domenica 27 settembre 2015

Amore mio, la vita non è dolore. La vita è vagare. di Rebecca di Santo

Amore Mio perdonami.
Ti guardo ora, mentre abbiamo gli occhi bruciati, e mi chiedo quand'è che ho iniziato a perdere.
Quand'è che l'Onnipotente ha accettato che andassimo al macello.
Ti ho portata qui. Fra le braccia.
Ti ho lasciato giocare col mare, perché il tragitto fosse memoria dolce di una notte speciale.
Mentre io vedevo un gommone disperato e lento.
Ti ho fatta giocare con la sabbia grossa, perché la nuova terra ti si presentasse bambina, disposta al meglio, come te.
E poi altri passi, con altre gambe e altri piedi insieme a noi.
Ti tengo la mano, sempre.
Ho paura a staccare il mio corpo dal tuo.
se io ti perdessi, mi perderei per sempre
e l'Onnipotente avrebbe vinto con la sua fame di anime impazzite.
Ho visto ciò che accadrà domani.
Me lo hanno raccontato in sogno.
Domani i Bambini che sono morti formeranno riflessi nell'acqua.
Piccole onde a pettinare i loro capelli.
















E intanto tu mi passi il respiro sul petto, piccolo fiato d'argilla impastata.
Nemmeno il buio si muta in silenzio, fra tutti che raschiano il fondo della stanchezza.
"lalala lalala lalalalalalala lalala lalala lalalalalala"
Spingo nel tuo minuscolo orecchio il sussurro di una ninnananna per portarti dove vorrei essere insieme.
Vorrei tornare a quella notte quando il cielo ha taciuto e, dopo tanto, non arrivava dalla strada l'odore di polvere e calcinacci.
La tua sola notte di quiete, finora.
Ho vegliato comunque con la luna, non volevo perdermi quel freddo lontano su di noi.
E per consolarmi ricordo il momento in cui ti ho messa al mondo.
Quando l'affanno mi si è confuso coi pensieri, accavallato col dolore.
In una stanza dalla luce fioca, su una lettiga che portava i segni di tante storie.
Solo qualche giorno prima avevamo portato tuo cugino, con una gamba che pendeva senza vita, dentro la sua tuta da ginnastica sporca di sangue e di giochi per strada.
Non lo conoscerai mai, lui è andato via, senza la sua gamba, senza il suo pallone di cuoio.
E l'abbiamo salutato sulla stessa lettiga di sangue in cui poi tu sei venuta al mondo.
Amore mio, la vita non è dolore. La vita è vagare.
Vagare cercando di non toccare i fili elettrici.
Vagare cercando di correre dietro al pallone senza che il dardo rabbioso degli Dèi ci colpisca.
La vita è quel gommone che ci ha portate verso il futuro, mentre rischiavamo in ogni minuto di annegare.
La vita è domani, domani che verrà e ancora non sappiamo dove saremo.
La vita è il latte che ho avuto solo per due giorni e che poi si è ritirato, l'ultimo goccio lo hai preso nello stesso istante in cui un barile-bomba ha lacerato aria, cuore, latte e corpi di tutto ciò che trovava a tiro.
Ora siamo di qua.
Non so cosa voglia dire, Amore mio.
So che non fermerò i miei passi.
So che continuerò a camminare fino a quando non saremo accolti da sorrisi e fino a quando la Morte vorrà avere la meglio su di noi.


di Rebecca di Santo



sabato 26 settembre 2015

Pensa agli altri. di Mahmoud Darwish


Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,

non dimenticare il cibo delle colombe.


Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,


non dimenticare coloro che chiedono la pace.


Mentre paghi la bolletta dell'acqua, pensa agli altri,


coloro che mungono le nuvole.


Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,


non dimenticare i popoli delle tende.


Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,


coloro che non trovano un posto dove dormire.

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,


coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.


Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,


e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.


di Mahmoud Darwish


Ahed Tamimi, è una giovane attivista palestinese di 14 anni.

