sabato 30 dicembre 2017

“Nonno Antonio” di Rebecca di Santo



Nonno Antonio ama i nipoti. Andrea e Angelo. 
Andrea è muto. 
Due gemellini esili come giunchi. Capelli biondi così sottili da sembrare impalpabili. 
Le sue mani rigide e solcate non riescono a carezzarli. Li spostano semmai e, a volte, qualcuno rimane impigliato nei polpastrelli ruvidi.
Seduto sulla sedia a rotelle ascolta la radio, sonnecchia, scoreggia e si lamenta.
I bambini addobbano l’albero di natale. Nonno ride. Neanche capisce perché. Non li capisce quei due. Ma sono uno spasso.
Ora giocano ad ornare il nonno. Qualche pallina sulle gambe e nelle mani, un paio all’orecchio e poi fili d’argento e lucine.
I bambini sono eccitati e nonno ride.
Spengono la luce. Rimangono solo le intermittenze che sembra facciano impazzire la stanza.
Accendono le tre candele rosse con gli angeli. E iniziano a ballare mentre Angelo canta.
La cera cola sulle mani del nonno.
Nonno ride e fa cenno di no. Ma ride.
La cera va anche sui capelli e con la cera una fiammella. I capelli rapidi si infiammano.
I gemellini ridono. Nonno tossisce e sputa e sente bruciare.
I gemellini saltano e ridono.
Nonno afferra l’aria attorno. Prova con le mani. Gli manca il respiro.
Riesce ad acchiappare un giunco. Il fuoco ha preso i fili d’argento. I vestiti. La stoffa lisa della sedia a rotelle.
Nonno Antonio non molla. Sotto le dita nodose serra il polso del bambino.
Il fuoco si allarga.
Gli occhietti di Andrea esprimono l’urlo che non può uscire dalla bocca.
La fiamma rumorosa raggiunge i fili per terra; i fili in un brevissimo istante fanno divampare di vero fuco tutto l’albero.
Nessuno sapeva, prima, che un rogo è veloce e che ha una voce violenta. Ti mangia mentre ti squaglia la carne.
Mentre il nonno brucia.
Mentre il delicato bambino biondo, artigliato, arde.
Mentre Angelo è in bagno con la radio accesa a tutto volume.

Rebecca



venerdì 8 dicembre 2017

Lasciami stare. di Rebecca


Tutto il dolore sentito
tutte le grida.
Lasciati indietro.
Erano in un corridoio,
una gola fra rocce,
in un letto al buio
fra lacrime.
Mentre i miei occhi ritrovavano la luce
il buio si rintanava
nelle gocce di sangue
nascoste nel seno.
Ha sofferto in me
quella bambina,
nel giorno del menarca,
ha sofferto per scegliere
non tacere.
Ora sull'orrido più cupo
io provo a volare.
Lascia
stare
la
mia
mano.

Rebecca di Santo


Ettore Tito,
Con la rosa fra le labbra, 1895

sabato 25 novembre 2017

"L'unica, è vivere" di Rebecca

Dammi una botta forte
(che non mi riprendo).

Dammi una botta forte
(che non ricordo).

Dammi una botta forte
in quell'angolo dove mio padre è venuto a mancare.

Eccolo, è così
senza requie 
e velocissimo
finisce il corso.
Lo attraverso a piedi
lo attraverso ginocchioni
lo attraverso con la flebo del cesareo
lo attraverso attacchi di panico e confini
lo attraverso e nessuna macchina mi mette sotto.

Dammi retta,

l'unica
è vivere.


Rebecca

Rebecca fotografa Rebecca,
12 settembre 2013




domenica 12 novembre 2017

Imparare a far di conto. Rebecca di Santo



Mi metto qui
e conto fino a tre.
Non sarà sufficiente mi dici
allora mi sposto
e conto fino a sei.
Cerco di non guardare te
ma la pozzanghera di luce
che riflette il cielo.
Ho perso il conto.
Ho perso il conto
per tutte le volte che ho contato.
Ricordo quella volta;
contai fino a novecentosettantatrè
e, a ogni numero,
afferravo il lembo della notte
che era nella mia mente.
Ho accorciato il conto
per sfuggire alle tenebre.
Qui,
stesa,
a cucire l'orlo strappato

del mio dolore.

Rebecca

Foto di Elen Usdin

sabato 11 novembre 2017

"Fottiti" di Rebecca di Santo


Fottiti tu e la poesia.
Fottiti tu e la tristezza del saggio.
Fottiti tu senza voce e con troppe parole.
Fottiti con la calma del diseredato.
Fottiti con l'arguzia del tuo intuito.
Fottiti con l'ardore della tua passione.
Fottiti come uno scioglilingua.
Fottiti perché questa è poesia
e non è uno sfogo.

Fottiti perché l'ispirazione è nel sangue.
Fottiti perché non ho detto stai zitto
ma solamente che non mi interessa.

