


una precisazione.
vivo in Umbria. ho sentito le scosse.

ho pensato di morire sotto la mia casa che si scuoteva.
ma, a parte questo, tremo per i bambini che sono morti sotto le macerie, tremo di dolore per i loro genitori sopravvissuti.






mercoledì 12 ottobre 2016

Lo Sbarco. di Rebecca di Santo


Uno, due, tre ora riscende. Tre, quattro, cinqueeeeeeeeee, ecco, sta risalendo. Cos’è che mi fa più paura? Cos’è che mi fa venire di più il vomito?
Questa puzza è la mia e degli altri. Non riesco a non sentirla è come se uscisse dal mio naso o forse vi entra ed io non lo so più che direzione abbia.

Fin qui c’è la visione iniziale. Io conosco anche la visione completa, me l’hanno raccontata i giornali. Conosco attraverso lenti e filtri. Il giornalista raccoglie le testimonianze e le riporta. Ma non è attraverso quegli articoli che le immagini passano davanti ai miei occhi. Sono micro sensazioni molto forti. Io vedo attraverso i sensi. E da qui si ricomincia.

Dai, arriviamo. Appena arriviamo qualcuno mi porta verso un materasso e mi fa sdraiare. Che poi, piuttosto, vorrei lavarmi.

Non può pensare così. Questi sono pensieri troppo formati. Questa è roba troppo lucida.

Ho la sensazione di qualcuno che mi guarda. Ma non mi guarda da fuori, mi guarda da dentro come se tutto fosse già accaduto. Da una parte è un sollievo, qualcuno sa cosa accadrà e se non interviene è perché sa che tutto andrà per il meglio. Però vorrei mi facesse almeno dormire. Vorrei che mi portasse qui la voce di nonna che canta quella canzone senza parole. Quella che mi ci addormentavo e sembrava il vento. Perché devo riuscire a scappare.
Ahahahahahhah! Scappare? Ma sto già scappando, sì. È che non sapevo di avere un corpo fino a questo momento. Un corpo che fa male ovunque. E Tu smettila. Tu che guardi smettila!
Ora mi rannicchio e dormo. Ora dormo e tu mi proteggi perché sai come andrà a finire. Ma ho anche fame e sento che dentro il grembo mi raschia. Come se fosse finita l’acqua e il fango in fondo si stesse fondendo coi sassi. Il mio grembo si va polverizzando e magari fosse che anch’io mi riduco in materia finissima, per non sentire. Per arrivare, in fondo alla fuga. Ma sento che arriva… e quattro, cinque e sei pare che voliamo anche se da qui dentro non vedo niente. Forse l’odore peggiore è quello acido del vomito. Quando uno di noi parte con un conato è difficile resistere e parte una squadra di suoni e si rovesciano stomaci e succhi gastrici.
Dentro non ho più niente, se non te. Che sei così piccino.

Mi spiace ma io il bambino lo vedo. Ho la mente proiettata sulle ecografie. Sul movimento rallentato che arriva attraverso il gel e lo schermo. Il suono del monitoraggio. Cavalli in  corsa, confusi nello spazio aperto dell’oceano materno. E l’eco del suo essere.

Ma sei vivo?
Mi viene addosso il peso di quelli che mi stanno vicini. Chissà se è vero che quando arriviamo non ci faranno nessun imbroglio. Che ci lasceranno per bene. “E spostati!” che non respiro. Dio che odore che arriva da su? Magari già ci siamo. Magari fra poco è aria pulita e terra.
Oddio basta, non ho niente da vomitare solo questi succhi acidi che mi stanno bruciando la gola.
Amore mio. Me stessa e te. Com’è quella parola francese? Caprice, un capriccio degli dei. Ho iniziato a sentire un sapore unico nella bocca qualche giorno dopo aver capito di essere incinta. Era il tuo sapore. Ora ti sento travolto. Come se tu stessi scomparendo.
Ma è normale, mi dico, tu stai nascendo e io devo svuotarmi di te.


Mi si rigirano le viscere.

L’odore non è di buono. Mi sta mancando l’aria.
Tutti addosso ed io che non riesco a proteggerti. O ma com’è che ci rotoliamo tutti giù? Ma sono fiamme. E acqua. questo è morire. E noi dobbiamo vivere, invece. Una volta per tutte.
“Fermi! Fermiiiiiiiiiiiiii! Fatemi scendere. Fate scendere mio figlio. Fatelo nascere."

Numero 288 e numero 289. Sepolti insieme.
Porto rispetto a questa nascita nella morte. Li hanno trovati ancora legati alla loro preziosa comunicazione. Cordone ombelicale nel cordone ombelicale.
Lampedusa 3 ottobre, 2013

Nella foto Divan, nato su un barcone. [fonte onuitalia.com]

Salerno, 4 novembre 2017

Recuperate in mare circa 400 persone.
Anche i corpi di 26 donne.
Annegate in viaggio.
L'ipotesi è quella di omicidio.


domenica 2 ottobre 2016

L'Impiccato. di Sylvia Plath


Per le radici dei capelli mi afferrò un qualche dio.

Sfrigolai nei suoi volts azzurrini come un profeta nel deserto.

Le notti sparirono di scatto come palpebra di lucertola:

un mondo di vani giorni bianchi in un'orbita senz'ombra.

Una noia d'avvoltoio m'affissò in questo tronco.

Se lui fosse me, farebbe ciò che feci.

di Sylvia Plath





The Hanging Man
By the roots of my hair some god got hold of me.
I sizzled in his blue volts like a desert prophet.
The nights snapped out of sight like a lizard’s eyelid :
A world of bald white days in a shadeless socket.
A vulturous boredom pinned me in this tree.
If he were I, he would do what I did.

by Sylvia Plath

di Killy Sparre, art photography

sabato 24 settembre 2016

Qualcuno ha detto. di Rebecca di Santo

Qualcuno ha detto
che per fare le cose
si fa così.
Si fa in questo modo
e in nessun altro.
Non da lì
nemmeno da là.
Si prende la vita per quel verso
e nessun endecasillabo sdrucciolo.

Qualcuno ha detto
che non è bene essere diversi.
'Ché il rischio è rimanere senza coperta.
Che dobbiamo pure chiuderci a chiave dentro
porte blindate
finestre con grate spesse
aria condizionata
e tante facce che ci sorridono dalla tv.

Qualcuno, poi,
ha preso la sua vita
il suo unico grande amore fra le braccia
e, con quattro stracci,
si è messa per la strada:
se stessa,
il suo vivere
e nessuno da seguire

se non i suoi passi.

Rebecca

Rebecca al LAC, Lago di Lugano, giugno o luglio 2016