domenica 28 agosto 2016

Nel volto di mio padre. di Khaled Soliman Al Nassiry


Sono vano
il mio sangue è futile
quel pozzo è bagliore
leggenda quel vulcano.

Sono di là
ma sono qua.

Se insisto a fissare un pozzo scavato nel vuoto,
è perché conto i miei giorni o i naufraghi, è perché io sono di là
ma sono qua.

Sono nell’attimo della mia nascita.  Attimo riversato come
una bocca di vulcano che vomita saggezza mentre il calore brucia le labbra.
Eppure dico: è la mia bocca, e domando: perché i miei occhi osservano il fumo che
risale dalle mie labbra?
Perché i miei occhi bruciano?
Quando torno ai libri e mi bagno la faccia con l’acqua fredda,
perché guardandomi allo specchio mi trovo senza volto?

Sono nell’attimo della mia nascita
ma sono qua.

Quando insisto a scrutare il volto di mio padre, è perché nelle sue rughe
cerco il mio volto, e quando insisto a scrutare il mio volto, è perché
sono di là
ma sono qua.

Sono vano
il mio sangue è futile
quel pozzo è bagliore
leggenda quel vulcano.

Se sono vano è perché ci sono solo due verità:
quel vuoto e mio padre che ha un volto.
Sono nei suoi credi, ho sprecato il bambino dagli occhi
simili a un vulcano stanco della sua lava.

Sono vano
se insisto ad esserlo
è perché sono nel volto di mio padre
ma sono qua.

traduzione di Fawzi Al Delaimi

Khaled Soliman Al Nassiry, è nato a Damasco nel 1979 da una famiglia palestinese rifugiata in Siria.
È nato e ha vissuto con un permesso di soggiorno nella sua stessa "casa".
Da qualche anno vive in Italia e per lui tornare in Siria è sconsigliato, schedato dai servizi segreti poiché produce cultura.

di Diggie Vitt


venerdì 26 agosto 2016

Un romantico tragicomico weekend romano. di Massimo Mantelli


1a Parte
L'incontro non era andato come pensava. Per capire il tutto ci voleva un'intellettuale attrezzata di supposte mentali. E lei non lo era. Aveva organizzato tutto con cura, pensieri e doni per ognuno. Voleva far bella figura ma soprattutto desiderava che gli invitati fossero a proprio agio.  
Paolo, il filosofo, che dopo una delusione amorosa si era dato alla collezione di mozziconi di sigarette estere. 
Giuseppe, avvocato per sbaglio, che da grande avrebbe voluto fare l'addestratore di marmotte. 
Rita con ambizioni di bidella scolastica, che però non avendo la fedina penale limpida (era stata beccata in giovane età nel bel mezzo di un'orgia dialettica) aveva ripiegato sull'insegnamento. Rebecca con quella sua contagiosa voglia di ridere e di mostrare il seno al mondo per poi chiedere all'improvviso "Ma la realtà è sempre in fondo agli occhi o risale attraverso il miraggio?". 
Poi Salvatore, fondatore dell'associazione "Viaggi estremi con moglie appresso", un uomo riposante, con pronta intelligenza e sensibilità segnalata anche sul passaporto. 
C'era anche Maria, moglie del fondatore, sconosciuta ai più, pronta e vivace ma ancora irrisolta sugli strani linguaggi gergali, che non condivideva, trovandoli non armonici e poco socializzanti. 
Roma era accogliente, meretrice al punto giusto per dare soddisfazione, il sabato si preannunciava di una lussuria intellettuale-affettiva a dir poco riconciliante con i giorni andati. 
Tutto era pronto, tutto si muoveva con ordine. 
Ma lei non aveva un rapporto riposante con la vita, lo sapeva anche se fingeva di scordarlo. 
Quindi la serata poteva essere pericolosa, non comprendeva come ma l'agguato poteva essere sempre dietro l'angolo... infatti.

Pisa, 8 luglio 2012
"Tuttomondo" Keith Haring, 1989
e
Rebecca

  
2a Parte. LA PREPARAZIONE
Trucco disinvolto, vestito per le grandi occasioni e pronta ad occuparsi delle impressioni che le avrebbero suscitato. Le erano venute in mente frasi egizie di benvenuto poi aveva ripiegato su quelle poche frasi che aveva imparato seguendo un corso di giapponese per corrispondenza: Buongiolno cali amici sono stlafelice di vedelvi, saionala!
Fatte le scale arrivò col fiatone alla sua auto, messa la chiave nel cruscotto poteva partire. Niente, nessun segno di vita. Guardò la cipolla al polso, era ancora in anticipo, mancava un'ora all'appuntamento. Svuotò meccanicamente il posacenere per prepararlo all'imminente sigaretta che di lì a poco avrebbe acceso. Si sistemò nervosamente il collant e riprovò a mettere in moto. 
Un gracchiare nervoso la colse impreparata. Non si metteva in moto!  E ora??? 
Scesa dall'auto, incazzata nera, cominciò a scalciare violentemente contro la ruota anteriore destra. 
Lì vicino, un incauto commerciante di amuleti africani si avvicinò cercando di venderle un elefantino di legno, sostenendo che le avrebbe portato fortuna. Lo guardò come si guarda l'ago di una siringa, poi improvvisamente le venne in soccorso la fantasia.  Il risultato fu che si ritrovò in borsa 14 elefantini , 4 tartarughine e una collanina di pelle di lucertola per un costo di 26 euro però la spinta del ragazzone era stata provvidenziale, l'auto era partita e lei finalmente lanciata a prendere Salvatore e Maria.  Nel mezzo del tragitto il cellulare squillò. 
Era Donatella, detta Er Boggio, nomignolo che si era guadagnata grazie a una poesia allegorica dal titolo "Boggio la testa o Boso la borsa?" scritta in un momento di delicatissimo equilibrio psico-fisico. Diceva che si era liberata da un impegno e quindi poteva partecipare all'incontro. BENE, pensò, Donatella era una cara amica, avrebbe dato ancor più luce all'evento, e poi quella sua voce particolare sarebbe stata un ottimo sottofondo. Andava tutto benissimo, anche la sfiga era stata debellata. 