Fottiti perché la poesia non è romantica.
Fottiti perché questa calza smagliata
è l'arma più seducente che ho.
Fottiti perché sono volgare
eppure è in ginocchio che saluto l'entrata del giorno.


Jen Mazza,
Red Letter No. 5,
2007




domenica 5 novembre 2017

"FUGA in MI" di Rebecca di Santo



Mi prendo
parole regalo
parole pongo
parole cielo
parole canzone
parole sesso
parole di pane.
Mi prendo le parole e le bacio.
Mi prendo le parole e guarisco, 
le ingoio come pasticche.
Mi prendo parole di pena
parole di grida
parole di non farmi del male.
Mi prendo parole vai via
parole rosse
parole abbassa quella voce.
Mi prendo parole
senza alfabeto.
Mi prendo parole senza mai rubarle
mi prendo parole vanità.
Mi prendo parole sono donna
e tu inizia a pregare.
Parole di crema chantilly.
Parole di bicchiere d'acqua fresca.
Mi prendo parole 
che non ti dirò.
Parole azzurre
parole senza rima
parole dell'incanto.
Parole che giacevano nel pozzo degli Inca.
Parole spezzate in ideogrammi di fede.
Mi prendo parole aquilone
e me ne vò.





foto di Elene Usdin

domenica 22 ottobre 2017

Donatella Colasanti. "Non solo Strage del Circeo"

La storia più recente ci racconta di molti episodi di violenza sessuale.
Dal settembre del 1975 si aprono, con sanguinose grida, le porte dell'orrore:
è il massacro del Circeo il cui racconto e le cui immagini hanno fatto da sfondo all'immaginario di più generazioni.


Donatella Colasanti, 17 anni, la sera del la sera del 30 settembre 1975.
Viva,
Grida e e per questo attira l'attenzione, così
aprono il bagagliaio della 127, in via Paola, quartiere Trieste.
Donatella è viva.
Rosaria Lopez è lì, al suo fianco, morta.


Sono quelli gli anni del femminismo.
La possibilità di vedere il documentario "Processo per stupro" che riporta ampi stralci del processo per la violenza subita da Fiorella, mi spinge a provare a chiudere un cerchio (che poi si rivela già nel pensiero una spirale e nient'affatto un cerchio).
Quello fu il primo processo a porte aperte nella storia italiana. youtube.Processo per Stupro
Ciò che si può osservare nelle dinamiche di quel procedimento è che il processo mette sotto accusa la vittima.
Le sue abitudini, il perché uscisse la sera, fino alle domande più estreme.
Il teorema è semplice:
la donna (anzi, la femmina) se non sta tranquilla, a casa, in disparte, è automaticamente considerata colpevole o, quanto meno, complice.
Valeva nel 1975 e vale oggi. Un avvocato si permetteva di dire che se Fiorella fosse stata vicino al caminetto non avrebbe vissuto ciò che invece è stato.
Oggi invece che si dice?
Ah sì, si dice che un'aspirante attrice, in fin dei conti, sa cosa le spetta.
Si dice che, un'aspirante attrice, sa cosa può toccarle.
Com'è che si dice? "Fijo de 'na ballerina", figlio di una donna di spettacolo, che equivale a dire figlio di una prostituta.
Quindi cosa cercano queste donne? Attrici, attricette, soubrette?
Cosa cercano?
E cosa cercava Fiorella?


Donatella Colasanti, 17 anni, la sera del 30 settembre 1975.
Viva,
Grida e e per questo attira l'attenzione, così 
aprono il bagagliaio della 127, in via Paola, quartiere Trieste.
Donatella è viva.
Rosaria Lopez è lì, al suo fianco, morta.


E cosa cercava Donatella Colasanti? Una ragazza di borgata di fronte a tre figli della Roma bene, la Roma dei Parioli.
In effetti Donatella Colasanti non cercava proprio niente, come ha dimostrato la sua storia a seguire. Sì perché, Donatella, è sopravvissuta.
Donatella Colasanti è sopravvissuta a 36 ore di torture da parte di tre ragazzotti esaltati che avevano confuso i soldi con il potere e il potere con la sopraffazione della vita altrui: Andrea Ghira, Gianni Guido e Angelo Izzo.
Potete cercare i loro nomi, uno per uno, e scoprire quale megalomania li ha fatti sentire così potenti da torturare due ragazze. Quale ottuso delirio di potenza.
Rosaria Lopez morì, l'annegarono nell'acqua di una vasca da bagno, dopo minacce, sevizie e stupri.
Donatella sopravvisse. Dopo minacce, sevizie e stupri. 
Sopravvisse fingendosi morta a fianco del corpo dell'amica. 
Sopravvisse chiusa nel bagagliaio di una macchina.
Le foto del momento del ritrovamento sono così chiare da raccontare ben oltre i dati raccolti nei processi, nelle interviste e in tutte le dichiarazioni.
Donatella Colasanti però non è una vittima quieta. È, anzi, una vittima autonoma.


