Anna
Era in posa da qualche
ora. Aveva imparato a far adagiare l’insofferenza e la stanchezza sul suo
stesso respiro. Le stringhe del corsetto erano ben strette, sotto il vestito
nero di velluto di seta, e questo migliorava la possibilità di mantenere quella
postura così imperiosa. Seduta su una poltrona mezza sfondata, si fingeva forte
e sicura. Sapeva che quel pittore, nonostante la miseria nella quale viveva,
aveva, fra le dita e i pennelli, il dono di trasformare il mondo.
Erano oramai sei giorni
che Anna posava. Aveva accettato che quell'uomo, povero e lercio, la ritraesse.
Nella sua città avrebbero pensato che l’età l’aveva resa vanitosa o, peggio
ancora, annoiata. Ma lei sapeva, in cuor suo, che l’età la stava solo rendendo
disperata e piena di acrimonia.
Riconosceva in sé una
donna che si andava facendo brutta, seppure nel suo volto magnifico.
Venezia si rifletteva nei
suoi occhi. L’acqua dei canali ne esaltava i colori. Ma lei avvertiva una cupa negazione
dentro sé: quell’acqua ristagnava. I ponticelli che permettevano di traversare
le calle della città, la sorprendevano spesso sospesa sui suoi pensieri senza
spazio. Trovava in quell’acqua ferma, e spesso maleodorante, la prosecuzione
naturale del suo tormento.
Il sogno era finito e lei
non si svegliava. Il torpore della sua vita era agghiacciante.
foto di Elena Sarinena |
Il passato era chiuso,
reciso, e del futuro nessuna traccia.
Nella stanza di Antonio,
il pittore, arredata di scarti ma piena di luce e tele, avrebbe potuto
sciogliersi, ricordarsi di giocare, fingersi di nuovo felice e confidare nel
fatto che questa menzogna potesse funzionare. Invece quella vecchiaia
dell’anima che la stava ammalando, le rendeva impossibile vestire la vita di
abiti belli.
Antonio, era accalorato
attorno alla sua tavolozza, realizzata con delle stecche di legno tenute
assieme da un filo di ferro. Non poteva fare altro che guardarlo, il ritratto
prevedeva che Anna avesse lo sguardo diretto, alto di fronte a sé. Occhi negli
occhi col mondo.
Coperto per lunghi tratti
dalla grande tela su cui lavorava, l’uomo sembrava usare un piccone nel cercare
di mettere lei, le sue forme e la sua intensità, su quel cotone sottile e teso.
Dai
giorni in cui aveva lasciato casa, era trascorso del tempo eppure nulla aveva
trovato una sua collocazione. La passione che l’aveva travolta non le aveva
lasciato scampo. Lasciare Aleksei Aleksandrovič Karenin, non era stato
faticoso. Credeva nel suo egoismo. Credeva nel suo grembo scaldato e accolto
dal grembo di Vronskij. Eppure il suo personale diluvio era drammatico. Lei non
aveva potuto portare sull’arca suo figlio Serëža e si ritrovava a dover
accudire chi, dall'unione di quei grembi, era nata. Le avevano dato il suo
stesso nome: Anna. La chiamavano Annie, per garantirle, con quel vezzeggiativo,
un affetto altrimenti negato.
Cosa
c’era da fare allora? Ogni minuto ripassava le azioni, le possibilità, gli
errori. Ma il grande errore era stato credersi protagonista assoluta. Il
pensare al suo bisogno crudo e cieco, le aveva tolto completamente dalla mente
l’esistenza degli altri. Non aveva pensato all’egoismo e alla necessità di
sopravvivere che anche gli altri avrebbero messo in atto, al mutare degli
assetti, questo non lo aveva previsto.
Ciò
che aveva vissuto scendendo dal treno e incrociando gli occhi di Vronskij, era
stato onesto. Le era capitato, non avevano potuto fare altro. Dal trovarsi dei
loro sguardi era nato il desiderio. Il cieco bisogno di cercarsi ancora, di
possedersi e, infine, di non potersi separare.
Che
donna minuscola quell’Anna Karenina. Annientata da una forma di cecità.
Dall’improntitudine della sua dipendenza amorosa. Questo pensava Aleksei
Aleksandrovič e questo generava in lui una forma di odio lucido.
Come
poteva affidare il loro figlio a quella donna? Grande l’offesa all’istituzione
familiare, ma ancor più grande l’offesa all’intelligenza, all’amore di loro
figlio. La fuga in Italia per dimenticare. La fuga da San Pietroburgo per
potersi dedicare al suo giovane amore, la rendeva, agli occhi di Aleksei,
ottusamente corrosa dall’egoismo. Questa immagine gli permetteva di affinare
forme che non reputava di vendetta bensì di giustizia.