3a Parte. L'INCONTRO 
Arrivata a destinazione posteggiò l'auto in divieto di sosta. Salvatore e Maria non erano ancora arrivati. Vide una panchina, si accorse che era già un po' provata, decise di sedersi. Attraversò la 
strada rischiando di essere messa sotto più volte da un traffico impazzito. Sulla panchina trovò un pezzo di carta bianco. Si accese un'altra sigaretta, tra una tiro e l'altro fischiettava un pezzo di jazz a lei caro: SO WHAT. Passavano i minuti, non sapeva più cosa fumare. Guardò tristemente gli elefantini che facevano capolino dalla borsa. Poi guardò il foglio bianco, ancora lì, incastrato tra le fessure della panchina. Ispezionò intorno con lo sguardo e furtivamente lo agguantò. Tirò fuori la sua matita preferita e senza tentare la benché minima resistenza iniziò a dipingerlo di parole. Era il suo vezzo, la sua libidine, la sua malattia, il suo talento. Scrivere su tutto quello che era bianco era per lei una sorta di mantra. Non sapeva resistere. 
Prima di scrivere recitò la solita preghiera di rito verso se stessa: Oh cuore mio, non alzarti a testimoniare contro di me; era una frase che aveva trovato nel libro dei morti e chissà perché l'aveva fatta sua.  
"Ogni faccia vive e vivrà 
di un significato immediato 
i limiti si chiamano realtà, s
olo attraverso la pazzia l
i possiamo superare 
se casomai..." 
Non finì, perché di fronte a lei si stavano materializzando Salvatore e consorte. Mise velocemente in borsa il foglio di carta, lo avrebbe scannerizzato e inviato per mail al suo amico-nemico psicanalista, il dottor Mora, diventato famoso (o famigerato) nel mondo della psicanalisi con il libro "Come le posizioni dei pesci mentre trombano influenzano il campionato del Torino". Libro incomprensibile col quale, nonostante tutto, era riuscito a guadagnarsi un abbonamento gratuito per il Campionato dal Presidente in persona della squadra granata. Corse veloce verso loro, a circa una decina di metri rallentò. Gli scappò un Gesummaria!, "No Cristina che dici? Salvatore e Maria..." la riprese sorridendo Salvatore. 
Strinse la mano di Maria, abbracciò Salvatore, ma tutto in modo confuso, era sconvolta, impreparata a ciò che aveva visto o pensato di vedere.  

4a Parte. IL FRAINTESO IMBARAZZANTE 
Continuando a essere confusa salì in macchina e partì sgommando, non aveva avuto modo (o forse non aveva voluto) di controllare se quel particolare notato corrispondesse a realtà o soltanto frutto della sua immaginazione. Mentre rimuginava sul fatto, si accorse che era ripartita senza Salvatore e Maria. Improvvisò una retromarcia stile Lauda e tornò al punto di partenza. Imbarazzatissima scese dall'auto e sorridendo agli attoniti malcapitati improvvisò "Scherzetto!". 
Salvatore stette al gioco e, per non innervosire Maria che intanto cominciava a nutrire forti dubbi sulla serenità mentale della romana de' Roma, si sbilanciò in un a dir poco bislacco romanesco : Aooo me son sentito morì, e ce siamo detti e ora non se magna più, ho 'na fame che co' 'na sniffata me ne magno quattro, minchia!" 
Maria, che non comprendeva il gergo romano, dette una gomitata al marito, "Ma come parli?" Entrarono tutti in macchina, Cristina fece la conta, per sicurezza. Erano tre, compresa lei, poteva ripartire, direzione Rebecca e Rita. 
Strada facendo parlavano del più e del meno, le solite domande per rompere il ghiaccio: com'è stato il viaggio? Roma vi piace? avete dormito bene? la cucina romana è di vostro gusto?
Senonché una brusca frenata, fece cadere dalla borsa aperta della nostra, un po' di elefantini e delle tartarughine. Cristina, che non aveva voglia di spiegare come ci fossero capitati, tirò fuori con nonchalance "L'ho comprate da un giovane africano, l'ho fregato gli ho dato 5 euro e domani rivendo tutto per quarantacinque!" Maria , sensibile alle sorti degli immigrati, storse la bocca e guardò Salvatore con aria di sfida. Cristina , pensando che la battuta fosse stata recepita, continuò "Ce ne vorrebbero di più di 'sti bei negroni sai che affari farei? Una spinta di qua e un'altra di là et voilà, l'uto riparte piena di tartarughine ed elefantini!" 
Naturalmente aveva volontariamente mescolato verità e gioco, mossa sbagliata, anzi sbagliatissima. La tensione cominciava a salire. Ad un tratto uno squillo particolare del cellulare di Cristina fece sobbalzare la compagnia. Lo squillo era l'inno del Torino, segnalava che la telefonata in arrivo era del dottor Mora. Il Mora di solito riusciva nell'intento di fare innervosire Cristina, telefonava sempre nei momenti meno opportuni, aveva come un sesto, anche settimo senso, e più capiva che era il momento sbagliato più si divertiva.
"Oh Mora che vuole a quest'ora? No, non credo che verrò a Torino per vedere il derby con la Juve, che me ne frega a me, scusi? Ah, sta scrivendo un nuovo libro? Vuole che le faccia l'introduzione? Ma sta scherzando? E secondo lei io faccio la prefazione a un libro dal titolo "L'inversione di tendenza sessuale delle zebre dopo il derby vinto dal torino"... ma stiamo scherzando? Si d'accordo me lo mandi... Nooo non si dice rum ma rom!!! N ormai, ci hanno invaso. Io? No, mi stanno on ce l'ha? Ma Dio Santo si trovano dappertutto ormai, ci hanno invaso. Io? No, mi stanno sul culo da morire, preferisco la carta straccia. Va bene, ciao!"
Rom fu la parola del disastro; naturalmente il Mora si riferiva al cd rom, ma per un difetto temporaneo al labbro superiore, dovuto a una colluttazione con un tifoso juventino per giunta iscritto all'esercito di Silvio, non riusciva a disincastrare bene quella parola. 
Maria iniziava a non gradire la compagnia, questa romana si stava dimostrando senza cuore verso i deboli e per giunta speculatrice negli affari. No cazzo, questa vacanza romana non stava andando per il giusto verso. Sperava che gli altri fossero diversi, meno strani, per giustificare almeno in parte questo strano cordone che li legava al suo Salvatore.  