Donatella Colasanti.
Roma, 12 maggio 1958
Roma, 30 dicembre 2005


Questo per due motivi:
uno perché ha un suo pensiero;
due perché ha un'idea molto chiara della sua vita. 
Quando Enzo Biagi la intervistò, Donatella non subì la prepotenza del giornalista affermato, dinanzi a le il 'maschio' Biagi prova, in tutta evidenza, il fastidio di avere dinanzi una donna non banale. Il 'maschio' Biagi si fa aggressivo e sprezzante Non gradisce che una vittima, per di più donna, non si comporti da vittima. Non gradisce che una vittima non sia accondiscendente e non sia (ancora una volta) remissiva. youtube.Colasanti Biagi
Donatella Colasanti ha sentito il fiato della morte e, alla morte, è sopravvissuta: a chi altro deve chinarsi?
A quale altro uomo deve dire sì?
A nessuno.




E questo non è ammissibile per una cultura che ancora oggi dice che, in fin dei conti, quell'attricetta era accondiscendente e, intanto, non si domanda, come mai quel porco abbia approfittato del suo ruolo per farsi dire di da molte donne.
Chiedetevi questo, chiedetevi come mai il potere abbia bisogno del potere per ottenere favori che, diversamente, potrebbero essere sintonia di desiderio e di piacere e che richiedono ben altro investimento e vera reciprocità.

Per questo l'intervista durante un'intervista, Donatella Colasanti alla domanda "A conti fatti è una donna felice?" risponde:
«E come potrei non esserlo? Sono una miracolata e ogni giorno devo ringraziare Dio per avermi salvata. Quelli come me hanno il dovere di essere felici!».
Una donna consapevole del suo essere diviene una donna imbattibile.
La Colasanti scriverà poesie, salirà sul palco dei teatri come attrice e non si comporterà mai come una triste vittima. 
La verità è che coloro che vanno giudicati sono gli stupratori. Coloro che vanno giudicati sono coloro che muovono violenza contro una donna fino a violentarla, fino a ucciderla.
Così oggi, quando in molte muovono accuse contro Weinstein, il mondo delle persone piccole, il mondo di chi ancora è convinto che per interrompere la violenza di chi ti mette il suo pene in bocca sia sufficiente un "morsetto".
Sì queste sono le parole che usò l'avvocato Giorgio Zeppieri, avvocato difensore, nella sua arringa al Processo di cui raccontavo, eccole per intero:


Signori miei, una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. L'atto è incompatibile con l'ipotesi di una violenza. Tutti e quattro avrebbero incautamente abbandonato nella bocca della loro vittima il membro, parte che per antonomasia viene definita delicata dell'uomo. E su cui, mi si consenta, il coito orale si compie con una funzione che è tecnicamente qualificata, e che esprime una serie di atti voluti. Eh sì mi posso abbandonare, ma io lì non mi abbandono, sono io che posseggo. Lì il possesso è stato esercitato dalla ragazza sui maschi, dalla femmina sui maschi. È lei che prende, è lei che è parte attiva, sono loro passivi, inermi, abbandonati, nelle fauci avide di costei!

E in che mondo siamo ora? Nel mediocre mondo di chi preferisce lo status quo alla messa in discussione delle tacite regole, dice che nel terrore di uno stupro sarebbe sufficiente mordere per porre fine alla violenza.
Sarebbe sufficiente non uscire di sera.
Sarebbe sufficiente evitare di uscire da sola con un ragazzo.
Ebbene io dico questo:
sarebbe sufficiente educare questi giovani uomini all'ascolto.
Sarebbe sufficiente educare all'abbraccio.
Sarebbe sufficiente pensare che la sessualità è desiderata da entrambi i sessi ma, per essere vissuta fino in fondo, dovrebbe essere reciproca, consensuale, felice.
Così non è per molte donne e per molti uomini.




L'arringa dell'avvocato Tina Lagostena Bassi, difensore di parte civile, cercherà di mettere in luce proprio l'evidenza dell'errore di prospettiva che in quell'aula si perpetrava:

[...] nessuno di noi avvocati si sognerebbe d'impostare una difesa per rapina come s'imposta un processo per violenza carnale. Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali da difendere, ebbene nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa [...] dicendo «Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!»

Ecco, nessuno si sognerebbe di fare una difesa di questo genere, infangando la parte lesa soltanto.
Allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d'oro, l'oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. 
La vera imputata è la donna. 
E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un'imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare venire qui a dire «non è una puttana». Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. 
Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l'accusatore di un certo modo di fare processi per violenza.



Guardare quel documentario è utile perché, ancora oggi, proprio come nel processo del 1978, si dibatte sulle vittime e non sugli stupratori.
Ecco (perdonaci Donatella), siamo ancora lì.

