domenica 12 marzo 2017

Anna (Karenina)

Anna

Era in posa da qualche ora. Aveva imparato a far adagiare l’insofferenza e la stanchezza sul suo stesso respiro. Le stringhe del corsetto erano ben strette, sotto il vestito nero di velluto di seta, e questo migliorava la possibilità di mantenere quella postura così imperiosa. Seduta su una poltrona mezza sfondata, si fingeva forte e sicura. Sapeva che quel pittore, nonostante la miseria nella quale viveva, aveva, fra le dita e i pennelli, il dono di trasformare il mondo.
Erano oramai sei giorni che Anna posava. Aveva accettato che quell'uomo, povero e lercio, la ritraesse. Nella sua città avrebbero pensato che l’età l’aveva resa vanitosa o, peggio ancora, annoiata. Ma lei sapeva, in cuor suo, che l’età la stava solo rendendo disperata e piena di acrimonia.
Riconosceva in sé una donna che si andava facendo brutta, seppure nel suo volto magnifico.
Venezia si rifletteva nei suoi occhi. L’acqua dei canali ne esaltava i colori. Ma lei avvertiva una cupa negazione dentro sé: quell’acqua ristagnava. I ponticelli che permettevano di traversare le calle della città, la sorprendevano spesso sospesa sui suoi pensieri senza spazio. Trovava in quell’acqua ferma, e spesso maleodorante, la prosecuzione naturale del suo tormento.
Il sogno era finito e lei non si svegliava. Il torpore della sua vita era agghiacciante.
foto di Elena Sarinena

Il passato era chiuso, reciso, e del futuro nessuna traccia.
Nella stanza di Antonio, il pittore, arredata di scarti ma piena di luce e tele, avrebbe potuto sciogliersi, ricordarsi di giocare, fingersi di nuovo felice e confidare nel fatto che questa menzogna potesse funzionare. Invece quella vecchiaia dell’anima che la stava ammalando, le rendeva impossibile vestire la vita di abiti belli.
Antonio, era accalorato attorno alla sua tavolozza, realizzata con delle stecche di legno tenute assieme da un filo di ferro. Non poteva fare altro che guardarlo, il ritratto prevedeva che Anna avesse lo sguardo diretto, alto di fronte a sé. Occhi negli occhi col mondo.
Coperto per lunghi tratti dalla grande tela su cui lavorava, l’uomo sembrava usare un piccone nel cercare di mettere lei, le sue forme e la sua intensità, su quel cotone sottile e teso.
Dai giorni in cui aveva lasciato casa, era trascorso del tempo eppure nulla aveva trovato una sua collocazione. La passione che l’aveva travolta non le aveva lasciato scampo. Lasciare Aleksei Aleksandrovič Karenin, non era stato faticoso. Credeva nel suo egoismo. Credeva nel suo grembo scaldato e accolto dal grembo di Vronskij. Eppure il suo personale diluvio era drammatico. Lei non aveva potuto portare sull’arca suo figlio Serëža e si ritrovava a dover accudire chi, dall'unione di quei grembi, era nata. Le avevano dato il suo stesso nome: Anna. La chiamavano Annie, per garantirle, con quel vezzeggiativo, un affetto altrimenti negato.
Cosa c’era da fare allora? Ogni minuto ripassava le azioni, le possibilità, gli errori. Ma il grande errore era stato credersi protagonista assoluta. Il pensare al suo bisogno crudo e cieco, le aveva tolto completamente dalla mente l’esistenza degli altri. Non aveva pensato all’egoismo e alla necessità di sopravvivere che anche gli altri avrebbero messo in atto, al mutare degli assetti, questo non lo aveva previsto.
Ciò che aveva vissuto scendendo dal treno e incrociando gli occhi di Vronskij, era stato onesto. Le era capitato, non avevano potuto fare altro. Dal trovarsi dei loro sguardi era nato il desiderio. Il cieco bisogno di cercarsi ancora, di possedersi e, infine, di non potersi separare.

Che donna minuscola quell’Anna Karenina. Annientata da una forma di cecità. Dall’improntitudine della sua dipendenza amorosa. Questo pensava Aleksei Aleksandrovič e questo generava in lui una forma di odio lucido.
Come poteva affidare il loro figlio a quella donna? Grande l’offesa all’istituzione familiare, ma ancor più grande l’offesa all’intelligenza, all’amore di loro figlio. La fuga in Italia per dimenticare. La fuga da San Pietroburgo per potersi dedicare al suo giovane amore, la rendeva, agli occhi di Aleksei, ottusamente corrosa dall’egoismo. Questa immagine gli permetteva di affinare forme che non reputava di vendetta bensì di giustizia.
E come rispondere, in giustizia, alla fuga di una madre? Dicendo al figlio che quella donna era morta; permettendogli di creare un vuoto tale da poterlo riempire di sogni.
E cosa farne della madre? Vietarle di presentarsi al cospetto di quel bambino. Allontanarla; lei reproba e, a detta della sua stessa decisione, felice.