Keith Haring


5a Parte. GLI ALTRI
Si stavano avvicinando al luogo del ritrovo con Rebecca e Rita. Mancavano pochi minuti all'arrivo, Cristina sentiva che il primo impatto non era stato quello sperato. Salvatore, che conosceva come uomo tranquillo e assennato, emanava elettricità, si capiva che era sulle spine. Dallo specchietto retrovisore controllava Maria che sembrava ormai imbalsamata, quasi cucita allo schienale dell'auto, come se volesse tenersi a distanza sia da lei che dal marito.  
Cristina sentiva una certa desolazione che saliva dallo stomaco. Cos'era che non aveva funzionato? La paura, il dispiacere, l'imbarazzo partorirono una breve poesia nella sua testa. Aveva bisogno di scrivere! Assolutamente! Magari dopo aver scritto, regalare a Maria quelle poche frasi, dicendole "Guarda sono per te, forse non ci siamo capite, scusa, noi donne siamo particolari, non sempre alla prima, nonostante le genetiche similitudini, ci comprendiamo; ma abbiamo un mondo comune."
Naturalmente niente di tutto questo avvenne, e forse, sarebbe stato il miglior antidoto, rimasero invece parole solitarie, nella sua mente:
Siamo tre punti, attimi per diverse direzioni, punti perduti che danzano per nessuno, solitarie figure senza senso, beviamo questo vinello stupendo e scopriamo ridendo i nostri romanzi.
Un 'inchiodata micidiale riportò i tre alla realtà. Maria che non si era messa la cintura, sbatté violentemente sul sedile davanti, colpendo con la mano la testa di Cristina, la quale si lasciò andare a un liberatorio "Eccheccazzz!" 
Salvatore controllò subito che sua moglie non si fosse fatta male. Cristina, invece, ispezionò nello specchietto i danni alla sua acconciatura. Maria, di contro, sbuffava come una caffettiera, lamentandosi del caos capitolino ma in cuor suo criticava aspramente la guida a dir poco "ferrarista" della romana. L'inchiodata era nata a causa di un ritardato riconoscimento delle due prossime coinquiline dell'auto. Cristina immersa nei pensieri le aveva sorpassate nonostante Rebecca le avesse fatto cenno di saluto con la mano qualche metro prima del sorpasso.  
Scesero dall'auto tutti e tre. Rebecca si allungò verso Salvatore abbracciandolo, Rita fece lo stesso. Poi Rebecca strinse la mano a Maria "Scusa per il mo abbigliamento, oggi per questa occasione speciale ho voluto portare una parte di me che non potevo lasciare da sola a casa. Belli quando siete usciti dalla macchina, ho pensato a un triangolo sommatamente trigonometrico!"
Maria pensò di stare sognando, guardava quella donna dagli occhi cerulei, vestita come un sex pistols, dal trucco evidente, un nero violaceo sugli occhi, rossetto rosso, cravattino di pelle su di una t-shirt color melanzana, due spille da balia in bella mostra e una catena a corredo di una gonna viola, calze a rete rosse e anfibi ai piedi. Non sapendo cosa dire, sbagliò clamorosamente "Ah, sei una dark!?" Rebecca la guardò delusa "Nooo, che dici? I dark sono vestiti solo di nero, io non potrei mai seguire una filosofia che non concepisce un rapporto paritario con le sfumature, sarebbe come negare all'intelligenza la peculiarità deell'informazione, sarebbe un problema di livelli, quasi incolmabile. Come se un terzo occhio non trovasse spazio sotto l'osso frontale, non ti pare?" 
Maria si sentiva svenire, non aveva capito niente di quello che Rebecca le aveva detto, ormai sperava di stare ancora sognando, l'abbacchio della sera stava forse facendo effetto, tra non molto si sarebbe svegliata e la giornata romana sarebbe iniziata, normalmente. Salvatore intanto parlava con Rita, si scambiavano informazioni di carattere umanistico. Tempo addietro Rita aveva parlato, sul luogo virtuale dove spesso tutti si ritrovavano, di un'opera teatrale a lei molto cara, di Eve Ensler: I Monologhi della Vagina, uno spassosissimo monologo dove la vagina viene vista come strumento di emancipazione, attraverso il quale le donne possono completarsi come femmine e come individui. Talmente bella fu la recensione di Rita che Salvatore, uomo curioso nonché fine amante del teatro, volle a tutti costi riempire questa lacuna. 
Aveva quindi, prima di partire, letto e riletto il libro e si era visto pure un paio di volte almeno, su youtube, la rappresentazione scenica sotto la regia di Emanuela Giordano. Voleva assolutamente discuterne con Rita, tanto gli era piaciuta. Ma si sa, come dice sempre Cristina, non tutte le ciambelle nascono col buco e neppure tutti i buchi nascono dalle ciambelle. Non si sa come né perché, forse solo col tempo avremo una risposta, Salvatore, uomo dalla dialettica pronta, nemico delle frasi mutilate, quel giorno, chissà se stanco o forse solo emozionato, fece quello che in una situazione normale non avrebbe mai, e sottolineo mai, fatto: mutilò la frase. "Rita che piacere vederti, non vedevo l'ora di parlare con te della Vagina, mi è piaciuto tantissimo. 
Maria voleva esplodere, anzi no, voleva che esplodessero loro. Anche suo marito, sembrava un alieno, cosa stava succedendo? Chi erano costoro e soprattutto chi era in realtà Salvatore? Cos'altro l'attendeva? Mancavano all'appello il Palma, l'Avvocato e Er Boggio, un brivido freddo l'assalì, aveva paura, per la prima volta in vita sua era assalita dal panico. Asterix aveva ragione, S.P.Q.R. stava per Sono Pazzi Questi Romani. Intanto Cristina si rese conto che quello che pensava fosse allucinazione era realtà. Voleva scoppiare a ridere ma il terrore di come si sarebbe evoluta la situazione la trattenne.

6a Parte. Cristina in difficoltà
Dopo i saluti, dovevano recarsi al ristorante dove li aspettavano Giuseppe, Donatella e Paolo. 

Erano ora in cinque, sarebbero stati stretti. Ci furono incomprensibili contrasti sulla disposizione dei posti in macchina. Qualcuno doveva sedersi sopra le ginocchia di un altro. Rebecca non capiva perché non poteva sedersi sopra Salvatore, era disposta a sacrificarsi, tanto il tragitto molto breve non avrebbe danneggiato nessuno. Cristina si avvicinò a Rebecca sussurrandole "Meglio di no... palle enormi." Rebecca sgranò gli occhioni color cielo d'Irlanda e di rimando: "Che c'è? Mi sembra di assistere al cozzo di una barriera dietro la quale non passano vibrazioni." 
"Lassa perde', dammi retta perdio, non salire sopra Salvatore" incalzò Cristina.