A seguire l'intervista di Donatella Colasanti per Donna Moderna, era il 2005, a dicembre dello stesso anno Donatella morirà.

«È morta una ragazzina» sibila Donatella. «Qualcuno dovrà pagare per aver aperto le porte del carcere al suo assassino».
Cos'ha pensato quando ha letto del delitto di Campobasso?
«Ho ricevuto la notizia dall'Ansa. Mi sembrava impossibile. Non sapevo che avessero concesso la semilibertà a Izzo, uno che nel 1993 era pure evaso. E poi, nel luglio del 2003, al ministero di Grazia e Giustizia avevano promesso di comunicarmi qualsiasi decisione, permessi premio inclusi, che lo riguardasse. E invece l'ho appreso dai giornali. Ma ora basta: i responsabili dovranno essere puniti. Io non mi arrendo fino a quando non avrò avuto giustizia. Se necessario, mi rivolgerò anche al tribunale internazionale dell'Aia».
Con chi ce l'ha in particolare?
«L'elenco è lungo. Ma in testa metto Pierluigi Vigna, procuratore nazionale antimafia. È lui che ha dato credito a Izzo come collaboratore di giustizia. Cos'avrebbe mai potuto rivelare quel balordo assassino della strage di Piazza Fontana o dei processi su Andreotti?».
Ma questo che c'entra con il delitto di Campobasso?
«C'entra eccome! Come collaboratore, Izzo ha goduto di trattamenti particolari, ha dato l'impressione di essersi ravveduto, ha conosciuto altri pentiti, come il padre della ragazzina uccisa. Se non l'avesse incontrato, forse la bambina sarebbe ancora viva».
Angelo Izzo è lo straordinario simulatore di cui si parla oggi? Uno in grado di far credere a tutti di essere un uomo cambiato?
«Di straordinario c'è solo l'incapacità di chi doveva tenerlo sotto controllo. A Izzo è stato concesso l'incredibile: dal 1995 al 2003 è apparso più volte in televisione e sui giornali, affermando di aver commesso altri omicidi, rapine, sequestri di persona, prima del 1975 e cioè prima del massacro del Circeo. Nessuno, che io sappia, ha indagato su quelle rivelazioni. Gli hanno permesso di sbandierare il suo losco passato davanti al pubblico televisivo e sulle pagine dei quotidiani. Così, per il gusto dello scoop».
Secondo lei è un pazzo mitomane?
«Smettiamola con la storia del pazzo. Izzo non è un mostro vittima della follia. È qualcosa di peggio. Gli piace uccidere e gli piacciono i soldi. È uno che rifiuta di scontare la pena, che vorrebbe stare in galera come in albergo. Un mostro non si comporta così. Chi uccide perché è malato vuole pagare per i propri crimini, si pente, chiede addirittura di essere giustiziato. Izzo, no. È arrogante, fa male agli altri, non chiede mai scusa. È un assassino e basta».
La prima volta che l'ha incontrato, nel 1975, cos'ha pensato?
«Sembrava un bravo ragazzo. Parlava di musica classica, per farci buona impressione. Rosaria e io avevamo solo 17 anni! Ci ha invitate a una festa da ballo, dicendo che ci sarebbero stati ragazzi e ragazze, compagni di scuola. Per me la parola "scuola" fu una garanzia. Avevo visto Izzo e altri suoi amici diverse volte. Così per prendere un gelato. Quindi mi sono fidata».
Invece quella festa non c'è mai stata.
«Quando siamo arrivate nella villa del Circeo, ci hanno fatte subito entrare in casa. Ci hanno puntato una pistola contro, sghignazzando: "Ecco la festa!". Poi ci hanno chiuso in un bagno minuscolo, senz'aria. Ci hanno spogliate, tolto gli anelli, i documenti, tutto quello che avrebbe potuto renderci identificabili. Sapevano benissimo cosa stavano facendo. Era tutto preparato. I sacchi in cui ci avrebbero messe, da morte, ce li hanno mostrati subito. È stato terribile».
Izzo come si comportava?
«Voleva essere protagonista, al centro dell'attenzione. Ripeteva in continuazione che lui era capace di uccidere, sosteneva di far parte della banda dei marsigliesi, di essere molto amico di Jacques Berenguer, il capo. Anzi, era proprio per ordine del boss che ci aveva catturate. Diceva che ci avrebbe ammazzate. L'ora e il modo non erano stati decisi, ma dovevamo morire. "Da qui non uscirete vive" diceva con il suo sorrisetto malvagio. Recitava un copione».