Mahmoud Darwish, poeta palestinese.
al-Birwa, 13 marzo 1941
Houston, 9 agosto 2008

Questione di giorni. di Rebecca di Santo


Ho trovato dove sono andati i giorni vissuti.
Ieri e ieri e ieri l'altro
e ancora ieri di ieri.
Si sono sciolti 
all'apparire dell'aurora.
Ed è di azzurro impalpabile
che si fa la loro forma eterna.
Rebecca di Santo








venerdì 25 settembre 2015

po-e-sì-a: dal lat. pŏēsis, che è dal gr. ποίησις, der. di ποιέω «fare, produrre». con Warsan Shire. 5

34 scuse per i nostri fallimenti d’amore
                                                                                         di Warsan Shire

1. Mi sento sola, quindi faccio cose dettate dalla solitudine
2. Amarti è stato come andare in guerra, non sono ritornata la stessa.
3. Tu odi le donne, proprio come tuo padre e suo padre, è nel tuo sangue, dunque.
4. Mi aggiravo nel derelitto parcheggio del tuo cuore cercando un passaggio a casa.
5. Sei una città fantasma che sono troppo patriottica per lasciare.
6. Resto perché sei l’inizio di un sogno che non voglio dimenticare.
7. Non ho risposto alla sua chiamata perché le sue ragazze gli piacciono senza voce.
8. Non è che voglia essere bugiardo, è solo che non sa la verità.
9. Non ti potevo amare, eri una guerra, di quelle piccole
10. Coprivamo l’odore della perdita raccontandoci barzellette.
11. Non volevo fallire nell’amore come i nostri genitori.
12. Tu hai fatto costruire alla nomade che c’è in me una casa per restarci.
13. Non sono un cane.
14. Abbiamo cercato di smentire la nostra natura.
15. Mi sentivo comunque sola quindi facevo cose ancora più solitarie.
16. Sì, sono insicura, ma così erano anche mia madre e sua madre.
17. No, mi ama, solo che mi fa piangere molto.
18. Conosce tutti i miei segreti e malgrado ciò vuole baciarmi.
19. Eri troppo crudele per essere amato a lungo.
20. È solo che non ha funzionato.
21. Mio padre un pomeriggio se ne andò di casa per non tornarci mai più.
22. Non posso dormire perché sento ancora in bocca il suo sapore.
23. L’ho tagliato alla radice, era il mio albero preferito, che marciva minando le fondamenta della casa.
24. Nella mia famiglia le donne muoiono nell’attesa.
25. Poiché non volevo morire aspettandoti
26. Me ne sono dovuta andare io, mi sentivo sola mentre mi stringeva
27. Sei la canzone che ascolto e riascolto fin quando non ho imparato tutte le parole per poi sentirmi male.
28. Mi ha mandato un sms che diceva “Ti amo da morire”
29. Il suo cuore non era bello quanto il suo sorriso
30. Ci siamo manipolati a vicenda le emozioni fino a quando abbiamo creduto che fosse amore.
31. Perdonami, mi sentivo sola quindi ho scelto te.
32 Sono un’amante senza amante
33. Sono bella e sola
34. Appartengo profondamente a me stessa.

                                                                                        Traduzione di Pina Piccolo



Warsan Shire



Warsan Shire

Warsan Shire è nata in Kenya nel 1988.
I suoi genitori si trovarono costretti a lasciare la loro terra, la Somalia, ancor prima della sua nascita.
Prestissimo tutta la famiglia si trasferì in Inghilterra, Londra, ed è lì che Warsan Shire cresce.
Il nonno, Cabdulqaadir Xirsi Siyaad "Yamyam", è stato un Poeta che ha cantato la Somalia, fortemente.
Sua  la poesia "Soomaali baan ahay" / "Io sono un somalo", di cui non ho ancora rintracciato il testo, ma non dispero.

giovedì 24 settembre 2015

Postscript. di Sandra Hochman

foto di Viktoria Sorochinski


Per imparare a vivere ho data la vita

Adesso che ho preparato tutto, adesso che

finalmente so tenere in ordine

i vestiti, lavare e cucire,

dominare le mie ghiandole e i momenti difficili,

tirare su famiglia, di quali amici

liberarmi e a quali essere fedele, chi è

falso e chi è sincero, rinunciare

all'ambizione e fare economia, adesso che

finalmente ho imparato a togliermi la maschera

e a stare nuda nel mio silenzio solitario

questa vita è quasi terminata.