Rebecca non capiva, stava per replicare ma Cristina intervenne energicamente:
"Scusate amici, vi prego di solidarizzare con me, ho già preso due multe nel giro di un mese e mi hanno tolto sei punti dalla patente, non vorrei rischiare di farmi fermare perché siamo in cinque visto che la mia auto è immatricolata per quattro. Quindi vi chiedo di essere pazienti e naturalmente se c'è un volontario disposto a nascondersi alla vista di eventuali vigili o carabinieri, si tratta di pochi minuti..." disse tutto questo guardando Maria, ma lo sguardo fu del tutto casuale, si trattava soltanto di concentrarsi su un punto qualsiasi onde evitare di guardare Salvatore o meglio una parte di Salvatore. Alla fine partirono. Dietro Rita e Salvatore, davanti Cristina alla guida con accanto Rebecca. Nel portabagagli , insieme a un buon numero di elefantini di legno, Maria che ancora non aveva compreso come fosse riuscita a farsi incastrare (mai verbo fu più azzeccato) in quella situazione. L'evento stava prendendo una brutta piega, come d'altronde, nello specchietto retrovisore, la sua acconciatura. 
"San Francesco di Sales, protettore degli scrittori aiutami tu" e così pensando accelerò bruscamente con relativi scossoni per tutti. Dal bagagliaio si sentì un gemito e tutti all'unisono: "Cazzzzz Maria!!!"

7a Parte. ER BOGGIO, L'AVVOCATO E IL PALMY 
Arrivati al ristorante e scesi di macchina si proiettarono a salutare i tre amici che li attendevano. L'avvocato era serio, ultimamente aveva avuto un problemino con la sua professione o meglio la sua professione aveva avuto un problema con lui, quindi era sotto "cura". Di solito Giuseppe era l'animatore del gruppo o almeno colui che teneva allegra la combriccola, quindi il trovarlo corrucciato fu sintomo di ulteriore preoccupazione per Cristina, la quale confidava invece molto sulla verve dell'amico. Il problema dell'avvocato è presto detto: ultimamente Giuseppe trovava difficoltà nell'esprimersi tecnicamente nell'ambito della sua professione, cioè gli venivano a mancare nei momenti clou dell'arringa quei tecnicismi propri degli avvocati. Questo creava in lui grossi problemi, i quali lo preoccupavano non poco, non solo per il buon nome che si era fatto nel corso degli anni, ma soprattutto per il prossimo futuro. Tant'è che meditava di riprendere in considerazione il progetto che aveva coltivato fin da bambino, l'addestratore di marmotte. La patologia di Giuseppe, non bene classificata, era stata presa in esame dal dottor Mora, che per una strana triangolazione era di lui diventato amico. La terapia del dottor Mora, psicanalista sui generis (lui si definiva sui cojones) , prevedeva due strade. La prima era un contributo visivo che l'avvocato doveva sorbirsi per almeno due settimane una volta al giorno: tutte le vittorie del torino nei derby con la Juventus, l'altro di carattere più pratico, cioè l'impiego forzato, in ogni situazione quotidiana, del gergo giuridico, affinché Giuseppe potesse lentamente riappropriarsi dell'uso dei suoi strumenti professionali. Naturalmente visto che il dottor Mora lasciava facoltà di scelta, Giuseppe preferì la seconda opzione. Donatella sembrava eterea, non camminava, danzava. Salutò il gruppo con una voce talmente simile al suono di un 'arpa che tutti si ammutolirono, attendendo che salutasse ancora. Se qualcuno l'avesse incontrata in un bosco avrebbe sicuramente pensato di aver visto la fata della natura. Era una figura centrale nella vita di Cristina, spesso l'aveva sostenuta e rinfrancata e come spesso accade nelle grandi "vite" non subito si erano capite. Ricordando questo, Cristina fu pervasa da una dose di ottimismo, anche con Maria poteva essere così! . Già Maria!!! Eccheccazz... nessuno si era ricordato di Maria, ancora chiusa nel portabagagli. Cristina si girò di colpo verso l'auto posteggiata in divieto di sosta esclamando a pieni polmoni "Gesummaria!!!" 
Salvatore che stava ancora salutando Donatella si voltò verso Cristina, questa volta un po' irritato, suggerendo di nuovo "Dai Cri, Salvatore e Mar..." non finì la frase, sbiancò di colpo, cercando un appoggiò, l'avvocato si prestò subito. "I patti convenuti con le leggi fisiche contravvengono alla stabilita' del soggetto amico, si appoggi pure Salvatore , mi sfrutti pure come usocapione."