E
come rispondere, in giustizia, alla fuga di una madre? Dicendo al figlio che
quella donna era morta; permettendogli di creare un vuoto tale da poterlo
riempire di sogni.
E
cosa farne della madre? Vietarle di presentarsi al cospetto di quel bambino.
Allontanarla; lei reproba e, a detta della sua stessa decisione, felice.
Finalmente il sesto giorno
da modella era finito. Il quadro sarebbe stato pronto da lì a qualche giorno e,
fino ad allora, nessuno avrebbe potuto vederlo. Anna cercò di sgranchire le
ossa, allungò con delicatezza le braccia e si massaggiò i polsi. Il destro era
coperto dal guanto di seta lucida mentre il sinistro era libero. Anna si guardò
le dita, sottili ed eleganti come le ricordava. Eppure, in quel momento, non si
sarebbe stupita di scoprire che, quella che osservava, fosse la mano di
un’altra. La mano di una giovane donna che insufflava il respiro della vita,
dell’ambiente circostante. Piuttosto che sentirsi morta e brutta.
Perché l’amore di Vronskij
aveva smesso di bastarle? La risposta la sapeva, se l’era ripetuta così tante
volte. Vronskij non l’amava più. E come avrebbe potuto? Un uomo che spazzolava
i suoi capelli e sceglieva i suoi vestiti per tuffarsi nella vita mondana. Un
uomo che cercava il bello in ogni gesto e che del bello amava circondarsi. Più
volte aveva sentito i suoi occhi addosso. E aveva visto qualcosa nella piega
delle sue labbra, più che nello sguardo. Le sue labbra così amate e morbide,
nello spiarla, si piegavano in una smorfia di distacco e disgusto. La sua bruttezza
invece di fuggire acquisiva prepotenza. Aveva preso a vestire sempre di scuro.
Il nero le donava, così come il marrone o il grigio. La sua pelle bianca resa
così soffice dalla cipria, formava un contrasto di rara bellezza ma lei non lo
sapeva più. Indossava quei colori scuri per punire la primavera che stava
arrivando. Voleva punire i germogli che si gettavano verso la luce crescendo
sugli esili rami degli alberi da frutta, nelle piazzette di Venezia. Voleva
punire Vronskij che non esitava a inseguire il passaggio di una fanciulla
ridente per la via.
E la vita non avrebbe
insistito a lungo, presto avrebbe davvero ceduto. L'esistenza le poneva innanzi ogni specchio possibile.
Anche le parole sconfortate di Vronskij, che la cercava per come era abituato
ad amarla, erano delle possibilità affinché Anna riprendesse il filo delicato e
tenace dell'esserci. La sera, Anna, indossava una camicia da notte di raso che
le scivolava sul corpo mostrandone la bellezza più sensuale. E questo vedeva
quell’uomo che le stava accanto.
Ma
lei lo rifuggiva e, insieme alla camicia da notte, assumeva sempre più gocce di
làudano. Anche in pieno giorno rimaneva melliflua e fredda. La rabbia dentro le
cresceva, mescolandosi al sentimento, fino ad allora sconosciuto, della
gelosia.
Era
stata una donna dalla moderna autonomia. Era stata capace di baciare il suo
Vronskij mentre sentiva la voce di Serëža avvicinarsi nel parco. Era stata
capace di non abbassare lo sguardo, anzi di mantenerlo fiero e orgoglioso,
mentre rivelava ad Aleksei Aleksandrovič di amare un altro. Ora nulla di tutto
ciò c’era più. Cosa, davvero, le stava accadendo?
Fra
le mille domande questa era quella che affiorava più di rado. Più spesso erano
domande minute e ossessive. Domandarsi cosa stesse avvenendo dentro di lei
l’avrebbe condotta dritta nel cuore del suo dolore.
Le
mancava il figlio, la presenza di Annie era un peso: meno l’amava e più sentiva
crescere il disprezzo per se stessa. Ogni movimento di Vronskij, era divenuto
per Anna testimonianza di tradimento, di tormento, di folle disperazione.
Con
in testa una valanga di pensieri salutò il pittore. La mantellina le
abbracciava le spalle, scoperte durante la posa per il dipinto. Non riusciva
mai a compiere lo stesso tragitto per arrivare a casa. La tradivano i riflessi
dell’acqua sui muri muffiti. La tradiva la sua perenne distrazione, la chiusura
del suo essere dentro un altro essere di cui, a stento, comprendeva la lingua.
