domenica 19 febbraio 2017

"Il Triangolo Rosa" di Mirella Eva Bernardi

Il Triangolo Rosa


Non era più una persona.
Lì dentro, Edward era solo un numero, il numero 182101 per l’esattezza.
Al posto delle sei lettere del suo nome, si erano piazzate sei cifre.
Sul petto, invece, un triangolo rosa aveva preso il posto del cuore.
Quel triangolo urlava  “omosessuale” da tutte le parti e scatenava l’indignazione di chi gli passava a fianco, soprattutto dei soldati nazisti, che, tanto per mortificarlo ancora di più, gli sbattevano le canne dei fucili addosso o gli urlavano parole offensive. Gli altri prigionieri non ci badavano troppo, preoccupati per la morte che poteva arrivare da un momento all’altro. Si poteva morire per qualsiasi cosa, anche per l’umore storto della guardia, che ossessivamente ti controllava.
Edward faceva il possibile per passare inosservato e, contemporaneamente, svolgere bene gli ordini che gli arrivavano.
Il suo ragazzo, invece, non riusciva proprio ad arrendersi all’evidenza. Noah aveva molte più ferite di Edward, molte delle quali risalivano ancora al momento della liquidazione del loro ghetto. Aveva provato con tutte le forze a non farsi catturare ed era un miracolo se non era rimasto ucciso, dopo tutto quello che aveva combinato: arrampicate sugli alberi, tentativi di fuga attraverso le fogne e, addirittura, aggressione di un soldato, che non l’aveva ucciso solo perché aveva finito la riserva dei proiettili.
Arrivato al campo chiamato “Birkenau”, Noah ricevette non solo il triangolo rosa (come Edward) ma anche quello giallo. Questi due triangoli lo indicavano come “ebreo omosessuale”.
I due ragazzi non capivano bene il perché di tali distinzioni.
«Tanto vogliono ammazzarci tutti lo stesso!» commentò Noah, durante una discussione tra i ragazzi del dormitorio numero diciotto.
«I simboli servono per sapere come trattare ognuno di noi.» gli rispose un uomo magrissimo, scheletrito come un albero spoglio. Non era difficile intuire che fosse a Birkenau da diverso tempo. Aveva una stella di Davide cucita sulla giacca esageratamente grande per le sue povere spallucce. 
Non si parlava per molto nei dormitori.
Tutti volevano provare a dormire il più possibile.
Ad essere precisi, non si parlava molto in generale.
Durante le ore di lavoro, i suoni che si sentivano non erano parole, ma lamenti ed urla.
Quelle urla, la maggior parte delle volte, finivano con uno sparo e qualche povero diavolo steso a terra.
Edward aveva sempre il terrore di guardare uno di quei cadaveri e accorgersi che magari era Noah. Cercava di stargli vicino il più possibile per non perderlo di vista, ma non sempre ci riusciva. In quei casi sfortunati, il ragazzo pregava perché Noah non facesse qualche sciocchezza. Sapeva bene che non avrebbe potuto cavarsela ogni volta. Prima o poi, Noah sarebbe arrivato a commettere l’ultima imprudenza e, purtroppo per entrambi, quel momento sembrava proprio essere arrivato. Edward stava trascinando un carretto pieno di pietre, quando sentì un urlo pericolosamente familiare. Come temeva, vide Noah accasciato a terra e un soldato che lo riempiva di calci e lo bastonava con il suo fucile.
D’un tratto l’aguzzino lo afferrò per il collo, impedendogli di respirare. Stava per succedere.
Noah stava per morire ed Edward era lì, a qualche metro da lui ma impotente. Voleva fare qualcosa per impedire che il suo peggior incubo si avverasse, ma riusciva solo a stare fermo e a guardare la scena con il cuore in gola. Si sentì ancora peggio quando Noah girò leggermente la testa e lo guardò.
Non gli stava chiedendo aiuto, voleva semplicemente che il viso del fidanzato fosse l’ultima cosa impressa nella sua mente, prima del buio della morte.
Edward capì i pensieri del compagno, quindi ricambiò quello sguardo intenso, cercando addirittura di abbozzare un sorriso. La stretta sul collo di Noah si allentò, ma fu seguita subito dopo dallo sparo fatale.
Il sangue cominciò ad uscire dalla testa rasata del ragazzo, così come le lacrime uscirono copiose dagli occhi di Edward.
Ormai non gli era rimasto più niente e nessuno.
L'unica cosa bella a cui non avrebbe voluto rinunciare se ne era appena andata.
La sua vita non era più vita, ma solo un insieme di avvenimenti uno più tristi dell'altro.
La presenza di Noah in quell'Inferno lo aiutava più di quanto sia possibile immaginare. Avere una relazione con un ragazzo, in quei tempi, gli aveva causato non pochi problemi, ma era stato anche ciò che gli permetteva ancora di ridere o avere dolci pensieri. Senza Noah poteva solo continuare a far finta di continuare a vivere, ma non era sicuro di volerlo.
Se ci pensava bene, la morte lo avrebbe tolto da quel mondo orribile e avrebbe messo fine a tutte le sue sofferenze.
La decisione era presa!
Rimaneva solo da trovare un modo per farsi sparare più rapidamente possibile.
«Forza, ricominciate a lavorare, se non volete fare la stessa fine!» ordinava la voce dura dello stesso soldato che aveva ucciso Noah. Edward aveva appena trovato il suo biglietto per l'ultimo treno.
«No!» esclamò in modo che l'uomo lo sentisse chiaramente.
Il primo schiaffo non tardò ad arrivare. A quello, ne seguirono altri. La guardia cercò di farlo cadere, ma il ragazzo non cedeva. Dopo una serie interminabile di schiaffi, il soldato si sdegnò e prese il fucile. Lo puntò contro Edward, pronto a sparare.
«Lo dirò solo un'altra volta: torna a lavorare!» gridò con il suo accento marcato.
Edward chiuse gli occhi: rivide tutti i momenti migliori della propria vita, la maggior parte di essi trascorsi con Noah.
Gli vennero in mente anche momenti terribilmente brutti, come l'isolamento nel ghetto e la dura prigionia a Birkenau che stava per finire, e quella di Noah che era già stato liberato.
Edward sentì il grande bisogno di raggiungerlo, e fu questo lo stesso desiderio che gli diede la forza di pronunciare la sua ultima parola:
«No!». Dopo, solo il rumore di uno sparo e di un corpo che si schiantava a terra, raggiungendo nell'infinito la sua metà.