8a Parte. LA VENDETTA 
Non fu facile ristabilire l'equilibrio. Salvatore cercava di nascondere la sua disperazione. Purtroppo però, se gli era possibile nascondere la parte emotiva stessa cosa non valeva per quella fisica. Cristina aveva visto giusto. Le palle di Salvatore erano diventate ancora più enormi di quanto lo fossero state al primo impatto visivo della nostra beneamata. Il dottor Mora, conosciuto sempre attraverso strane triangolazioni virtuali, gli aveva diagnosticato a suo tempo una patologia rara quanto difficilmente curabile. L'aveva battezzata Juvegame, sostenendo che tale rarità poteva essere contratta da tutti gli amanti del calcio e del bel gioco. Dopo essere stato messo al corrente dal paziente che del calcio non gli fregava un bel niente, ripiegò su un semplice e maccheronico termine medico Scrotus Enormes da Situatio Stressante. La terapia consigliata fu quella di NON evitare assolutamente situazioni emotive stressanti o particolarmente ansiose, fino a che il soggetto non riuscisse naturalmente a recuperare il suo equilibrio psicofisico e superare in modo naturale il problema. Quindi chi vi narra, giudice imparziale fino a qui e soltanto cronista, vede una certa correità nella persona del dottor Mora, in quanto saputo da fonti certe che il buon Salvatore voleva farsi questa vacanza romana da solo, ma sospinto dalla More-Therapy aveva contravvenuto alla regola fondamentale della buona convivenza: "moglie e buoi dei paesi tuoi, ma gli amici son tutti cazzi tuoi!" 
Naturalmente Maria non stava bene, voleva tornarsene subito nella sua bellissima Sicilia, lontana chilometri da quei pazzi di romani. Peccato, sostiene ancora il vostro cronista, perché donna ricca di sentimento e intelligenza che se avesse avuto modo di interagire in tempi non sospetti con quei pazzi, si sarebbe trovata, e si sarebbero trovati, in sintonia. Ma la vita è tutto un quiz e qualche volta anche se conosci la risposta esci dal gioco, perché l'emozione ti ha giocato un brutto scherzo. Ma noto che mi sto allontanando dalla mia funzione di cronista, scusate. 
Mentre cercavano, tra mille scuse, giustificazioni e imbarazzo, di avvicinarsi ai posti a tavola, Paolo con aria serafica si avvicinò a Cristina: "Non hai pensato alla pericolosità o tutto ti è venuto spontaneo? Non tanto per la scomodità ma, conoscendo come guidi, io avrei preferito venire di corsa piuttosto che nel portabagagli, potevi darle una chance
Rispose una iena: "Paolo per favoreeeee anche tu, che palle!!!" Non lo colse sorpreso: "Gia', hai notato anche tu? In effetti, ussignur !" 
Rebecca era l'unica che non si era dannata per l'increscioso evento, anzi dopo che aiutarono Maria a uscire dall'impiccio Rebecca le si avvicinò: "Sai che a volte tutto è inscindibile e un'interpretazione antitetica a carattere passivo corrisponde al massimo della libertà? Ti invidio un po', sei fortunata a poter sfiduciare la tua normalità per un istinto più aperto, non ti pare?"
Maria non comprese benissimo, però le piacquero quelle parole che su di lei ebbero un effetto sedativo. Rebecca le piaceva o almeno le sembrava meno pericolosa. Decise così di sfogarsi con quella punk dall'aria tenera e dal linguaggio coinvolgente. In realtà in  cuor suo era anche un modo di vendicarsi di quella romana anti-rom, sfruttatrice dei venditori extracomunitari e soprattutto decisa a eliminarla fisicamente. Si fece coraggio e fermò Rebecca prima di entrare: "Quella lì (indicando per sbaglio Er Boggio) è una carogna e potenziale omicida, devi stare attenta Rebecca, non ti fidare!" 
Oh, ce l'aveva fatta! Era riuscita a tirar fuori quello che sentiva, cosa peraltro non molto facile per lei, donna introversa e pacifica. Rebecca ascoltò in silenzio e scrutò Donatella. Maria si aspettava conforto e confidava tantissimo nella dialettica aristocratica e rilassante della sua nuova complice. Rebecca prese fiato, sgranò i suoi occhioni azzurri ed esclamò a voce alta: "Gesummaria che palle!" 
Cristina che stava varcando la soglia del ristorante abbracciata a Paolo, si girò di scatto in preda al panico, anche Rebecca ora sapeva? Aveva visto anche lei? Ma perché urlarlo così? Non era da lei! Paolo intanto si domandava se in una società socialista un paio di palle di quella portata sarebbero state divise equamente tra i più sfortunati. 
Salvatore sconsolato azzardò un timidissimo "No Rebecca: Salvatore e Maria", ma oramai non ci credeva più nemmeno lui. Er Boggio intanto aveva chiesto al cameriere quale fosse il tavolo prenotato, richiesta semplice ma alla quale il cameriere, che chissà per quale strano fato si chiamava Ulisse, ammaliato dalla sua voce non rispose, facendosela ripetere ben sei volte. 
Giuseppe notava una strana atmosfera, quindi con voce potente richiamò i convitati all'ordine: "Signori presenti, direi di accomodarci per poi poter esprimere in libero arbitrio un giudizio sull'operato dello chef!"
Nessuno si rese conto di come ci riuscirono, ma in un lasso di tempo che nessuno potrà mai quantificare, si ritrovarono tutti a tavola.  

9a Parte. L'EQUIVOCO CONTINUA 
Tutti a tavola finalmente. La disposizione nel rettangolo apparecchiato: Cristina, Giuseppe, Rebecca, Paolo, posto vuoto per Rita, poi Maria, Donatella, Salvatore.
Insomma il tempo passava e Rita ricadde nel suo peccato di gioventù: l'orgia culturale, mentre gli 
altri, inoperosi, non capivano il motivo del suo ritardo. Paolo sentenziò che forse era meglio cominciare a ordinare, Maria, dalla fame e non solo, aveva l'occhio lucido, l'avvocato consultava il suo dizionarietto giuridico, Salvatore cercava di trovare una posizione ergonomica consona al suo problema, Donatella era pressoché braccata dal cameriere Ulisse che non aspettava altro che lei ordinasse qualcosa per farglielo ripetere più volte. Cristina tamburellava nervosamente sulla tavola guardando con golosità i tovaglioli di carta bianchi, poggiati vicino a lei. Rebecca, invece, meditava sul da farsi: "Scusa Cri,  ci ho riflettuto molto ma devo dirti una cosa, privata."
Cristina poggiò l'orecchio vicino alle labbra di Rebecca: "Velocemente ti dico che Maria mi ha messo in guardia da Donatella, asserendo che è una potenziale omicida e anche razzista." Cristina si scostò da Rebecca, poi la fissò negli occhi, spaesata: "Rebecca, scusami tesoro, non ho capito niente, puoi essere più chiara?" Alzando gli occhi al cielo sconsolata, Rebecca ripeté all'orecchio di Cristina, questa volta cercando di essere più chiara "C'e' una parte neosofica in Maria che trascende la volontà di partecipazione nei confronti di Donatella. I suoi pensieri sono affamati di un fissatore empatico che l'inchiodi a un presente asintomatico. Rischiamo di entrare in una danza oscura, densa di fritto e farina gialla. Ho paura che il suo gesto pensante sia di carattere perverso. bisogna trattenere la fuga della cattedrale onirica e gioiosa dei nostri amici, non ti pare?" 
Cristina impallidì: "Vorresti dire che Maria ti ha detto che Donatella e' una persona pericolosa, razzista e potenziale omicida??? Ma come si permette?" 
Rebecca annuì. Intanto Rita era tornata, sì era tornata, tutta spettinata, con occhio libidinoso e con otto elefantini di legno, due tartarughine, due cinturini scacciasfiga e una collanina di finto corallo. Si accomodò, spargendo tutto sulla tavola. In fretta e furia cercò di buttare la merce nella borsa e guardando Maria, sorridendo, per non dare spiegazioni compromettenti buttò là una battuta, la più infelice "ah quanta roba, non ho saputo resistere, ahahahah porterò tutto a scuola e li venderò ai miei studenti..." 
Maria non aveva parole, anche lei , la Rita, così intellettuale, in realtà era un avvoltoio. 
La cena iniziò, l'ultima cena. 