Odiava le donne?
«Gli esseri umani, direi. Ce l'aveva con tutti. Si entusiasmava all'idea di sequestri e rapine. Era un balordo viziato, che voleva diventare qualcuno. Gli piaceva esercitare un potere assoluto su un'altra persona. Ma senza i suoi amici non ce l'avrebbe fatta. Ha sempre bisogno di complici, di qualcuno che gli faccia da sponda, lui».
Lei come ha fatto a salvarsi?
«A un certo punto ci hanno divise. Rosaria l'hanno portata nel bagno di sopra. Poi sono tornati da me. Ho capito che l'unica, minuscola, speranza che mi rimaneva era fingermi morta. Gianni Guido mi aveva fatto sdraiare per terra, mi aveva messo un piede sul petto e legato una cinghia attorno al collo. Ha tirato così forte che alla fine la fibbia si è rotta. Allora ha cominciato a infierire con la spranga e con i calci in testa».
Quindi non è stato Izzo a colpirla?
«No, Izzo si esaltava nel dare ordini. Provava gusto nel vedermi soffrire. A un certo punto, ho sentito una voce che diceva: "Questa non muore mai!". Allora ho deciso di stare immobile, come un animale paralizzato di fronte al pericolo. Sono rimasta così ferma che Izzo e gli altri due hanno pensato di avermi uccisa. Mi colpivano e io non fiatavo: una morta non prova dolore».
Poi l'hanno messa nel bagagliaio della macchina?
«Sì, assieme a Rosaria, che avevano annegato nella vasca da bagno, al piano di sopra. Ricordo che durante il viaggio verso Roma scherzavano: "Silenzio! Qui ci sono due morte". E nel mangianastri avevano messo la colonna sonora dell'Esorcista. Per fortuna, arrivati a Roma, hanno parcheggiato la macchina. Volevano andare a cena prima di disfarsi dei nostri corpi. Quando non li ho più sentiti, ho cominciato a urlare con il poco fiato che mi era rimasto».
Quando ha rivisto i suoi aguzzini?
«Una ventina di giorni dopo. Izzo e Guido in manette. Nella villa del Circeo, per un confronto. Ghira era già latitante».
Cos'ha provato?
«Niente. Credo di essermi gettata tutto alle spalle nel momento stesso in cui ho capito di essere salva».
Come si è comportato Izzo durante il processo nel 1976 a Latina?
«Aveva perso l'aria spavalda. Anzi, aveva paura. Tutte quelle donne, le femministe, dalla mia parte. La gente arrabbiata lo spaventava. Scappava via, non riusciva a rimanere in udienza per più di un'ora».
Ha letto che i suoi genitori, dopo il delitto di Campobasso, non ne vogliono più sapere di lui?
«Figurarsi! Un po' tardi per pentirsi. L'hanno sempre aiutato. Se non altro, lo hanno riempito di soldi e questo gli ha dato molta sicurezza».
Com'è cambiata la vita di Donatella Colasanti dopo il 29 settembre 1975?
«Ho sempre amato le cose belle, la musica. Quello che è successo non ha intaccato questa passione. Anzi, oltre al lavoro alla Regione, ho sempre coltivato un'attività di artista:  ho scritto poesie, ho recitato in teatro. Ma negli ultimi anni ho dovuto sospendere per dedicarmi alle mie battaglie giudiziarie».
Ha paura degli uomini?
«No, ma ho preferito stare sola, essere autonoma, come molte altre donne della mia generazione. Non ho sofferto per il fatto di non avere un marito, dei figli. Anche perché, me lo sento, nel prossimo anno e mezzo mi farò una famiglia tutta mia».
Non c'è stato nessun grande amore?
«Uno solo, molto spirituale. Poi lui è dovuto partire, per lavoro. Ma non voglio dire di più, è un mio segreto».
A conti fatti è una donna felice?
«E come potrei non esserlo? Sono una miracolata e ogni giorno devo ringraziare Dio per avermi salvata. Quelli come me hanno il dovere di essere felici!».
Riesce mai a guardare un thriller in televisione?
«Sì, i film gialli li vedo. E ogni volta penso: potrebbe essere vero, io l'ho vissuto. Ma guardo i thriller soprattutto perché mi piacciono i giudici americani, così combattivi nella ricerca della verità. Qui invece...».
Ma in fondo un po' di giustizia l'ha avuta. Il Tribunale di Latina ha emesso tre ergastoli.