di Mirella Eva Bernardi







Uscire dal cyberbullismo: it gets better (andrà meglio). di Rebecca


Le foto dei ragazzi che si tolgono la vita perché vittime del cyberbullismo tolgono il fiato.
Sempre sorridenti in quel loro apparire sociale.
Luminosi, come gli adolescenti devono essere, nonostante il travaglio che tutti si trovano ad attraversare per crescere e affermare loro stessi.
Fra le vittime del cyberbullismo 1 su 10 tenta il suicidio. 

La vita di chi è vittima di cyberbullismo diviene la vita di una persona che soffre un profondo disagio relazionale, di certo, ma anche intimo, esistenziale: autolesionismo, depressione e pensieri di suicidio sono compagni di viaggio che le ragazze e i ragazzi vittime imparano a conoscere e coi quali venire a patti è difficilissimo e doloroso.

C'è qualcosa che accade nella mente di queste creature che sconvolge il loro assetto, rende irrecuperabile lo stato di lucidità precedente.
Dalle storie lette emergono due aspetti opposti e diversamente drammatici: chi non riesce a confidarsi e rimane in trappola, chi rivela tutto e, nonostante ciò, viene schiacciato dalla depressione, effetto diretto delle violenze subite.
Molte, moltissime ragazze tacciono l'accaduto, non condividono con le famiglie la brutalità di cui sono vittime. Spesso ciò avviene perché c'è stata una complicità iniziale che fa sentire "in colpa". Una complicità sessuale perlopiù. Adolescenti che accettano di condividere foto o video del proprio corpo con quello che è il fidanzatino o la chat degli amici. 
Questo fa sì che parlare con i propri genitori sia difficilissimo. Dover dire che tutto è partito da un proprio gesto legato all'ambito della sessualità è arduo. E così anche questo aspetto entra a far parte dei percorsi tortuosi che la mente prende e da cui non riesce a liberarsi.

In altri casi, invece, non c'è nessuna complicità. Le immagini di cui il cyberbullo viene in possesso sono immagini dal contenuto violento (molto spesso si tratta di video). Ragazze ubriache riprese in situazioni di cui non hanno coscienza e che ritrovano poi nei social. Ragazzi sottomessi a farsi fotografare poiché già vittime di una violenza psicologica da cui non sanno sfuggire.

Nel leggere di queste esperienze sembra chiaro come la via di uscita debba sembrare preclusa, inesistente. 

Invece la chiave è proprio questa: condividere con la propria famiglia, con un adulto che accolga e che aiuti a cancellare tutto, a modificare la prospettiva. 
Mettere il primo piano la propria integrità e chiamare le cose con il loro nome: violenza di vigliacchi.

