mercoledì 12 ottobre 2016

Lo Sbarco. di Rebecca di Santo


Uno, due, tre ora riscende. Tre, quattro, cinqueeeeeeeeee, ecco, sta risalendo. Cos’è che mi fa più paura? Cos’è che mi fa venire di più il vomito?
Questa puzza è la mia e degli altri. Non riesco a non sentirla è come se uscisse dal mio naso o forse vi entra ed io non lo so più che direzione abbia.

Fin qui c’è la visione iniziale. Io conosco anche la visione completa, me l’hanno raccontata i giornali. Conosco attraverso lenti e filtri. Il giornalista raccoglie le testimonianze e le riporta. Ma non è attraverso quegli articoli che le immagini passano davanti ai miei occhi. Sono micro sensazioni molto forti. Io vedo attraverso i sensi. E da qui si ricomincia.

Dai, arriviamo. Appena arriviamo qualcuno mi porta verso un materasso e mi fa sdraiare. Che poi, piuttosto, vorrei lavarmi.

Non può pensare così. Questi sono pensieri troppo formati. Questa è roba troppo lucida.

Ho la sensazione di qualcuno che mi guarda. Ma non mi guarda da fuori, mi guarda da dentro come se tutto fosse già accaduto. Da una parte è un sollievo, qualcuno sa cosa accadrà e se non interviene è perché sa che tutto andrà per il meglio. Però vorrei mi facesse almeno dormire. Vorrei che mi portasse qui la voce di nonna che canta quella canzone senza parole. Quella che mi ci addormentavo e sembrava il vento. Perché devo riuscire a scappare.
Ahahahahahhah! Scappare? Ma sto già scappando, sì. È che non sapevo di avere un corpo fino a questo momento. Un corpo che fa male ovunque. E Tu smettila. Tu che guardi smettila!
Ora mi rannicchio e dormo. Ora dormo e tu mi proteggi perché sai come andrà a finire. Ma ho anche fame e sento che dentro il grembo mi raschia. Come se fosse finita l’acqua e il fango in fondo si stesse fondendo coi sassi. Il mio grembo si va polverizzando e magari fosse che anch’io mi riduco in materia finissima, per non sentire. Per arrivare, in fondo alla fuga. Ma sento che arriva… e quattro, cinque e sei pare che voliamo anche se da qui dentro non vedo niente. Forse l’odore peggiore è quello acido del vomito. Quando uno di noi parte con un conato è difficile resistere e parte una squadra di suoni e si rovesciano stomaci e succhi gastrici.
Dentro non ho più niente, se non te. Che sei così piccino.

Mi spiace ma io il bambino lo vedo. Ho la mente proiettata sulle ecografie. Sul movimento rallentato che arriva attraverso il gel e lo schermo. Il suono del monitoraggio. Cavalli in  corsa, confusi nello spazio aperto dell’oceano materno. E l’eco del suo essere.

Ma sei vivo?
Mi viene addosso il peso di quelli che mi stanno vicini. Chissà se è vero che quando arriviamo non ci faranno nessun imbroglio. Che ci lasceranno per bene. “E spostati!” che non respiro. Dio che odore che arriva da su? Magari già ci siamo. Magari fra poco è aria pulita e terra.
Oddio basta, non ho niente da vomitare solo questi succhi acidi che mi stanno bruciando la gola.
Amore mio. Me stessa e te. Com’è quella parola francese? Caprice, un capriccio degli dei. Ho iniziato a sentire un sapore unico nella bocca qualche giorno dopo aver capito di essere incinta. Era il tuo sapore. Ora ti sento travolto. Come se tu stessi scomparendo.
Ma è normale, mi dico, tu stai nascendo e io devo svuotarmi di te.


Mi si rigirano le viscere.

L’odore non è di buono. Mi sta mancando l’aria.
Tutti addosso ed io che non riesco a proteggerti. O ma com’è che ci rotoliamo tutti giù? Ma sono fiamme. E acqua. questo è morire. E noi dobbiamo vivere, invece. Una volta per tutte.
“Fermi! Fermiiiiiiiiiiiiii! Fatemi scendere. Fate scendere mio figlio. Fatelo nascere."

Numero 288 e numero 289. Sepolti insieme.
Porto rispetto a questa nascita nella morte. Li hanno trovati ancora legati alla loro preziosa comunicazione. Cordone ombelicale nel cordone ombelicale.
Lampedusa 3 ottobre, 2013

Nella foto Divan, nato su un barcone. [fonte onuitalia.com]

Salerno, 4 novembre 2017

Recuperate in mare circa 400 persone.
Anche i corpi di 26 donne.
Annegate in viaggio.
L'ipotesi è quella di omicidio.


domenica 2 ottobre 2016

L'Impiccato. di Sylvia Plath


Per le radici dei capelli mi afferrò un qualche dio.

Sfrigolai nei suoi volts azzurrini come un profeta nel deserto.

Le notti sparirono di scatto come palpebra di lucertola:

un mondo di vani giorni bianchi in un'orbita senz'ombra.

Una noia d'avvoltoio m'affissò in questo tronco.

Se lui fosse me, farebbe ciò che feci.

di Sylvia Plath





The Hanging Man
By the roots of my hair some god got hold of me.
I sizzled in his blue volts like a desert prophet.
The nights snapped out of sight like a lizard’s eyelid :
A world of bald white days in a shadeless socket.
A vulturous boredom pinned me in this tree.
If he were I, he would do what I did.

by Sylvia Plath

di Killy Sparre, art photography