domenica 16 giugno 2019

Come sono diventata comunista. Rebecca di Santo


In principio fu Karl Marx, statuario ed elevato.

Ma in principio fu anche Marilyn Monroe, sconcia, seduta per terra con le calze a rete e un sorriso che non c’era, fra le labbra e il biondo.
E questa è tutta la storia, da allora sino ad oggi. La sintesi dell’origine e dell’evoluzione. Tutto ciò che aggiungerò svelerà soltanto delle sfumature, digressioni, ma, in realtà, ciò che dovevo dire l’ho detto e non si tratta di un riassunto, non è ermetismo o mancanza di parole, è la verità stessa che compie il senso. Due poster appesi nella camera che dividevo coi miei fratelli.
Un tracciato senza soluzione di continuità unisce, a ritroso, tutti i fili, e mi porta qui, ingrassata per inerzia, infuriata per fede.
Ho sempre ritenuto dire la mia un imperativo, dirla a gran voce a partire dall’adolescenza, dire e partecipare sono il senso stesso della costruzione del futuro. Questo è un punto di unione coi poster appesi.
La mia famiglia proletaria, sia per classe che per figliolanza, mi ha sospinta ai margini della rabbia fra crisi esistenziali e adesione emotiva alla politica. Questo significa che non è stato l’approfondimento intellettuale a guidare i miei passi, seppure trattato in modica e rispettosa quantità, bensì la condizione della mia pancia.
In quanto donna riconosco la pancia come locus amoenus e horridus, il luogo dove si accoglie e si disfa, il cervello più esposto e reattivo.
È per questo che non sono pacifista, è per questo che ho visto da vicino i manganelli, per questo che ho aderito alle scaramucce in piazza, perché avevo già vissuto lo scontro diretto col potere, l’avevo vissuto a tavola, l’avevo vissuto nella cultura maschilista che faceva nascondere mia madre quando andava a fare le pulizie in casa altrui.
Quella donna non si nascondeva alla società, si nascondeva al marito (mio padre), che sceso dalla montagna d’Abruzzo, non poteva tollerare che una donna lavorasse. Nemmeno se i figli erano cinque e se le esigenze familiari andavano facendosi pressanti.
In quel mio ambiente, si taceva il bisogno e si stava fermi, nessun movimento, né brusco né cauto, era auspicabile. Meglio lasciare tutto com’era, nonostante poi, a sera, davanti al telegiornale, si inveisse contro Andreotti, contro Moro, e nonostante si andasse a Largo Ravizza a salutare il nuovo sindaco comunista; il sindaco breve di Roma, Luigi Petroselli. ‘ché, vorrei dire in faccia alla barba di Marx, i comunisti qui da noi hanno sempre avuto vita breve.
Così sono diventata comunista, nella convinzione che “Letto 26” l’avesse scritta mio fratello e, nel timore, di non comprenderne il senso fino in fondo. Ad esempio quella parola in quella frase: il chianti ammazzalanemia, cosa voleva dire? Il chianti non sapevo cosa fosse, ma, più di tutto, era quella sorta di imprecazione, che intendevo senza dubbio alcuno tutta attaccata, a non essermi nota e a disturbarmi nella conoscenza del senso di tutto il testo e che mi impediva di comprendere appieno mio fratello. Per giunta, fra tutti, il fratello politico!
Innanzi alle cose note, c’erano quindi molte cose ignote.