10a parte. L'EPILOGO 
Sorvolerò sul menù, sorvolerò sugli sguardi carichi di tensione, sorvolerò sul dolore di un mancato piacevole incontro e non parlerò nemmeno di Ulisse che si ritrovò a fine cena a chiedere il numero di telefono a Donatella, giusto per sentire la sua voce. 
Parlerò e descriverò in breve soltanto di un episodio, casuale quanto determinante per la nostra storia. 
Cristina era dolorante e furiosa, ostentava sorrisi di cortesia, cercava di dare pace alla situazione ma in cuor suo soffriva. Ad un certo punto si alzò da tavola , prese un tovagliolo bianco, ancora intonso e corse in bagno. nel bel mezzo del tragitto incontrò Samir che la riconobbe "Ciao bella signora, come va la macchina? Se ha bisogno di una spinta io sono qua." 
Non ci fece caso, neppure lo riconobbe, entrò decisa nel bagno, si sedette sul water, tirò fuori la sua matita e cominciò a scrivere, febbrilmente, come posseduta da un demone benevolo. 
Pessoa diceva che scriveva ciò che sentiva perché così facendo abbassava la febbre di sentire. 
Ecco, per Cristina era lo stesso. Scriveva per non piangere della febbre che sentiva. 
"Non pensare a me come accoglienza 
Potrebbe anche succedere per caso 
Che una sera bislacca di nostalgia e dolore 
Mi lasci intenerire da una mano tesa 
Da un dolore latente, un pianto casuale 
Troveresti rifugio nei residui indecenti 
Di un antico benevolo tepore 
Tornerebbero frasi ormai dimenticate 
Potresti persino giudicarmi affettuosa 
Ma non fidarti di queste fievoli risorse 
Durano poco e non si svegliano al mattino 
Albe impotenti le guardano fuggire 
E nuove notti le osservano passare 
Quasi sempre distratte, incuranti di me 
Sono sorrisi e tenerezze che fanno male 
Indulgenze che sconterei senza perdono 
Meglio una cecità animale un arido sorriso 
Il salutare egoismo di chi conta gli sbagli 
E ne fa collana di perle 
Da ostentare con superbia 
E’ sempre tempo di sentirsi stranieri 
Avulsi da una banale e comune umanità  
Non pensare a me come accoglienza 
Io sono un virus" 
Rilesse velocemente, si asciugò gli occhi, dette una rassettata ai suoi capelli, piegò il foglio di carta e uscì dal bagno. Appena fuori stavolta riconobbe Samir, il quale le offrì subito un pezzo pregiato dei suoi, una candela di cera nera, con disegnati intorno degli elefantini. Cristina sorrise, accettò l'offerta ma visto che aveva lasciato il portamonete nella borsa declinò a malincuore l'affare. 
Samir mise nella mano della donna la candela e spiegò ridendo "Non voglio niente, questo è un regalo, diciamo uno sconto per acquisti del pomeriggio."
Imbarazzata e non sapendo come sdebitarsi, mise velocemente nella tasca di Samir il foglio di carta dove c'erano le sue parole e tornò dai commensali. Ma l'amore quello con la minuscola, quello stretto, quello che si disegna da solo, con i suoi gessi profumati, quello solitario, in cerca sempre di vite addormentate, qualche volta trova la parete giusta e allora comincia a disegnare, senza che noi possiamo far niente per impedirlo.  
La cena terminò, gli otto fantastici personaggi si avviarono verso l'uscita. 
Maria si trattenne un minuto in bagno mentre gli altri l'aspettavano fuori. 
All'uscita si trovò di fronte a un ragazzone alto, pelle colore ebano con un sorriso disarmante che le offriva per pochi euro un pezzo pregiato. Si salutarono, baci e abbracci, con la promessa palese di rivedersi presto e con quella segreta di non rivedersi mai più.
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Keith Haring


Tornata finalmente a casa Maria ritrovò la sua pace interiore. Anche Salvatore aveva ritrovato, finito lo stress, la "giusta dimensione". Casa dolce casa, lontana da quei pazzi. 
Quella notte Maria non aveva sonno, girellava per casa senza meta, si mise a preparare le cose per l'imminente colazione, erano le quattro, Salvatore tra poco si sarebbe alzato, lui amava fare 
colazione di buon mattino. Cercò nella borsa il cellulare, voleva mandare un messaggio importante prima di scordarselo nuovamente. Non trovò subito il cellulare ma un foglio di carta spiegazzato di cui non ricordava la provenienza. Lo aprì e iniziò a leggere. Quello che c'era scritto era bellissimo. Finì di leggerlo e ricominciò. Poi lo rilesse di nuovo e mentre rileggeva si commuoveva. 
Che bellezza! Ripensò a quelle giornate romane, a quel ragazzo nigeriano che gli aveva venduto una sua poesia, dicendole che l'aveva scritta in un momento di dolore, che sicuramente le sarebbe piaciuta. Aveva ragione. Con un sospiro si disse che in fondo non tutto era andato malissimo, sì quella Cristina era stata odiosa, però questa poesia stupenda di Samir la riconciliava con quel disastro d'incontro. Ad un certo punto si avvicinò al computer di Salvatore, lo accese senza sapere perché, poi su google digitò la parola facebook, aperta la schermata digitò la password che all'insaputa del marito conosceva benissimo, aprì l'account di Salvatore, cercò tra gli amici colei che aveva attentato alla sua vita, la vipera, l'insensibile maliarda. 
Voleva capire meglio per quale oscura ragione Salvatore la stimasse.  Intanto Salvatore si era svegliato, aveva percepito dei rumori. Ora era lì, dietro di lei silenzioso, teso, sudava freddo-Che ci faceva Maria a quell'ora di notte su facebook? Temeva il peggio, non che la situazione in sé fosse pericolosa, non aveva niente da nascondere nel suo account. Era preoccupato per il suo problema fisico. Lentamente abbassò lo sguardo, terrorizzato da quello che avrebbe potuto vedere, tra l'altro era nudo, poteva essere imbarazzante. Invece niente!!! La terapia del dottor Mora aveva funzionato, ora poteva affrontare tutte le avversità della vita senza dover fare i conti con i due gemelli di mutanda. Tornò a letto, senza farsene accorgere da Maria. Era felice, sentiva che tutto stava andando verso la giusta via. Maria entrò nel diario di Cristina, ma chi cazzo era questa romana stravagante? Voleva capire. Improvvisamente si fermò. Improvvisamente le mancava l'aria. Improvvisamente comprese. Improvvisamente come spesso accade. Piangeva e rideva, rideva e piangeva. Digitò su messaggi, poi tremante lasciò andare le dita: "Cara Cristina, sono Maria la moglie di Salvatore, scusa se ti disturbo. Volevo dirti che..."
Nello stesso istante in quel di Roma, una donna insonne di nome Cristina Prana, regalava parole allo schermo di un pc. Arrivò un messaggio nella bacheca. Salvatore Viasa le aveva inviato qualcosa. 
Non era Salvatore. Lesse tutto, velocemente un groppo alla gola. Si alzò immediatamente dal computer, nella penombra della stanza agguantò dal cassettone un libro. Aprì la finestra e andò sul balcone. La luna era enorme, abbagliante. Le dette la schiena per usarne la luce, per leggere l'ultima pagina del libro: e così ho capito che non ci siamo comprese, mi dispiace, spero veramente di rivederti presto. Un abbraccio, Maria.
Era una bella notte, chiuse il libro e sorrise al titolo: " Un romantico tragicomico weekend romano" di Massimo Mantelli. Lo strinse a sé come per proteggerlo, poi spense la luna e aspettò, domani sarebbe stato un altro giorno.