Finalmente il sesto giorno da modella era finito. Il quadro sarebbe stato pronto da lì a qualche giorno e, fino ad allora, nessuno avrebbe potuto vederlo. Anna cercò di sgranchire le ossa, allungò con delicatezza le braccia e si massaggiò i polsi. Il destro era coperto dal guanto di seta lucida mentre il sinistro era libero. Anna si guardò le dita, sottili ed eleganti come le ricordava. Eppure, in quel momento, non si sarebbe stupita di scoprire che, quella che osservava, fosse la mano di un’altra. La mano di una giovane donna che insufflava il respiro della vita, dell’ambiente circostante. Piuttosto che sentirsi morta e brutta.
Perché l’amore di Vronskij aveva smesso di bastarle? La risposta la sapeva, se l’era ripetuta così tante volte. Vronskij non l’amava più. E come avrebbe potuto? Un uomo che spazzolava i suoi capelli e sceglieva i suoi vestiti per tuffarsi nella vita mondana. Un uomo che cercava il bello in ogni gesto e che del bello amava circondarsi. Più volte aveva sentito i suoi occhi addosso. E aveva visto qualcosa nella piega delle sue labbra, più che nello sguardo. Le sue labbra così amate e morbide, nello spiarla, si piegavano in una smorfia di distacco e disgusto. La sua bruttezza invece di fuggire acquisiva prepotenza. Aveva preso a vestire sempre di scuro. Il nero le donava, così come il marrone o il grigio. La sua pelle bianca resa così soffice dalla cipria, formava un contrasto di rara bellezza ma lei non lo sapeva più. Indossava quei colori scuri per punire la primavera che stava arrivando. Voleva punire i germogli che si gettavano verso la luce crescendo sugli esili rami degli alberi da frutta, nelle piazzette di Venezia. Voleva punire Vronskij che non esitava a inseguire il passaggio di una fanciulla ridente per la via.
E la vita non avrebbe insistito a lungo, presto avrebbe davvero ceduto. L'esistenza  le poneva innanzi ogni specchio possibile. Anche le parole sconfortate di Vronskij, che la cercava per come era abituato ad amarla, erano delle possibilità affinché Anna riprendesse il filo delicato e tenace dell'esserci. La sera, Anna, indossava una camicia da notte di raso che le scivolava sul corpo mostrandone la bellezza più sensuale. E questo vedeva quell’uomo che le stava accanto.
Ma lei lo rifuggiva e, insieme alla camicia da notte, assumeva sempre più gocce di làudano. Anche in pieno giorno rimaneva melliflua e fredda. La rabbia dentro le cresceva, mescolandosi al sentimento, fino ad allora sconosciuto, della gelosia.
Era stata una donna dalla moderna autonomia. Era stata capace di baciare il suo Vronskij mentre sentiva la voce di Serëža avvicinarsi nel parco. Era stata capace di non abbassare lo sguardo, anzi di mantenerlo fiero e orgoglioso, mentre rivelava ad Aleksei Aleksandrovič di amare un altro. Ora nulla di tutto ciò c’era più. Cosa, davvero, le stava accadendo?
Fra le mille domande questa era quella che affiorava più di rado. Più spesso erano domande minute e ossessive. Domandarsi cosa stesse avvenendo dentro di lei l’avrebbe condotta dritta nel cuore del suo dolore.
Le mancava il figlio, la presenza di Annie era un peso: meno l’amava e più sentiva crescere il disprezzo per se stessa. Ogni movimento di Vronskij, era divenuto per Anna testimonianza di tradimento, di tormento, di folle disperazione.

Con in testa una valanga di pensieri salutò il pittore. La mantellina le abbracciava le spalle, scoperte durante la posa per il dipinto. Non riusciva mai a compiere lo stesso tragitto per arrivare a casa. La tradivano i riflessi dell’acqua sui muri muffiti. La tradiva la sua perenne distrazione, la chiusura del suo essere dentro un altro essere di cui, a stento, comprendeva la lingua. Quella cosa dentro le parlava in continuazione. Le offriva continue sfumature della stessa visuale. Quella cosa che le irrompeva da dentro si divertiva a strattonarla, quando magari si era adagiata su una tenerezza. La tirava per il braccio, quando decideva di credere ancora in quell’amore.