Sandra Hochman
nata nel 1936 a New York

di Rebecca Cairns

di Carter Murdoch










martedì 22 settembre 2015

per sempre, per sempre, per sempre. di Maria Grazia Calandrone

vorrei che ti mettessi quel vestito
che hai comprato in un giorno di luglio
dopo che avevi detto ti amo anch'io

vorrei che ti mettessi quel vestito
per me, un'ultima volta,

poi, vorrei fondermi alla terra
e riposare dove lei riposa

8.1.14



lunedì 21 settembre 2015

I Diritti dei Bambini. di Rebecca di Santo

Ci sono dei diritti naturali
nell'essere bambini.
Ad esempio hai diritto a sapere
che hai dei diritti
e che li hai nel momento stesso in cui nasci.
Hai il diritto di essere protetto
se c'è una guerra.
Il tuo corpo non deve essere toccato
possono farlo solo la tua mamma 
e il tuo papà;
chi ti vuole bene 
se ti vuole bene non ti obbliga a subire cose che non vuoi
o a fare cose che non capisci.
Hai il diritto di vivere, di giocare,
di parlare e amare la tua lingua.
Hai diritto all'istruzione
(a proposito lo sai che lo studio 
ti aiuta a conoscere il tuo talento?).
Hai diritto ad essere curato,
ad essere coccolato.
Se vieni da un altro Paese
e i tuoi genitori lì non ci vogliono tornare
hai il diritto all'istruzione qui da noi,
per imparare a parlare con i tuoi amici,
per imparare a capirli. 
Hai il diritto di esprimerti per mezzo delle parole,
della scrittura, dell'arte,
e di tutto ciò che tu ami.
Hai il diritto di fare amicizia.
Qualsiasi sia la lingua che tu parli
qualsiasi sia il colore della tua pelle
chiunque siano i tuoi genitori
qualunque sia il tuo sesso
la tua religione,
o se tu sei disabile, ricco, povero o antipatico,
hai il diritto di conservare il tuo nome,
la tua storia tutta intera.
Hai il diritto di essere te stesso
ovvero
la personcina meravigliosa
che abbiamo imparato ad amare
Con le tue perfette imperfezione
e il tuo sorriso che ci arriva nel cuore.
Rebecca di Santo







domenica 20 settembre 2015

Nascita. Contrazioni letterarie. di Rebecca di Santo

Nella sala travaglio, una finestra alla mia sinistra. 
L’estate più calda. Siccità. Umidità. Anche le acque che contengono Mirella non ne vogliono sapere. Lei è protetta, abbracciata all'utero. 
Sono convinta che siano giusti i miei calcoli ma nessuno ne vuol sapere nulla. 
Mirella, non mi ascoltano e così ci ritroviamo stese in sala parto ad aspettare di nascere. 
Delle bellissime contrazioni ci sono state al mattino ma erano truccate ed ora soltanto insignificanti picchi che non parlano la giusta lingua nella grammatica del monitoraggio. 
Ho amato quelle contrazioni. L’illusione che fosse l’apertura della tua strada mi ha emozionata come una bambina. 
Qui, mi sembra così bello. L’arredamento. La bilancia. Il lavandino. Chiedo di sollevare la serranda. Oramai sono quasi le otto di sera. Entrerà più che altro luce non calura. C’è del movimento attorno. Mi sembra un luogo vivo. Donne che si aggirano in camice. Mi saranno vicine e questo già mi commuove. 
Fra poco vedrò il volto, le mani, i piedi, annuserò l’odore, toccherò la pelle, sentirò la consistenza della tua carne dalla mia carne. 