«È vero, ma si trattava di una Corte d'Assise. A decidere era una giuria popolare, gente come me, come lei. E poi c'ero io a testimoniare. Per un mese non ho mancato mai un'udienza. Ho affrontato un processo a porte aperte. Ricordo l'avvocato di Izzo che diceva: "I tre giovani non volevano uccidere la Colasanti. L'hanno colpita in testa ma non è uscito neanche un po' di cervello". Io gli ho urlato: "Zitto! Non si permetta di parlare così". Avevo solo 18 anni, ma non mi sono fatta intimorire. Figurarsi se mi imbavagliano adesso!».



sabato 21 ottobre 2017

Un'arte. di Elizabeth Bishop


L’arte di perdere non è una disciplina dura
tante cose sembrano volersi perdere
che la loro perdita non è una sciagura.

Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta la tortura
delle chiavi di casa perse, delle ore spese male.
L’arte di perdere non è una disciplina dura.

Esercitati a perdere di più, senza paura:
luoghi, e nomi, e destinazioni di viaggio.
Nessuna di queste perdite sarà mai una sciagura.

Carlo Stanga, Illustratore
Interior Design

Ho perso l’orologio di mia madre. Era
mia ed è svanita – ops! – l’ultima di tre case amate.
L’arte di perdere non è una disciplina dura.

Ho perso due vasti regni, due città amate,
due fiumi, un continente. Mi mancano,
ma non è mica un disastro averle perdute.

Nemmeno perdere te (la figura, la voce allegra
il gesto che amo) mi smentirà. È chiaro, ormai:
l’arte di perdere non è una disciplina dura,
benché possa sembrare (scrivilo!) una sciagura.

Traduzione di Marilena Renda























ONE ART

The art of losing isn’t hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster.

Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn’t hard to master.

Then practice losing farther, losing faster:
places, and names, and where it was you meant
to travel. None of these will bring disaster.

I lost my mother’s watch. And look! my last, or
next-to-last, of three loved houses went.
The art of losing isn’t hard to master.

I lost two cities, lovely ones. And, vaster,
some realms I owned, two rivers, a continent.
I miss them, but it wasn’t a disaster.

—Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan’t have lied. It’s evident
the art of losing’s not too hard to master
though it may look like (Write it!) like disaster

venerdì 20 ottobre 2017

Acido e Femminicidio: violenza sulle donne.

Nel 2014, ad Agra, città del sud dell'India, è stato aperto un locale: Sheroes Hangout Café.
Si tratta di una caffetteria molto speciale, fra le sale e salette, fra le sedute esterne, il terrazzino e i tavolini all'interno, gli avventori che entrano trovano una biblioteca, un emittente radiofonica, una boutique e la caffetteria vera e propria.
Il nome scelto per il locale dice molto she + heroes = sheroes, più che eroine ma di certo donne.



E questo è il loro "hangout", il loro ritrovo e il loro punto di arrivo per un nuovo futuro.
Le donne che si prendono cura di questo luogo sono a tutti gli effetti eroine.

La caffetteria è stata aperta grazie alla volontà e al sostegno di Stop Acid Attack, associazione nata nel 2013 a New Delhi, per tutelare le vittime di violenza con acido, vittime maschili e femminili.

La prima iniziativa che ha richiamato l'attenzione sulla necessità di farsi carico socialmente delle donne offese dagli attentati con acido, è stata quella voluta da Musarrat Misbah, imprenditrice pakistana che, grazie alla Depilex Smileagain Foundation ha raccolto i fondi necessari per aprire 25 saloni di bellezza, i Centri Depilex, nei quali assumere e "trattare" donne sfigurate. 


Sheroes Hangout CaféFatehabad Road, Opposite The Gateway Hotel, Taj View Chowraha, Tajganj, Agra, Uttar Pradesh 282001, India
Telefono+91 562 400 0401


Musarrat Misbah si trovò fisicamente di fronte ad una donna sfregiata dall'acido che le chiedeva aiuto. Questo ha fatto sì che l'imprenditrice focalizzasse la sua attenzione sulla condizione assurda nella quale vivono uomini e donne sopravvissuti a questo tipo di violenza ed è così passata all'azione. Offrire un lavoro, per di più nell'ambiente dell'estetica, ambiente in cui si lavoro molto sul viso, offrire la possibilità di divenire figure professionali in grado anche di rendersi autonome rispetto ai saloni, ha significato davvero molto; sia per le singole donne che sono state coinvolte, sia per il forte impatto culturale:
quei volti non devono nascondersi ma sono in evidenza, quei volti raccontano una storia di cui la legge deve farsi carico.


Avere a disposizione un'arma come quella che di fatto è l'acido, è davvero troppo semplice, sia per la reperibilità delle sostanze necessarie, sia per l'economicità di tali sostanze. 

Le percentuali citano anche la presenza di uomini acidificati, di fatto il numero delle vittime femminili si impone. La sottomissione economica e culturale nella quale vivono è un fattore di rischio che le espone alla violenza materiale, laddove questo fenomeno è spaventosamente diffuso, le donne sono davvero considerate sorta di proprietà dell'uomo.

Qualsiasi manifestazione di volontà, qualsiasi affermazione di disaccordo viene punita poiché considerata impossibile.

L'uomo che subisce un NO, si sente legittimato ad uccidere.
Una donna che non voglia un matrimonio (organizzato senza la sua volontà), una donna sospettata di avere tradito il suo compagno (promesso sposo o sposo), una donna che rifiuti un rapporto sessuale, una ragazza che non possa dare un contributo economico al momento del matrimonio... ecco queste sono tutte condizioni che "autorizzano" una vendetta.