di Massimo Mantelli

domenica 14 agosto 2016

Del latte. di Rebecca di Santo


La Madonna tiene sempre lo sguardo basso. Chino sul corpo del figlio. Non è remissiva, è innamorata. 
A Emma quell'affresco fa venire il vomito.
E così mentre la guarda sente il dolore che la opprime. Un prurito insopportabile ai capezzoli. Una pressione che la solletica, fra ascella e seno. Si sente stordita e concentrata.
Si sente svanire in quelle sale così artificiali. 
Corridoi lontani dalla strada; due piani di altezza, uno spesso strato di mura antiche. La falsità che Emma sente in quel luogo, non contiene nessun imbroglio. È il sovrapporsi stupido del tempo. 
Vorrebbe scrostare dai dipinti lo spessore del colore. 
Si mette di traverso per osservare il profilo delle tele, del legno e inspira profondamente per riceverne l’odore. 
Non è una passione per l’arte la sua.
È una volontà stralunata di cullarsi negli spasmi della sua sofferenza e nella volontà perversa di non abbandonarla, mai.
Solo cinque mesi fa Emma sedeva sul letto sconcio e sporco dell’ospedale. 
Il letto si era trasformato in quella sola notte. 
Lo sa. Sa che lo sguardo sbieco della Madonna, sguardo quasi ottuso, le è appartenuto. 
Durante quella notte non sentiva il buio spingerle dietro come lo sente così tanto ora. 
Non lo avvertiva nemmeno quando era chiaro come il freddo premesse sul vetro della sua vita. Non sentiva niente. 
Era così semplice: era solamente viva.
Mentre guarda quella Madonna che allatta il bambino le arrivano gli schiaffi, lo sfregio aggressivo di chi riesce a farti guardare dove non dovresti. 
La Madonna di Signorelli guarda un’azione incompiuta. 
Ma sa che c’è una promessa. Il bambino che sta allattando è voltato e guarda Emma, guarda chi non può far parte del suo evento. 
E quel latte?
Ecco cosa dà il voltastomaco a Emma. Il latte esce dal capezzolo e si spreca. Nessuna bocca a succhiarlo.
<<La desolazione della Madonna…>> questo sta dicendo Emma con un filo di voce, <<…qualcuno la vede? Quella creatura sembra fare sfoggio dell’abbondanza di quella dedizione. Di quel seno pieno che si permette di lasciar svuotare senza che nessuno se ne nutra! È assurdo. Assurdo! Qualcuno deve fare qualcosa.>>

Eppure quella sera, seduta sul letto fra cuscini e lenzuola non avrebbe neanche lontanamente pensato di voler scomparire di lì a qualche ora. I suoi seni colmi. La sala parto lasciata da poco. Sentiva la pressione del latte aumentare, il cibo di suo figlio. 
Durante l’attesa del suo bambino aveva sognato. Aveva sognato il suo nome. E lo teneva dentro nel respiro. Lo avrebbe detto appena si fossero trovati soli. Appena glielo avrebbero portato e lei lo avrebbe avvoltolato, abbracciato. Appena avrebbe potuto sfiorare con le dita e gli occhi la pelle stropicciata e silenziosa di suo figlio, quel nome le sarebbe uscito in un sussurro.
Si era appisolata. Forse un minuto o di più. Appisolata. Quasi seduta senza poggiare la schiena al letto. Ansiosa come al primo appuntamento, o all’esame di maturità, o come quei tre minuti prima di sapere che era arrivata seconda alla gara di scacchi. 
Quando ci si addormenta per pochi minuti la mente al risveglio prende a girare a un ritmo stranissimo. Non si trova nella sua nota regolarità, piuttosto si raggruma. Si avvinghia a qualche visione. Emma è infatti rimasta intrappolata lì. 
Ha il nome di suo figlio incastrato fra lingua e denti. Incastrato nell’emozione di volerlo toccare. 
Al suo fianco c’è la notte e Miranda, la ragazza che dorme nell’altro letto. Il resto è fatto di penombra e rumori ovattati. Dal corridoio pochi suoni. Dal corridoio il tramestìo rarefatto.

Emma non era sicura di afferrare la direzione delle luci o delle voci. O degli zoccoli delle infermiere, ma quando i passi divennero decisi non ebbe alcun dubbio. 
C’era il nome, quel nome spingeva fra gli incisivi. Sapeva di saliva, buona. Sapeva del suo sapore già noto e del suo profumo.
I passi nascondono la luce. Ecco, se Emma dovesse ricordare se ci fosse stato qualcosa di stonato direbbe che , non era giusto e normale che un rumore coprisse la luce, eppure lei aveva sentito e visto proprio questo. 

Poi i passi si sono fatti sostanza e parole e delirio e quel letto si è fatto lo schifo indistinto in cui Emma vive.  
Ha deliberatamente scelto questo nome per la sua sensazione. Ha scelto la parola schifo fra un milione. Perché non ci può essere una parola degna. Perché né la disperazione, né la solitudine la interessano. Perché nessuna parola può più essere pronunciata. Perché l’unica vera parola non era stata detta: il nome.
Il primo atto compiuto dopo essersi guardata allo specchio, dopo essersi svegliata dalla massiccia dose di calmante che le avevano dato a forza, era stato quello di spaccarsi i denti. Un colpo netto sulla porcellana del piccolo lavabo nel bagno. Poi sangue, molto. Eppure il nome di suo figlio era ancora lì bloccato.
Era stata dimessa dopo una quindicina di giorni, dopo essere stata spostata nel reparto di medicina generale. Prima di andare via era passata da lei Miranda. Aveva avuto il cuore di non portare con sé la figlioletta. Miranda era entrata da sola. Emma aveva preso a piangere. Ricordava perfettamente il suo russare tiepido e profondo mentre i passi di quella notte la raggiungevano per presentarle ufficialmente il buio. E quel contrasto fra abbandono e violenza erano davvero troppo per lei. Così Miranda era scivolata via dalla camerata ed era scomparsa col suo passo di madre.