Se è vero che ero consapevole che Karl Marx fosse il comunista dei comunisti, c’era poi una forma di garbata povertà che vivevo e che non sapevo. Amavo uscire con mia madre, quando eravamo sole c’era sempre qualche variazione alla quotidianità, che invece era vissuta sempre identica in presenza di mio padre. Oltre alle chiacchierate coi fruttivendoli, i macellai e il pizzicagnolo, al mercato di piazza Pellettier, c’erano poi degli impegni che intendevo come piacevoli gite. Così, prendevamo talvolta il 44 e arrivavamo in centro. Il regno di via dei Giubbonari, dei negozietti, degli acquisti qualche volta. L’edificio in cui andavamo, si trovava in piazza del Monte di Pietà, anzi l’edificio in cui entravamo era proprio il monte di pietà, che sentivo chiamare più confidenzialmente monte dei pegni. C’era da entrare, salire – mi sembra –, vetrata a dividere noi da chi lì ci lavorava, vetrinette con l’oro. Il da fare di mia madre in quegli uffici per me era sullo sfondo, di fatto mi fidavo di lei, quindi eravamo lì e andava bene, poi ci sarebbe stata la passeggiata, la pizza o il cappuccino a seconda della voglia e dalla stagione.
Non è che fosse così bello in realtà andare a quel monte, che stava pure in pianura e che di bello aveva solo che alle sue spalle, camminando un poco, si apriva il porticato del Palazzo dei Cento Preti e il liberatorio Ponte Sisto; però io non capivo che mia madre scambiava scarse ricchezze con contanti, e quando poi ho saputo che lo scambio era comunque in perdita, c’erano gli interessi sulla pietà, e se non restituivi quel denaro perdevi il tuo bene, allora è rimasto solo il romanticismo affettivo, perché io dal capitalismo non mi faccio rubare le sensazioni della fanciullezza, la confidenza parentale che quelle mattine portavano.
So anche che non mi piacciono i monili in oro, il loro colore mi sembra grossolano, preferisco la chiarezza dell’argento, la luce dell’acciaio.
Ho infarcito un sentimento naturale con nozioni e ideologia, centri sociali, radio onda rossa e manifestazioni e sempre, su tutto, urlava una bambina che non accettava lo scempio del possesso a sfregio dei bisogni. Potrei elevare tutto questo a comunismo primitivo, che ben si addice a quello stato dell’infanzia in cui ci si trova nel centro e proprio lì ci si scambia tutto ciò che si ha, senza riserve.
Eppure la prima percezione della forza del privato sul collettivo è avvenuta proprio lì, in quell’età minuscola, ancor prima che al Monte o con Stefano Rosso. Ero a Largo Ravizza che, oltre a Petroselli, aveva nel suo giardino le giostre. I miei mi permettevano raramente di farci un giro, figuriamoci due, figuriamoci tanti, così, con sbadata scioltezza, non esitai a salirvi quando mi invitò una bambina appena conosciuta; il papà era consenziente, si apriva il regno dei giochi! Un giro, due di certo, forse tre, poi la mano di quell’uomo mi stoppò, proprio come avrebbe fatto un addetto al piantonamento dinanzi a qualcuno che vuole entrare in un luogo senza autorizzazione; con quel gesto perentorio persi l’innocenza, fu di certo una delle volte in cui parte della mia purezza prese il largo, lasciando il posto a un senso di vergogna e rabbia. Vergogna per essermi buttata, per aver creduto di stare ricevendo semplicemente un dono, e rabbia, la rabbia verso i miei poco distanti che dovevano centellinare monete per necessità e per dovere di condotta, non una rabbia contro ma una rabbia con. Ero con loro, anche se lo avrei imparato negli anni.
Non funziona che vada a ognuno secondo le sue capacità e non funziona che vada a ognuno secondo i suoi bisogni, viviamo aggrovigliati e chi è senza riserve in tasca è nell’intrico più fondo; in fondo alla fila, in fondo sulle panchine lontane dalla giostra.
Proprio mentre quella porzione di infanzia si tramutava in circospezione, nacque il bocciolo dell’interesse per l’altro: osservarlo, tenerne conto, metterlo al mio posto ed io mettermi nel suo, esercizio facile in realtà in una famiglia come la mia, fatta di letti che si aprivano a incastro, di voci discordanti alla stessa tavola, di aspirazioni diverse.
Ci lavoro su, con la bambina vigile che sono e con l’adulta confusa che sempre sono.