Dai racconti esce fuori il silenzio nel quale queste storie avvengono. 
Un incubo che corre e si dilata nel web e nella testa, ma che viene taciuto a chi potrebbe portarcene fuori: una zia, un fratello, il papà, la mamma, un'insegnante.

Le parole che mi vengono alle labbra ogni volta che un ragazzo si uccide per cyberbullismo sono "Se solo un adulto avesse potuto dire: vedrai che andrà meglio", le stesse della campagna americana nata dalla volontà di Dan Savage e Terry Miller: "it gets better".
Andrà meglio.
I mostri scompariranno alla luce del sole. 
I mostri scompariranno nell'abbraccio di chi ci ama.

Ma questo è un sogno pieno di malinconia. 
La verità è che a questo punto è raro arrivarci e tutto il dramma accade prima.

Cosa accade prima?

La quasi totalità scopre di essere diventata oggetto ai "attenzione" a cose fatte. Quando le immagini sono già di dominio pubblico. Perché il cyberbullismo non conosce pause, continua ad agire mentre i ragazzi dormono, mentre studiano. 
Si ritrovano a leggere commenti di cui sono oggetto anche a distanza di giorni . 
Un atto di coraggio sarebbe quello di uscire dai social. 
Andare via, togliersi da quel terreno su cui prolifera l'aggressione che rende esponenziale il disagio della vittima.
La legge però sta facendo davvero dei passi avanti. Innanzitutto perché più conosciamo il cyberbullismo più, come mondo adulto, possiamo dare risposte efficaci.
Ad esempio il testo approvato in Senato a inizio febbraio, mette a disposizione dei ragazzi un importante strumento: nonostante la minore età potranno chiedere al gestore del sito internet in cui subiscono aggressione, di oscurare le immagini che lo vedono protagonista. Se il gestore non ottempererà a questa richiesta sarà necessario il coinvolgimento dei genitori per rivolgersi al Garante della Privacy.
Intanto però il primo passo può essere fatto in autonomia e di questo vanno assolutamente informati i ragazzi.
Gli altri contenuti sono di contrasto, di informazione, di preparazione del personale scolastico, ma la possibilità dei ragazzi di fare richiesta diretta è forse la parte fondamentale, almeno nell'immediata situazione di chi si trova oppresso dagli avvenimenti.

La strada più lunga invece ci coinvolge tutti, soprattutto in quanto genitori.
Allargare il giro dei nostri interessi nei confronti dei nostri figli.
Non c'è solo la scuola (con il rendimento), non ci sono solo le performance sportive, dobbiamo pensare al nostro e al loro talento. 
Che non significa chiedere di eccellere in qualcosa che per noi costituisce la massima ispirazione, tutt'altro.
L'idea del talento è un'idea molto più esistenziale.
La teoria della Ghianda di James Hillman lo dice con estrema semplicità: se oggi sei una ghianda domani non potrai che diventare una quercia.
Il talento ci chiede di essere scoperto, ci chiede di comprendere qual è la nostra unicità, cos'è che ci portiamo in dotazione e che possiamo divenire. Se incontriamo il nostro talento e lo riconosciamo, diveniamo un tutt'uno con la nostra vita. 
Questo dovremmo condividere coi nostri figli, questa modalità di essere noi stessi.
Non belli e bravi o brutti e cattivi. Essere molto più complessi e reali.

Persone di questo tipo riescono a proteggersi molto più di chi cresce secondo schemi di perfezione o antagonismo.
Persone di questo tipo si guardano negli occhi e sanno trattare anche il tema più dolente con sincerità, davanti ai loro figli come davanti a loro stessi.
Perché qui sta il fulcro: ciò che facciamo ha delle conseguenze, sempre.

Carolina, Amanda, Tyler, Jamey, Joe, tutti voi, avrei voluto conoscervi per dirvi che le cose potevano andare meglio.
Perché questo è ciò che dobbiamo testimoniare ai nostri ragazzi: "it gets better".
Andrà meglio.
Però bisogna parlare, noi adulti dobbiamo essere i primi a farlo raccontando di noi stessi occhi negli occhi.


Oggi, 17 maggio 2017, la Camera ha approvato in via definitiva la legge sul cyberbullismo: 
la priorità era portare a casa la legge, in modo che il prossimo anno scolastico (2017/2018) partisse con degli strumenti in più di tutela per i ragazzi.
Una legge che finalmente colma il vuoto normativo e che mette in azione il ruolo fondamentale della prevenzione attraverso l'educazione ad un uso responsabile e consapevole dei nuovi media.
Le Legge richiede la ricognizione immediata delle docenti e dei docenti in ogni istituzione scolastica. 
Saranno infatti poi loro i referenti atti a coordinare le iniziative di prevenzione e contrasto del cyberbullismo, anche avvalendosi della collaborazione delle Forze di polizia nonché delle associazioni e dei centri di aggregazione giovanile presenti sul territorio.



