In principio fu Karl Marx, statuario ed elevato.
Ma in principio fu anche Marilyn Monroe,
sconcia, seduta per terra con le calze a rete e un sorriso che non c’era, fra
le labbra e il biondo.
E questa è tutta la storia, da allora sino ad
oggi. La sintesi dell’origine e dell’evoluzione. Tutto ciò che aggiungerò
svelerà soltanto delle sfumature, digressioni, ma, in realtà, ciò che dovevo
dire l’ho detto e non si tratta di un riassunto, non è ermetismo o mancanza di
parole, è la verità stessa che compie il senso. Due poster appesi nella camera
che dividevo coi miei fratelli.
Un tracciato senza soluzione di continuità
unisce, a ritroso, tutti i fili, e mi porta qui, ingrassata per inerzia,
infuriata per fede.
Ho sempre ritenuto dire la mia un imperativo,
dirla a gran voce a partire dall’adolescenza, dire e partecipare sono il senso
stesso della costruzione del futuro. Questo è un punto di unione coi poster
appesi.
La mia famiglia proletaria, sia per classe che
per figliolanza, mi ha sospinta ai margini della rabbia fra crisi esistenziali
e adesione emotiva alla politica. Questo significa che non è stato
l’approfondimento intellettuale a guidare i miei passi, seppure trattato in
modica e rispettosa quantità, bensì la condizione della mia pancia.
In quanto donna riconosco la pancia come locus amoenus e horridus, il luogo dove si accoglie e si disfa, il cervello più
esposto e reattivo.
È per questo che non sono pacifista, è per
questo che ho visto da vicino i manganelli, per questo che ho aderito alle
scaramucce in piazza, perché avevo già vissuto lo scontro diretto col potere,
l’avevo vissuto a tavola, l’avevo vissuto nella cultura maschilista che faceva
nascondere mia madre quando andava a fare le pulizie in casa altrui.
Quella donna non si nascondeva alla società, si
nascondeva al marito (mio padre), che sceso dalla montagna d’Abruzzo, non
poteva tollerare che una donna lavorasse. Nemmeno se i figli erano cinque e se
le esigenze familiari andavano facendosi pressanti.
In quel mio ambiente, si taceva il bisogno e si stava
fermi, nessun movimento, né brusco né cauto, era auspicabile. Meglio lasciare
tutto com’era, nonostante poi, a sera, davanti al telegiornale, si inveisse
contro Andreotti, contro Moro, e nonostante si andasse a Largo Ravizza a
salutare il nuovo sindaco comunista; il sindaco breve di Roma, Luigi
Petroselli. ‘ché, vorrei dire in faccia alla barba di Marx, i comunisti qui da
noi hanno sempre avuto vita breve.
Così sono diventata comunista, nella convinzione
che “Letto 26” l’avesse scritta mio fratello e, nel timore, di non comprenderne
il senso fino in fondo. Ad esempio quella parola in quella frase: il chianti ammazzalanemia, cosa voleva
dire? Il chianti non sapevo cosa
fosse, ma, più di tutto, era quella sorta di imprecazione, che intendevo senza
dubbio alcuno tutta attaccata, a non essermi nota e a disturbarmi nella
conoscenza del senso di tutto il testo e che mi impediva di comprendere appieno
mio fratello. Per giunta, fra tutti, il fratello politico!
Innanzi alle cose note, c’erano quindi molte
cose ignote.