venerdì 10 maggio 2019

"Aldo Moro: il Corpo del Martire" di Rebecca di Santo


Non mi muovo. Sono ore che non mi muovo. Non ne ho voglia. Non ci credo più. Sento solo il calore lontano. Ricordo il caminetto, il caldo insopportabile e poi, appena voltato, subito freddo. Entrambe le sensazioni assolute. Mi sono abituato a tutto, credo.
Mi sono abituato a tutto. Anche a questo dolore alla bocca dello stomaco. Così forte che, ogni tanto, mi rannicchio e cerco di coccolarlo. Mi sono abituato a stare fermo. Non avverto più il sapore angusto di questa che è la mia cuccia.
Ricordo invece, a tratti, quella che era la mia dimora, ne ricordo la porta. Lo scatto preciso della serratura al girare della chiave nella toppa. Ma non so quando era, non so più cosa ci fosse oltre la soglia.
Poco fa sognavo, mi affacciavo oltre l’uscio. Salutavo con una voce, la mia, che mi ha riportato a un'altra vita. Il tuo nome. So chi sei stata: mia moglie. La madre di chi mi manca nelle ossa. So che i miei figli vivono anche senza di me. Ma senza di te non posso. Eleonora trovami! Portami via le mani. Scava tra gli steccati, di modo che io possa riconoscere il refrigerio dell'aria.
Il braccio destro mi si intorpidisce sempre. Avverto il formicolio solo quando mi decido a muovermi, a spostarmi su un altro fianco, a sedermi. E le gambe, le sento pesanti e al tempo stesso non sembrano più le mie. Mai stato così magro. Mai stato così inutile e dimesso.
Una volta, sulla spiaggia di Punta Palascìa ho sentito qualcosa di simile. Pesante nei miei trent'anni di uomo, con addosso la forza e l’obbligo del sentirci tutti liberi dalla guerra. Era Capodanno, nell'alba ventosa del 1946. Lo sai, ero appena divenuto anche marito, tuo marito. Su quella Punta l'illusione dell'est, la vicinanza al nuovo anno nella luce più accesa d'Italia. Mentre toccavo quel sole mi sentivo venir meno. Avrei voluto smarrirmi nella luce, fra quelle onde gelate e l'aria che vi si disintegrava dentro. Ero magro già allora, ma non così. Ero magro ma vivo, non ero ciò che ora sono.
Stamattina mi hanno svegliato così presto. Per riportarmi alla vita. Non la ricordavo così, Eleonora. Ricordavo più colori, voci più nette e ricordavo me in piedi, non così ritorto. Poi questa coperta che separa il mio sguardo dal poter vedere.
Ma forse non voglio davvero niente, oltre questo. Ho trovato l'umanità in una cuccia malmessa e ho sentito allontanarsi i fratelli di sempre, gli amici, la fede persino. E so perché sono dimagrito. Sono dimagrito perché sono voluto andargli incontro. Ritirarmi, farmi ossa e corpo del martirio. È come se mi potessi vedere, nonostante io non abbia uno specchio e non abbia più gli occhi. Mi vedo come fossi un cucciolo di foca massacrato. Sangue vivido. Ma il paesaggio su cui si staglia il mio supplizio non è di neve densa e bianca. Io mi staglio su un nugolo di mosche, in mezzo ad una nebbia di polvere di pietre.
Eleonora, non sento più niente. Eppure avverto il movimento leggero della macchina quando qualcuno le passa vicino, quando un'altra vettura scorre via. Devono essere sampietrini, qui vicino alle mie orecchie.
Mi hanno riportato alla vita con una pistola e poi, credo, una mitragliatrice. Il mio corpo è stato irriconoscente. Sotto la selva dei colpi si è fracassato. Mi è scoppiato il cuore, Eleonora. E questa ora è la mia casa. Un luogo dove inizio a sentire tutto il freddo che c'è nell'incontro fra onda e cielo.
Spero qualcuno venga presto; io qui provo vergogna e non posso più gridare.
Iniziano a tacere i pensieri, così come mi tace il cuore. Il formicolìo si è fatto brivido.
Sento rarefarsi la volontà che, in questi 55 giorni, mi è costato fatica mantenere.
Dieci colpi, undici, non lo so. Non so più contare.
Meglio che vada ora.
Ma dico ancora una volta, ciò che in cuor mio andavo ripetendo già da via Fani: venitemi a prendere. Eppure già vedo Punta Falasca con la sua alba più estrema.

Sono libero Eleonora, ma quanta tristezza di uomo sto portando via con me.

di Rebecca di Santo
 


Aldo Moro al mare con la famiglia, 1963




La Repubblica,
Ore contate per Moro,
21 aprile 1978
 

giovedì 14 marzo 2019

Veglia, di Giuseppe Ungaretti


Un'intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d'amore

 

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita
 
                                                             Giuseppe Ungaretti
 

 

                                                  
 






 

 

 

Ai tempi dell'Amore.



È compulsivo

(all'inizio).


Si scioglie il tempo

e lo spazio ha traiettorie precise:

da me a te

da te a me.


Da me
a me.


È ripetitivo

(per molto tempo).


È composto di brividi,

millimetri di pelle,

distese di mare

nelle quali trattenere il respiro.

 
E l'orizzonte

ha da restare lontano.
 

L'amore non può essere

compiuto

deve essere viaggio

e buche

e benzina finita

e alba malconcia

e acido in gola.
 

Se questo è stato

io

ho

amato.



                                                            Rebecca di Santo
 
Temporarily censored home, Guanyu Xu

The Map of the World, 2018
 
Temporarily censored home, Guanyu Xu