Sir John Lavery, Daylight raid from my Studio Window, 1917
Vronskij non riusciva a starle vicino. Gli era insopportabile quello sguardo austero e quella voce che tremava. Ne avvertiva la perenne alterazione. Aveva inteso benissimo come la sua stessa presenza la ferisse, come le sue parole la rendessero inquieta. Sapeva di essere amato da lei ma iniziava a pensare si fosse pentita, di tutto. In fin dei conti vivevano una falsa vita. Dal momento in cui avevano abbandonato la Russia, il primo mese era scorso fra baci e occhi sgranati a raccontarsi reciprocamente cosa di bello l’Italia offriva alla loro presenza.
Ricordava perfettamente il gelato mangiato passeggiando nella grande piazza San Marco. Ricordava come, senza nessun preavviso, perlomeno per lui, improvvisamente Anna era mutata. Si scambiavano le coppe di gelato. Lei offriva il suo limone e la sua fragola. Mentre lui le proponeva il cioccolato e la vaniglia. Si scontravano, amalgamandosi, i loro gusti. Poi lo sguardo di lei si era fatto serio, anzi spaventato. Aveva gettato il gelato verso un muro a loro vicino e aveva chiesto con voce tremante e stridula di tornare a casa. Da quel momento non era mai più tornata Anna, se non per lampi fugaci.
Non confidava più nel tempo, in quella zattera alla deriva, lei si andava rafforzando nelle sue ostinazioni e, al contempo, si allontanava dalla terra in cui vivevano insieme. Il bellissimo Vronskij si scrutava nello specchio e vedeva ancora il suo volto. Dentro sé sentiva ancora l’amore per quella donna ma iniziava a volerne fuggire il più lontano possibile. Sperava, allontanandosi di ritrovare al ritorno la sua donna amata.
La sera quando si stendevano vicini, la pelle di Anna aveva l’odore aspro di un limone. Il làudano andava mutando quella pelle levigata. La tensione, nella quale viveva, aveva dato ai suoi occhi un’assurda forma, nel suo buio le pupille erano state inghiottite e le palpebre superiori tendevano a poggiare perennemente su quelle inferiori, quasi a cercare riposo. Forse era proprio per colpa di quelle fessure, da cui si era ridotta a sorvegliare l’esistenza, che la vita le appariva così velenosa.
Antonio Ambrogio Alciati, Il convegno, 1918
Anna arrivò al traghetto senza neanche troppo badarvi. Vi salì. Il bigliettaio la riconobbe e la fece accomodare. Si sedette sul lato sinistro. Le belle giornate permettevano di viaggiare con il vento che spettinava i capelli e sussurrava parole incomprensibile nelle orecchie. Qualcuno, che ne aveva incrociato lo sguardo durante quella breve traversata, avrebbe potuto testimoniare di averla sentita parlare da sola. Povera donna, qualcuno aveva pensato. Parlava col vento.
Anna cercava il conforto, un abbraccio che le avrebbe consentito di riposare, poggiare il capo sul morbido tessuto di un canapè e addormentarsi, coccolata e diretta verso un sicuro risveglio.
Anna guardava quell’acqua schiumosa e allegra e la sentiva pesarle in cuore. Pensava di tenere la mano di Serëža nella sua e di ridere, schizzati entrambe dalle onde birichine. Poi il bordo del sogno si faceva nero e Vronskij le passava accanto senza vederla, nelle mani teneva dei fiori. Erano fiori di campo, lui stesso li aveva raccolti. Ancora aveva fra le dita la terra. Ma non erano fiori per lei, li stava portando via. Verso un vaso poggiato su di un tavolino, in un giardino fresco e ricco di gemme fiorite. Una fanciulla sedeva di spalle. Anna ne avvertiva il sorriso innamorato anche solo osservandone i boccoli in movimento. Chissà qual era il suo nome. Lo chiedeva all’acqua. Avvertì il precipizio quando le giunse la voce di Annie, la figlia non amata, la voce era dentro la sua testa.
Per fortuna erano arrivati dall’altra parte. Nonostante i veneziani la chiamassero terraferma, quella piccola cittadina dirimpetto a Venezia, non le sembrava affatto tale. Avvertiva uno strano impeto sotto i piedi. Come qualcosa che si scaldava e la spingeva. Si risolse nel seguirlo. A Mestre era stata solo di passaggio, quando dalla stazione si erano diretti verso il porto per Venezia. Piccoli passi affannati, ora, la facevano muovere a caso. I pensieri avevano raggiunto una velocità così sconnessa da risultare inafferrabili. Saette mozzafiato. Ogni immagine, là fuori, diveniva un vortice di parole, tra fiamme e battere di martello. Il cielo si andava coprendo e il vento aumentava di intensità. La mantella non era più sufficiente ad abbracciarla. Lungo le vie guardava le persone passare e sentiva che presto o tardi avrebbe dovuto chiedere qualcosa a qualcuno.
“Mi scusi, dove devo andare?”, oppure “La prego, potrebbe prendermi per mano e accompagnarmi in un posto pieno di silenzio?”. Questo la legava alle persone che passavano al suo fianco ma, al tempo stesso, ognuno di quegli esseri le si rivelava irraggiungibile da dove lei si trovava.
Una bambina uscì correndo da un grande portone di legno. Anna sentì verso di lei una grande rabbia e scoppiò a ridere. Doveva andarsene. Qualche goccia di pioggia le pungeva il volto. Ma erano così poche e sole, le sembrava le somigliassero. Le sembrava che la testa perdesse peso mentre i suoi piedi andavano sempre più veloci. Perché? Perché si stava muovendo come se conoscesse la ragione del suo andare.
Vronskij portava i fiori alla ragazza dai boccoli e lasciava lei sola, in preda a quell’altra che da dentro la sapeva più lunga di lei, che doveva vedersela con quella cittadina sconosciuta. D’un tratto arrivò il fischio noto di un treno. Sollevò lo sguardo, portandolo da dentro se stessa al piazzale cui era giunta. Le mancò il fiato. La piazza circolare era così bella. Il selciato permetteva alle carrozze di emettere un suono così poetico. E i colori? I colori accesi delle panchine vagamente inumidite da quella pioggia già passata. Il fiato stentava a riprendere. Si ricordò di essere donna, di essere adulta, di avere due figli e nessun amore. Ricordò di essere lontana da casa, da ogni sua casa e questo la spaventò.
Jean Cocteau - Le Sang d’un Poète, 1930