Se è vero che ero consapevole che Karl Marx fosse
il comunista dei comunisti, c’era poi una forma di garbata povertà che vivevo e
che non sapevo. Amavo uscire con mia madre, quando eravamo sole c’era sempre
qualche variazione alla quotidianità, che invece era vissuta sempre identica in
presenza di mio padre. Oltre alle chiacchierate coi fruttivendoli, i macellai e il pizzicagnolo, al mercato di piazza Pellettier,
c’erano poi degli impegni che intendevo come piacevoli gite. Così, prendevamo
talvolta il 44 e arrivavamo in centro. Il regno di via dei Giubbonari, dei
negozietti, degli acquisti qualche volta. L’edificio in cui andavamo, si trovava in piazza del
Monte di Pietà, anzi l’edificio in cui entravamo era proprio il monte di pietà,
che sentivo chiamare più confidenzialmente monte dei pegni. C’era da entrare,
salire – mi sembra –, vetrata a dividere noi da chi lì ci lavorava, vetrinette
con l’oro. Il da fare di mia madre in quegli uffici per me era sullo sfondo, di
fatto mi fidavo di lei, quindi eravamo lì e andava bene, poi ci sarebbe
stata la passeggiata, la pizza o il cappuccino a seconda della voglia e dalla
stagione.
Non è che fosse così bello in realtà andare a
quel monte, che stava pure in pianura e che di bello aveva solo che alle sue
spalle, camminando un poco, si apriva il porticato del Palazzo dei Cento Preti
e il liberatorio Ponte Sisto; però io non capivo che mia madre scambiava scarse
ricchezze con contanti, e quando poi ho saputo che lo scambio era comunque in
perdita, c’erano gli interessi sulla pietà,
e se non restituivi quel denaro perdevi il tuo bene, allora è rimasto solo il romanticismo
affettivo, perché io dal capitalismo non mi faccio rubare le sensazioni della
fanciullezza, la confidenza parentale che quelle mattine portavano.
So anche che non mi piacciono i monili in oro,
il loro colore mi sembra grossolano, preferisco la chiarezza dell’argento, la
luce dell’acciaio.
Ho infarcito un sentimento naturale con nozioni
e ideologia, centri sociali, radio onda rossa e manifestazioni e sempre, su
tutto, urlava una bambina che non accettava lo scempio del possesso a sfregio
dei bisogni. Potrei elevare tutto questo a comunismo primitivo, che ben si
addice a quello stato dell’infanzia in cui ci si trova nel centro e proprio lì
ci si scambia tutto ciò che si ha, senza riserve.
Eppure la prima percezione della forza del
privato sul collettivo è avvenuta proprio lì, in quell’età minuscola, ancor
prima che al Monte o con Stefano Rosso. Ero a Largo Ravizza che, oltre a
Petroselli, aveva nel suo giardino le giostre. I miei mi permettevano raramente
di farci un giro, figuriamoci due, figuriamoci tanti, così, con sbadata scioltezza,
non esitai a salirvi quando mi invitò una bambina appena conosciuta; il papà
era consenziente, si apriva il regno dei giochi! Un giro, due di certo, forse
tre, poi la mano di quell’uomo mi stoppò, proprio come avrebbe fatto un addetto
al piantonamento dinanzi a qualcuno che vuole entrare in un luogo senza
autorizzazione; con quel gesto perentorio persi l’innocenza, fu di certo una
delle volte in cui parte della mia purezza prese il largo, lasciando il posto a
un senso di vergogna e rabbia. Vergogna per essermi buttata, per aver creduto di
stare ricevendo semplicemente un dono, e rabbia, la rabbia verso i miei poco
distanti che dovevano centellinare monete per necessità e per dovere di
condotta, non una rabbia contro ma una rabbia con. Ero con loro, anche se lo
avrei imparato negli anni.
Non funziona che vada a ognuno secondo le sue
capacità e non funziona che vada a ognuno secondo i suoi bisogni, viviamo
aggrovigliati e chi è senza riserve in tasca è nell’intrico più fondo; in fondo
alla fila, in fondo sulle panchine lontane dalla giostra.
Proprio mentre quella porzione di infanzia si
tramutava in circospezione, nacque il bocciolo dell’interesse per l’altro:
osservarlo, tenerne conto, metterlo al mio posto ed io mettermi nel suo,
esercizio facile in realtà in una famiglia come la mia, fatta di letti che si
aprivano a incastro, di voci discordanti alla stessa tavola, di aspirazioni
diverse.
Ci lavoro su, con la bambina vigile che sono e
con l’adulta confusa che sempre sono.