Sono molti i Paesi in cui questo stato delle cose è presente: India, Bangladesh, Pakistan, ma anche Stati africani come Nigeria, Etiopia, Uganda. In Europa e in America non c'è una casistica tale da costituire un problema di ordine sociale. 


Lei è Socheata Bun, 5 anni al momento dell'aggressione.
era con sua mamma, bersaglio dell'attacco.
foto di Paula Bronstein


Le parti che vengono colpite sono il volto e i genitali. Il volto è evidentemente ciò che identifica una persona, ciò che la rende se stessa. I genitali sono il "luogo" da punire, ciò che è più desiderato e che va "eliminato". I genitali e il volto sono ciò che distingue la donna, che la rende unica e desiderabile, ciò di cui il maschio si sente proprietario, ultimo depositario del destino.


Non c'è età che garantisca protezione, non c'è status sociale. Fra le vittime sono molte le bambine colpite per scelta o per "caso" poiché erano con le madri al momento dell'attacco.


La nostra sensibilità è stata molto colpita dal caso di Lucia Annibali, sfigurata per volontà di Luca Varani da due sicari. Luca Varani è stato riconosciuto colpevole e condannato a 20 anni di reclusione. Luca Varani voleva la morte della sua ex. Questa storia ci ha colpito molto per la sua ferocia e perché Lucia Annibali non si è nascosta, anzi, ha testimoniato e testimonia che colui che non ha più futuro è il suo aggressore, lei con tutte le difficoltà, può guardarsi allo specchio. Di certo vedrà un volto ferito, ma potrà avere stima di sé ed essere fiera della sua forza.

È fondamentale che la società accolga queste donne e racconti le loro storie.

È importante ovviamente per ogni singola donna che deve ricostruirsi una vita e una volontà, ma è ancor più importante per non fare finta che i fatti non avvengano. 
La visibilità di questi casi, sta lentamente modificando l'approccio legislativo alla violenza.

L'intenzione di chi aggredisce è quella di uccidere, perché di acido si muore.

Il contatto delle sostanze corrosive con la pelle produce effetti devastanti, se non c'è un intervento pressoché immediato l'acido brucia la pelle, la carne, le ossa, tutto ciò con cui entra in contatto. 


Le donne che non rimangono uccise riportano dei danni permanenti soprattutto alla vista.

Molte di loro non sono semplicemente cieche, non hanno più gli occhi.


Gessica Notaro.
“Per me è sempre difficile andare in udienza. Porto rispetto agli avvocati dell’imputato perché devono fare il loro lavoro, però oggi, stando alle loro parole, sembrava quasi che fossi stata io a buttarmi l’acido addosso.
Mi ha fatto male sentir dire da uno degli avvocati: ‘signor giudice, mi sembra di aver visto quel momento’.
È assurdo, perché se avesse assistito davvero alla scena, non dormirebbe per il ricordo delle mie grida.
 Quel giorno, quando sono scesa dalla macchina, ho visto il mio ex accovacciato sotto di me.
Poi si è alzato all’improvviso e mi ha rovesciato l’acido.
Sono corsa da mia madre e le ho urlato impanicata: ‘Mi sto sciogliendo?”


La legge potrebbe molto qualora divenisse più severa, in Bangladesh e, più recentemente in India, si è passati a regolamentare la vendita e l'acquisto degli acidi ed è anche aumentato il risarcimento di cui la vittima può usufruire, pur sempre molto basso. 

L'acquisto di acido va motivato e può essere eseguito solamente se si mostrano i documenti e si registrano le proprietà generalità.
In Pakistan è previsto l'ergastolo, qui nel 2010 gli attacchi con acido sono stati 8.000, un numero abnorme, tenendo anche conto che le denunce non vengono fatte da tutte le donne, perché per denunciare ci vuole ancora una volta un grande coraggio e un grande sostegno.
In Cambogia, altro Paese con una percentuale assurda di attacchi, il Cambodian Acid Survivor Charity opera dal 2006 per la cura delle persone ferite con l'acido. Il centro garantisce cure chirurgiche gratuite, sostegno psicologico, e grande pressione sui media con divulgazione a tappeto dei dati degli attacchi e informazione sullo stato di salute delle vittime.

Grazie a questo impegno costante e prezioso la legislazione si è fatta più severa anche in Cambogia, sia per quanto concerne  la vendita delle sostanze corrosive, sia per quanto riguarda le pene inflitte ai responsabili degli attacchi.

I processi troppo spesso si trasformano in atti di vergogna e accusa per le donne, sappiamo cosa significhi questo, anche in Italia un processo per violenza sessuale è ancora un processo alla donna, alla sua femminilità, alle sue abitudini sessuali o al suo stile in fatto di abbigliamento.


Le leggi dovrebbero essere chiare nei confronti delle pene per i responsabili degli attacchi, dovrebbero garantire sia la copertura economica delle cure necessarie alle vittime sia l'assegnazione di un risarcimento per il danno morale.