Comunque.
Il reparto maternità dell’ospedale è apprezzato per le sue (indiscusse) qualità: accoglienza, cordialità, gentilezza. Persone consapevoli dell’importanza del momento per ogni singola donna che si arriva su quel lettino. 
Eppure qualcosa non è andato. 
Non mangiavo dalla sera precedente. Un goccio d’acqua da un bicchierino di plastica. 
Poi arriva lo stimolo della pipì. Il bagno fa decadere l’illusione che aveva fino a quel momento disegnato un quadro di grazia. Nel bagno non c’è carta. Non c’è sapone. Dietro la scena scopro delle quinte decadenti. 
Un cattivo ginecologo entrava, infilava i guanti e infilava le sue mani fra le mie gambe, lungo il collo dell’utero. Evitava sapientemente i miei occhi. Non riferiva a me. Riferiva a se stesso e alla donnina-infermierina che approvava ogni cosa detta da lui. 
Ho taciuto. Nessuna grinta. 
Mi sono sentita trascurata e in mani non degne. 
Le nostre piccole e preziose contrazioni trattate con indifferenza clinica. Ma erano le mie uniche, le mie prime, le mie. Nessuno al fianco. 
Per tutta la notte il monitoraggio sulla pancia, sulla tua casa. Per comodità le sonde mi sono state fissate con del nastro adesivo che al mattino è stato poi necessario strappare dalla pelle. La comodità era in realtà sciatteria. 
Nessun’altra donna. Una notte silenziosa. 
Solo le chiacchiere riposate del personale che arrivavano a tratti nel mio dormiveglia. Senza chiedermi hanno spento la luce. Questo credo di averlo detto. Credo di aver detto di lasciar stare. Il silenzio ancora fino ai cambi di turno. Indicazioni date da uomini-dottori a donne-infermiere-ostetriche. Non comprese. Corrette. Io sentivo tutto e capivo anche le incomprensioni ma ho continuato a tacere. 
Comunque. 
Il cattivo ginecologo ha persistito con il suo atteggiamento. In fin dei conti aveva funzionato. Il mio silenzio non era paura ma vergogna. «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno». 
Una sorta di onnipotenza onnicomprensiva che mi lascia tuttora in perdita. 
Segni di sofferenza fetale. 
Procediamo al cesareo. 
Un monitoraggio poco convincente. 
Che non ha convinto fin dal primo momento. 
Per tutta la notte. 
Ma al mattino con l’anestesista, i pediatri, il ginecologo-chirurgo, l’ostetrica compiacente, insomma tutti in fila. Finalmente si può intervenire ad un orario adeguato per lavorare. 
Due soli pensieri che riesco a tradurre in domande prima di andare nella sala operatoria: 
ma il mio bambino ha dei problemi? 
e devo avvisare qualcuno a casa. 
L’ostetrica rimane voltata di spalle e dice: 
«Sappiamo come sta solo quando lo vediamo». 
L’ostetrica non è una buona mediatrice fra il mio mondo e l'ospedale, quando scopre che il mio bambino non ha un nome esprime il suo fastidio, glielo leggo nelle spalle. Non può avere un nome il mio bambino, non so se sarà maschio o femmina. 
Ma qual è il suo problema? Non può avvantaggiarsi il lavoro preparando i braccialetti.
Sala operatoria. Finalmente una persona simpatica. L’anestesista. Me lo ritrovo occhi negli occhi. Riesce a darmi leggerezza, riesce a farmi ridere, e ride con me. 
Devo contare e mi sento sveglissima, ma in un solo momento perdo di vista tutto. Completamente. Annullata nel buio e in un tempo di cui non saprò mai nulla. Un tempo durante il quale tu, Mirella, sorgevi dalla mia pancia. Non le mie braccia, non le mie lacrime, non il tuo e mio petto. Solo più tardi questo. Una conquista graduale che ancora sta avvenendo. 
La prima persona che vedo è mia sorella. È Sandra. Da lei imparo a chiamarti Mirella. Perché mi rivela che è nata una femmina. Mirella sta bene. È grande. È reattiva. Sono io ad essere tramortita. In una stanza con altre mamme-cesaree e non. Un tremore assurdo al braccio. Per paura di chissà cosa non lo muovo. Ma trema. Trema tantissimo. Ho freddo. Credo. Dormo ancora. Credo. Torno nel mio letto. Dormo ancora. Credo. Non ricordo molto se non quello che mi hanno riferito. 
Una cosa però la ricordo benissimo. Michele era con me. Finalmente. Quando Mirella è arrivata nella stanza, tolta dalla carrozzina comunitaria, Michele sgrana gli occhi: ma questa bimba non è Mirella! Non la conoscevamo ancora, ma il braccialino al polso non era il suo, e neanche la tutina che indossava. 
L’infermiera va via senza una parola, portando con sé e il cucciolo che non abbiamo riconosciuto come nostra figlia. Mirella arriva dopo un po’. È piccola ed è grande. Ora è fuori di me. Fra le mie braccia. Ma davvero non lo ricordo molto bene. Arriva tutta la mia famiglia. 
Mirella è la benvenuta. 
Mirella ed Io.