Quella cosa dentro le parlava in continuazione. Le offriva continue sfumature
della stessa visuale. Quella cosa che le irrompeva da dentro si divertiva a
strattonarla, quando magari si era adagiata su una tenerezza. La tirava per il
braccio, quando decideva di credere ancora in quell’amore.
Sir John Lavery, Daylight raid from my Studio Window, 1917 |
Vronskij
non riusciva a starle vicino. Gli era insopportabile quello sguardo austero e
quella voce che tremava. Ne avvertiva la perenne alterazione. Aveva inteso
benissimo come la sua stessa presenza la ferisse, come le sue parole la
rendessero inquieta. Sapeva di essere amato da lei ma iniziava a pensare si
fosse pentita, di tutto. In fin dei conti vivevano una falsa vita. Dal momento
in cui avevano abbandonato la Russia, il primo mese era scorso fra baci e occhi
sgranati a raccontarsi reciprocamente cosa di bello l’Italia offriva alla loro
presenza.
Ricordava
perfettamente il gelato mangiato passeggiando nella grande piazza San Marco.
Ricordava come, senza nessun preavviso, perlomeno per lui, improvvisamente Anna
era mutata. Si scambiavano le coppe di gelato. Lei offriva il suo limone e la
sua fragola. Mentre lui le proponeva il cioccolato e la vaniglia. Si scontravano,
amalgamandosi, i loro gusti. Poi lo sguardo di lei si era fatto serio, anzi
spaventato. Aveva gettato il gelato verso un muro a loro vicino e aveva chiesto
con voce tremante e stridula di tornare a casa. Da quel momento non era mai più
tornata Anna, se non per lampi fugaci.
Non
confidava più nel tempo, in quella zattera alla deriva, lei si andava
rafforzando nelle sue ostinazioni e, al contempo, si allontanava dalla terra in
cui vivevano insieme. Il bellissimo Vronskij si scrutava nello specchio e
vedeva ancora il suo volto. Dentro sé sentiva ancora l’amore per quella donna
ma iniziava a volerne fuggire il più lontano possibile. Sperava, allontanandosi
di ritrovare al ritorno la sua donna amata.
La
sera quando si stendevano vicini, la pelle di Anna aveva l’odore aspro di un
limone. Il làudano andava mutando quella pelle levigata. La tensione, nella
quale viveva, aveva dato ai suoi occhi un’assurda forma, nel suo buio le
pupille erano state inghiottite e le palpebre superiori tendevano a poggiare perennemente
su quelle inferiori, quasi a cercare riposo. Forse era proprio per colpa di
quelle fessure, da cui si era ridotta a sorvegliare l’esistenza, che la vita le
appariva così velenosa.
Antonio Ambrogio Alciati, Il convegno, 1918 |
Anna
arrivò al traghetto senza neanche troppo badarvi. Vi salì. Il bigliettaio la
riconobbe e la fece accomodare. Si sedette sul lato sinistro. Le belle giornate
permettevano di viaggiare con il vento che spettinava i capelli e sussurrava
parole incomprensibile nelle orecchie. Qualcuno, che ne aveva incrociato lo
sguardo durante quella breve traversata, avrebbe potuto testimoniare di averla
sentita parlare da sola. Povera donna, qualcuno aveva pensato. Parlava col
vento.
Anna
cercava il conforto, un abbraccio che le avrebbe consentito di riposare,
poggiare il capo sul morbido tessuto di un canapè e addormentarsi, coccolata e
diretta verso un sicuro risveglio.
Anna
guardava quell’acqua schiumosa e allegra e la sentiva pesarle in cuore. Pensava
di tenere la mano di Serëža nella sua e di ridere, schizzati entrambe dalle
onde birichine. Poi il bordo del sogno si faceva nero e Vronskij le passava
accanto senza vederla, nelle mani teneva dei fiori. Erano fiori di campo, lui
stesso li aveva raccolti. Ancora aveva fra le dita la terra. Ma non erano fiori
per lei, li stava portando via. Verso un vaso poggiato su di un tavolino, in un
giardino fresco e ricco di gemme fiorite. Una fanciulla sedeva di spalle. Anna
ne avvertiva il sorriso innamorato anche solo osservandone i boccoli in
movimento. Chissà qual era il suo nome. Lo chiedeva all’acqua. Avvertì il
precipizio quando le giunse la voce di Annie, la figlia non amata, la voce era
dentro la sua testa.
Per
fortuna erano arrivati dall’altra parte. Nonostante i veneziani la chiamassero
terraferma, quella piccola cittadina dirimpetto a Venezia, non le sembrava
affatto tale. Avvertiva uno strano impeto sotto i piedi. Come qualcosa che si
scaldava e la spingeva. Si risolse nel seguirlo. A Mestre era stata solo di
passaggio, quando dalla stazione si erano diretti verso il porto per Venezia.