E quindi il locale dalla cui porta siamo entrati, racchiude tutto questo mondo.
Vi lavorano Rupa, Riita, Geeda e Netu.
Rupa è stata aggredita quando aveva 15 anni. Non l'ha aggredita un uomo, ma la matrigna che non voleva si sposasse. Eppure, negli anni, Rupa si è ritrovata, e all'interno della caffetteria mostra e vende i suoi abiti, perché Rupa è una stilista.
Ritu è sata aggredita da un parente per essersi rifiutata sessualmente. Nel locale si occupa della cucina.
Ma Sheroes Hangout non è solo un luogo in cui mangiare o acquistare vestiti, lo scopo non è commerciale.
L'Associazione che lo ha voluto e le donne che se ne occupano sanno come sia necessario sopperire alla difficoltà, per una larghissima fascia di popolazione, di accedere alla cultura; così si tengono laboratori per insegnare alle ragazze l'uso del computer, laboratori di cinema, arte, cultura generale e, importantissimo, programmi di informazione sui diritti e sulle procedure legali in caso di violenza.

Sokreun Mean, 36 anni. è stata operata più di 20 volte.
Non ha più gli occhi.
foto di Paula Bronstein

Raccontare le loro storie è un modo per dire loro "io sono con te".
Raccontare le loro storie fa la differenza.
Abbiamo sentito di certo una frase molto bella che Anna Magnani disse al suo truccatore, ovvero di non coprirle le rughe che rappresentavano la sua vita le sue conquiste. 
Ecco è diritto delle sopravvissute all'acido poter mostrare le cicatrici e sentire che raccontano una storia futura, una storia di possibilità.
Questo è il vero passaggio culturale. Il perdente è l'aggressore.


Gessica Notaro, proprio oggi [20 ottobre 2017] ha visto la fine del processo a carico del suo ex.
Un processo nel quale lei non è mai stata esclusa dal giudizio, perché questo è il problema dei processi in cui la donna subisce violenza: invece di venire scandagliata la vita dell'aggressore, è la vita della donna a venire violata, rigirata, soppesata. La donna è sempre vista come istigatrice sia che si tratti di stupro, sia che si tratti di botte, sia che si tratti di acido.
L'uomo che l'ha aggredita con acido ha subito una condanna a 10 anni di reclusione.
Sono state riconosciute le aggravanti della premeditazione, dei futili motivi e della crudeltà.
La condanna di Gessica quanto dura e durerà?




Keo Srey riposa nel letto n° 8 del Cambodian Acid Survivor Charity.
foto di Paula Bronstein


Alcune parole di Lucia Annibali:
"Voglio ringraziare il mio volto ferito che mi ha insegnato a credere in me stessa, a fare un salto verso la persona che ho sempre desiderato essere. Oggi mi sento padrona della mia vita e dei mie sentimenti. Ho un progetto da cui ripartire per avere una vita felice. Il mio volto sono io. Parla di me, del mio dolore e della mia speranza." 
"Siamo chiamati a scegliere che tipo di persone vogliamo essere. E sarebbe bello se, in questo momento di follia collettiva, voi sceglieste di fare la differenza, di essere originali. Di essere gentili, affettuosi, amorevoli verso le vostre compagne. Alle ragazze auguro di essere libere, di essere voi stesse e di non lasciarvi convincere che c'è qualcosa che non va in voi. Il tempo trascorso lasciando che qualcuno ci ferisca non ritorna. Ho imparato che esiste un solo tipo di amore: quello buono, che ti rende felice, che ti sprona a migliorare, che è indipendenza e libertà. Per amare nel modo giusto non bisogna avere fretta. È necessario conoscere prima se stessi e darsi il tempo di conoscere l'altro."


Lucia Annibali non si è mai nascosta.
Ha sempre voluto raccontare l'orrore nel malamore.


"Alle donne voglio dire voletevi bene, tanto, tantissimo. Credete in voi stesse e sappiate che ogni atto di violenza subita non dipende mai da voi che amate l'uomo sbagliato ma da lui che lo commette."


Somayeh Mehri aveva 29 anni al momento dell'aggressione, sua figlia Rana ne aveva 3.
Nel 2011, dopo anni di abusi domestici, Somayeh voleva lasciare il marito, l'acido fu la sua risposta.
La foto è di Taken in Bam.
Somayeh è morta nel 2015, le complicazioni sono state davvero troppe.
Sua figlia Rana è viva, deturpata ed ha perso un occhio.



Rana, in una foto di Asghar Khamseh del 2015.
Fra le braccia una foto con la sua mamma.....


Per chi voglia andare a conoscere le Eroine alla loro Caffetteria:

Sheroes' Hangout
Opposite the Gateway Hotel (Taj View)
Fatehabad Road, Agra
Uttar Pradesh, India


fonti web che mi hanno permesso di conoscere e scrivere.
grazie a tutti,
Rebecca di Santo