Devo provare a ricostruire il perché del mio comportamento. Il mio sdegnato e penitente silenzio. 
Che io sia stata lasciata sola perché avevo con me una compagnia sublime? Avevo con me un libro. 
E su quel lettino tra ginecologi, infermiere, nastri adesivi, io leggevo. Leggevo per starmene per conto mio. Per non avere paura. Per pensare. Per allontanarmi. Per non dover vedere. Per farmi compagnia. Un po’ una maschera un po’ la verità. 
E chissà che non l’abbiano capito. Come potevano sollevarmi più di un libro?  
Mirella apprezzava con me. Forse anche con lei i momenti di dialogo più profondi e nitidi sono stati proprio quelli durante la lettura. Donare a lei tutti quei luoghi, quei colori, quell’enorme varietà che mi scorreva semplicemente sotto gli occhi. 
L’unica frase che mi hanno detto in quella sala, in effetti, era diretta al libro fra le mie mani: 
«Questa qui se legge nun ce l’ha i dolori».
Ho pensato che sbagliava che avrei anche potuto partorire col libro fra le mani. Ma che ne sapevano. 
La meditazione, la preghiera, i mantra, la lettura, una nenia, la respirazione profonda. 
Il libro era “Ricorderò domani" di Erica Jong.


Rebecca di Santo 

Potete legarmi mani e piedi. di Darwish Mahmoud



Potete legarmi mani e piedi

togliermi il quaderno e le sigarette

riempirmi la bocca di terra

la poesia è sangue del mio cuore vivo

sale del mio pane,

luce dei miei occhi,

sarà scritta con le unghie,

lo sguardo

e il ferro.

La canterò nella cella della mia prigione

nella stalla

sotto la sferza

tra i ceppi

nello spasimo delle catene.

Ho dentro di me milioni di usignoli

per cantare la mia canzone di LOTTA.


                  Mahmoud Darwish, poeta palestinese.
      al-Birwa, 13 marzo 1941 - Houston, 9 agosto 2008




sabato 19 settembre 2015

Mia madre. di Mahmoud Darwish

...
Ho nostalgia del pane di mia madre
del caffè di mia madre
della carezza di mia madre
ho nostalgia.
Cresce l'infanzia in me
e m'innamoro della vita
ché dovessi morire avrei vergogna
del pianto di mia madre.
Prendimi,
dovessi ritornare,
potessi un giorno tornare,
scialle per la tua frangia,
copri le mie ossa con erba
fatta pura al tuo passo
legami
con una ciocca di capelli
con un filo dell'orlo della veste
ché io diventi dio.
Divento dio se tocco
il tuo cuore.
Mettimi,
dovessi ritornare,
legna nel fuoco tuo
corda al terrazzo di casa.
No, non so stare senza
la preghiera del tuo giorno.
Sono invecchiato, rendimi le stelle dell'infanzia
fammi tornare
come tornano gli uccelli
al nido della tua attesa.