Piccoli passi affannati, ora, la facevano muovere a caso. I pensieri avevano
raggiunto una velocità così sconnessa da risultare inafferrabili. Saette
mozzafiato. Ogni immagine, là fuori, diveniva un vortice di parole, tra fiamme
e battere di martello. Il cielo si andava coprendo e il vento aumentava di
intensità. La mantella non era più sufficiente ad abbracciarla. Lungo le vie
guardava le persone passare e sentiva che presto o tardi avrebbe dovuto
chiedere qualcosa a qualcuno.
“Mi
scusi, dove devo andare?”, oppure “La prego, potrebbe prendermi per mano e
accompagnarmi in un posto pieno di silenzio?”. Questo la legava alle persone
che passavano al suo fianco ma, al tempo stesso, ognuno di quegli esseri le si
rivelava irraggiungibile da dove lei si trovava.
Una
bambina uscì correndo da un grande portone di legno. Anna sentì verso di lei
una grande rabbia e scoppiò a ridere. Doveva andarsene. Qualche goccia di
pioggia le pungeva il volto. Ma erano così poche e sole, le sembrava le
somigliassero. Le sembrava che la testa perdesse peso mentre i suoi piedi
andavano sempre più veloci. Perché? Perché si stava muovendo come se conoscesse
la ragione del suo andare.
Vronskij
portava i fiori alla ragazza dai boccoli e lasciava lei sola, in preda a
quell’altra che da dentro la sapeva più lunga di lei, che doveva vedersela con
quella cittadina sconosciuta. D’un tratto arrivò il fischio noto di un treno.
Sollevò lo sguardo, portandolo da dentro se stessa al piazzale cui era giunta.
Le mancò il fiato. La piazza circolare era così bella. Il selciato permetteva
alle carrozze di emettere un suono così poetico. E i colori? I colori accesi
delle panchine vagamente inumidite da quella pioggia già passata. Il fiato
stentava a riprendere. Si ricordò di essere donna, di essere adulta, di avere
due figli e nessun amore. Ricordò di essere lontana da casa, da ogni sua casa e
questo la spaventò.
Jean Cocteau - Le Sang d’un Poète, 1930 |
Perché
con tutta quell’aria, in quel luogo così grande, le mancava proprio l’aria? Si
toccò le narici. Si toccò la gola. Si toccò e non sentì nulla. Come se avesse
raggiunto l’inconsistenza. Eppure i suoi occhi vedevano tutto, compresa se
stessa.
Spinta
da quella follia mozzata continuò ad avanzare. Entrò alla stazione, nella sala
della biglietteria.
Uomini
coi loro cappelli, donne vestite di velluti e sete, qualche bambino.
L’odore
di ferro e carbone, di fumo e di sigari. Le girava la testa e ancora il respiro
non tornava regolare. La vista era offuscata. Poi, finalmente, scovò
un’immagine dentro sé o forse era un’immagine di quell’altra che si portava
appresso. In ogni caso era un’immagine buona e vi si aggrappò come fosse una
fonte d’acqua benedetta. C’era il canapè che aveva desiderato e una candela.
Il
respiro si fece regolare. Fiera come un tempo Anna, sollevò lo sguardo e
riconobbe il luogo in cui era. Non sentiva più la sua visitatrice dentro. Era
sola e sentiva con tutto il cuore di amare il suo ometto, di volerlo
riabbracciare, voleva che Serëža potesse ritrovarla. Voleva poter gridare la
sua onestà.
Finalmente
non sentiva più di dover rincorrere nulla. La candela si era di nuovo accesa e
il grande amore le riempiva il petto. Affrettò il passo. Veloce, sempre di più.
Così si ritrovò al binario
3. Da lì erano arrivati: Vronskij e quella donna innamorata che era stata. Da
lì. Si presero per mano. E comprese in un solo rabbuiato istante che non era
vero nulla. L’altra era lì con lei e le teneva la mano.
La guardò e dovette
ammettere che era proprio come lei.
Ad entrambe sfuggì un
sorriso. Intanto aveva fatto qualche passo ancora. Lungo la banchina.
Lo sbuffo di vapore del
treno arrivava col suo fischio assordante. Si volsero insieme verso i binari e
si tuffarono. Come fossero due ballerine in perfetta sincronia.
Chi vide la scena
testimoniò che la donna, lanciandosi, sorrideva e teneva le braccia aperte e le
dita schiuse come stesse abbozzando un volo.
Ettore Tito, Con la rosa tra le labbra, 1895 |