Ora Emma è poggiata al muro. Sta cercando di spiare la materia su cui Signorelli ha dipinto il peccato. Non si è fatta ricostruire i denti. Non sta abbandonando la vita, non se la sente. Capisce che sarebbe un’ulteriore offesa a quel nome intrappolato. Ma al contempo non riesce a trovare nessun senso. Nessun senso. E poi quel seno. Tutto quel latte.
Lei ha dovuto far tornare indietro il suo latte. Ha dovuto forzare il suo corpo a capire che non serviva. Che non c’era nessuno. Aveva provato a strizzare i seni con le mani e con tutta la forza. Si era procurata dei lividi. Era passata in un lampo dall’essere una fidanzata all’essere la vedova di stato. La vittima di una strage. 

Dentro la Galleria Nazionale dell’arte si è addormentata. Dal basso ha visto la tela del tessuto su cui vive il dipinto. Ad occhi chiusi sente il liquido caldo che esce dalla Madonna colarle sul viso. Di fronte a lei la guida del gruppo tedesco rimane incredula. Una ragazza addormentata col viso stravolto. La fotografa. 

Muro bianco. Teca con dipinto. Donna addormentata. Nel suo sogno Emma ride, ride di cuore e dal corridoio sulla porta arriva improvviso, incontrastato, un bagliore innominato.

Rebecca



domenica 7 agosto 2016

Note alla Censura con Nota a Urlo. di Rebecca e Allen Ginsberg

Se dovessi dire cosa è cambiato avrei difficoltà.
Facile dire che tutto è cambiato.
Il messaggio ora è veicolato dalle onde elettromagnetiche. 
La velocità della luce credo somigli molto al percorso tra il pensiero che facciamo e il tempo di trasmissione al destinatario o alla rete in generale.
Ma questa velocità porta appresso sempre le stesse falle:
il contenuto ha bisogno di odori, espressioni, sfondi.
Perché ciò di cui parlo ha sempre quel sentimentalismo caro alla Beat Generation, quel senso di umanità proprio di chi intende raccogliere la voce altrui e donare la sua.
Così io non credo che il mutare del media muti il messaggio.
Io temo di vivere nel tempo in cui la storia non ha nessun fine, la freccia dell'evoluzione non è mai stata scoccata perché l'arco non esiste.
In questo percorso che si realizza attraversandolo ciò che mi duole (una parte solo apparentemente di superficie) è che la rete è rimasta censoria.
Censoria e bigotta.
La rete, i social nella fattispecie, non amano il corpo.
Non sono mistici.
Così perseguono la via che tutti conosciamo:
il nudo non va esposto.
Si può esporre la volgarità, si possono esporre gli eccessi, ma il nudo del corpo spoglio è fuori dall'orizzonte delle piattaforme virtuali.
Così i capezzoli, i glutei, il pene, sono ancora e sempre tabù.
Il mio corpo subisce ancora il predominio della censura deviandoci verso il lecito e l'illecito, costringendoci ad essere fuori o dentro la norma.
Questo è un danno profondo.
Il danno non è la segretezza del mio seno, il danno è il farsi coscienza di una norma sociale aspra e pruriginosa che da sempre ci regola, ferma com'è ad aspettare che la famosa freccia dell'evoluzione scocchi.
Non scocca e così ci dobbiamo tenere il corpo edulcorato e falso.
Il corpo patinato.
Il corpo spiato.
Il corpo su cui picchiare la violenza di un erotismo frustrato e sempre più inodore.
Così riprendo il testo sacro, riprendo Allen Ginsberg.
Allen Ginsberg, 1963

di Richard Avedon


Così in un solo colpo chi crede che il corpo sia peccato dovrà sentire stridere i suoi pensieri davanti al Poeta che urla "Il mondo è santo! L'anima è santa! La pelle è santa! Il naso è santo! La lingua e il cazzo e la mano e il buco del culo sono santi! 
Tutto è santo! tutti sono santi! dappertutto è santo! tutti i giorni sono nell'eternità! Ognuno è un angelo!"
E non tremate, siamo fatti di polvere di stelle e ormoni.
Buon viaggio







Note a Urlo di Allen Ginsberg

Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo!

Il mondo è santo! L'anima è santa! La pelle è santa! Il naso è santo! La lingua e il cazzo e la mano e il buco del culo sono santi!

Tutto è santo! tutti sono santi! dappertutto è santo! tutti i giorni sono nell'eternità! Ognuno è un angelo!

Il pezzente è santo come il serafino! il pazzo è santo come tu mia anima sei santa!

La macchina da scrivere è santa la poesia è santa la voce è santa gli ascoltatori sono santi l'estasi è santa!

Santo Peter santo Allen santo Solomon santo Lucien santo Kerouac santo Huncke santo Burroughs santo Cassadyn santi gli sconosciuti mendicanti sodomiti e sofferenti santi gli orrendi angeli umani!

Santa mia madre nel manicomio! Santi i cazzi dei nonni del Kansas!

Santo il sassofono gemente! Santa l'apocalisse del bop! Santi gli hipsters di jazz & marijuana pace & streppa & tamburi!

Sante le solitudini dei grattacieli e delle strade! Sante le cafeterias piene di milioni! Santi i misteriosi fiumi di lacrime sotto le strade!

Santo il juggernaut senza compagni! Santo il vasto agnello della borghesia! Santi i pazzi pastori della ribellione! Chi capisce Los Angeles È Los Angeles!

Santa New York Santa San Francisco Santa Peoria e Seattle Santa Parigi Santa Tangeri Santa Mosca Santa Istanbul!

Santo tempo nell'eternità santa eternità nel tempo santi gli orologi nello spazio santa la quarta dimensione santa la quinta Internazionale santo l'Angelo in Moloch!

Santo il mare santo il deserto santa la ferrovia santa la locomotiva sante le visioni sante le allucinazioni santi i miracoli santa la pupilla santo l'abisso!

Santo perdono! pietà! carità! fede! Santi! Nostri! corpi! sofferenza! magnanimità!


Santa la soprannaturale ultrabrillante intelligente gentilezza dell'animo!

Allen Ginsberg, 1993
di Brook Dillon

Allen Ginsberg e Gregory Corso
di Peter Orlovsky

Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, 1963
di Richard Avedon


Allen Ginsberg, 1991
di Gordon Ball

Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, 1963
di Richard Avedon

Allen Ginsberg

Allen Ginsberg, Philip Whalen, William Burroghs, 1976
di Gordon Ball