Perché con tutta quell’aria, in quel luogo così grande, le mancava proprio l’aria? Si toccò le narici. Si toccò la gola. Si toccò e non sentì nulla. Come se avesse raggiunto l’inconsistenza. Eppure i suoi occhi vedevano tutto, compresa se stessa.
Spinta da quella follia mozzata continuò ad avanzare. Entrò alla stazione, nella sala della biglietteria.
Uomini coi loro cappelli, donne vestite di velluti e sete, qualche bambino.
L’odore di ferro e carbone, di fumo e di sigari. Le girava la testa e ancora il respiro non tornava regolare. La vista era offuscata. Poi, finalmente, scovò un’immagine dentro sé o forse era un’immagine di quell’altra che si portava appresso. In ogni caso era un’immagine buona e vi si aggrappò come fosse una fonte d’acqua benedetta. C’era il canapè che aveva desiderato e una candela.
Il respiro si fece regolare. Fiera come un tempo Anna, sollevò lo sguardo e riconobbe il luogo in cui era. Non sentiva più la sua visitatrice dentro. Era sola e sentiva con tutto il cuore di amare il suo ometto, di volerlo riabbracciare, voleva che Serëža potesse ritrovarla. Voleva poter gridare la sua onestà.
Finalmente non sentiva più di dover rincorrere nulla. La candela si era di nuovo accesa e il grande amore le riempiva il petto. Affrettò il passo. Veloce, sempre di più.

Così si ritrovò al binario 3. Da lì erano arrivati: Vronskij e quella donna innamorata che era stata. Da lì. Si presero per mano. E comprese in un solo rabbuiato istante che non era vero nulla. L’altra era lì con lei e le teneva la mano.
La guardò e dovette ammettere che era proprio come lei.
Ad entrambe sfuggì un sorriso. Intanto aveva fatto qualche passo ancora. Lungo la banchina.
Lo sbuffo di vapore del treno arrivava col suo fischio assordante. Si volsero insieme verso i binari e si tuffarono. Come fossero due ballerine in perfetta sincronia.

Chi vide la scena testimoniò che la donna, lanciandosi, sorrideva e teneva le braccia aperte e le dita schiuse come stesse abbozzando un volo.

Ettore Tito, Con la rosa tra le labbra, 1895