Mahmoud Darwish, poeta palestinese.
al-Birwa, 13 marzo 1941 - Houston, 9 agosto 2008


“Questa è la chiave della nostra casa, figlio…Promettimi che se non potrò tornare nella nostra casa, tu ci ritornerai e che dirai anche ai tuoi figli e figlie che essa li sta aspettando”




Haiku di Famiglia. di Rebecca di Santo

Era un numero

la macchina di papà

Bello viaggiare

                                                                               Rebecca


Fiat 124



venerdì 18 settembre 2015

siamo clessidre, con la sabbia in fondo. di Edoardo Sanguineti

siamo una doppia coppia, all'asso di cuori:

così si dice (e si diceva) e dico:

in prima istanza, siamo due ricami: ti sfioro, azzurro, appena con la destra:

(la sinistra, sull'anca, mi fa un’ansa): non ho una testa, ma un preservativo, a tronco

di cono, che è come un pesce plissettato e rugoso: (e ho una flanella da vegliardo): e tu

sei nera nera, voluttuosa, la coscia rigonfiata, ridondante, lavorata di bianco, con minimi

piedini incrocicchiati, a punto croce:

nella seconda stazione, io ti vedo invece,

che ti reclini il capo (che è nuvoloso, che ti sta tra le nuvole, nuvoletta mia dolce,

cielo mio): (sono la sagoma tua, sagoma mia): ci stanno, dentro, due tavoloni sgomberati,

in noi: ci è stata fatta una piazza pulita:

siamo clessidre, con la sabbia in fondo:

da Cose, 1996-2001

di Ron Hicks



mercoledì 16 settembre 2015

Una Stanza Tutta per Sé. Virginia Woolf



La scrivania di Virginia Woolf a Monk's House.

...se abbiamo l'abitudine della libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo; se usciamo un attimo dalla stanza comune di soggiorno e vediamo gli esseri umani non sempre in relazione l'uno con l'altro bensì in relazione con la realtà; e anche il cielo, gli alberi o ciò che si voglia; [...] se guardiamo in faccia il fatto, poiché si tratta di un fatto, che non c'è un solo braccio al quale appoggiarsi, ma che dobbiamo fare la nostra strada da sole e che dobbiamo essere in relazione con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si presenterà finalmente l'opportunità, e quella poetessa morta, che era sorella di Shakespeare, ritornerà al corpo del quale tante volte ormai ha dovuto spogliarsi. Attingendo la sua vita dalla vita di quelle sconosciute che l'hanno preceduta, come prima di lei fece suo fratello, nascerà la poetessa. La possibilità tuttavia che ella possa nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte vostra, senza quella decisione che ci vuole perché una volta rinata ella possa vivere e scrivere il suo poema, è comunque da scartarsi, poiché ciò sarebbe assolutamente impossibile.
Virginia Woolf.



Lettera alla sorella Vanessa Bell.




Ionica. di Costantino Kavafis


Se, frantumate le loro statue,
noi li cacciammo dai loro templi,
non per questo sono morti gli dèi.
Oh, terra della Ionia, te amano ancora,
le loro anime, te ricordano ancora.
Quando l'alba d'agosto splende su di te
un rigoglio della loro vita percorre l'aria;
e un'eterea forma di adolescente, a volte,
indistinta, con passo celere,
incede sopra le tue alture.


Distruzione del sito archeologico di Nimrud, città assira, nell'attuale nord Iraq.

















Distruzione del sito archeologico di Nimrud, città assira, nell'attuale nord Iraq.
















Il sito di Nimrud, città assira.