Tyler Clementi,
dicembre 1991 - settembre 2010

Jamey Rodemeyer,
marzo 1997 - settembre 2011


Carolina Picchio,
1999 - gennaio 2013


Amanda Todd,
novembre 1996 - ottobre 2012



Joe Chearmonte,
febbraio 1993 - febbraio 2010

venerdì 17 febbraio 2017

Amore senile. Amore e basta. di Rebecca

Amore mio, ti amo

Ugo se ne sta in fila. In fondo, alla cassa, la lentezza frammista alle chiacchiere non lo agita. Non ha fretta. Nel carrello un etto e mezzo di prosciutto cotto, gli gnocchetti Rana, tre banane, un succo di frutta alla mela, uno ai frutti rossi, la mezza baguette e un piede di cappuccina. Pranzo e cena entrano in una busta minuscola. Il latte in casa c’è, anche il caffè. L’acqua del rubinetto va benissimo. Il vino solo raramente e col cotto non sta bene, un’altra volta.
Intanto nel pomeriggio Serena viene per le pulizie, c’è anche da stirare, chissà se può rimanere più a lungo.
- Buongiorno Ugo! L’hai preso il cotto Ferrarini che è in offerta?
- Buongiorno, sì, grazie. Ne ho preso poco… casomai domani lo riprendo.
- Sì, tanto l’offerta dura fino a martedì prossimo.
- Grazie, grazie.
Due parole e il conto di Ugo è fatto.
- Sono 8 euro e 49.
E anche Ugo coltiva la lentezza, conta i suoi spicci; lì al supermercato non ricordano di averlo mai visto con banconote più grandi di quelle da 10 euro.
Con la sua bustina di plastica si allontana.
Un cenno di saluto alla ragazza nigeriana che aspetta una mancia o una scatola di fagioli. Ugo le ha dato qualcosa solo raramente, ma ricorda che quelle rare volte si è trattato di confezioni di biscotti, i tarallucci o le macine del Mulino Bianco, sempre quando ci sono le offerte.
Ora è sul marciapiede, che cammina pian piano verso casa, neanche 500 metri di distanza.
Ripensa a quando andavano a fare la spesa al mercato in piazza. Lui andava raramente, capitava soprattutto i giorni di preparativi per il Natale e per il Capodanno. Quel ricordo ora gli fa sentire un leggero pizzico nel petto, un brivido del cuore.
Arrivato al cancello del palazzetto si ferma a riprendere fiato da quella malinconia, poi prende il portachiavi dalla tasca della giacca, apre e inizia a salire, terzo piano senza ascensore. Al momento dell’acquisto non avevano neanche pensato potesse essere un problema e invece eccolo, ogni mezza rampa fermo a riprendere fiato.
Finalmente il terzo piano arriva. Il portachiavi incastrato fra le dita e la busta. Si guarda un attimo l’indice e il medio segnati dal peso portato, la fede che oramai non può più togliere perché le ossa si sono ingrossate con i reumatismi. Il portachiavi passa nella mano destra, ciondola consumata una piccola gondola del viaggio a Venezia, e, con la chiave lunga, Ugo apre la porta; appena l’uscio si apre l’odore di casa subito lo riscalda, che sia estate o inverno, lo accoglie sempre come un abbraccio leggero.
D’estate fanno da padrona cipolle fresche e tonno in scatola dall’olio sgocciolato al centro dello scolo del lavabo, pomodori e basilico, pasta dal sughetto di san marzano e profumo di aglio.
L’inverno è dei cavoli, cime di rapa per la pasta, verza con le salsicce per le reminiscenze del’esperienza tedesca, e poi ragù cotti nella lentezza delle domenica mattina, uova in ogni forma.
E l’odore del caffè.
L’aroma del caffè è forse l’unico che non desta la malinconia in Ugo ma, ancora e sempre, l’entusiasmo, l’attimo di brio che reca energia al solo pensiero.
Entra in casa Ugo, la sportina di plastica sul tavolo in formica.
Subito il prosciutto, l’insalata e gli gnocchetti nel frigorifero. Il frigo non è pulitissimo, ma ordinato e luminoso. Le banane le mette nel contenitore sul davanzale, i succhi di frutta nella credenzina e la baguette nel portapane vicino alla radio.
Si sono fatte le dodici, ma non ha fame.
Seduto sul divano in velluto della sala, Ugo si abbandona con la testa allo schienale. Con gli occhi chiusi lascia scivolare la mano lungo il cuscino a fianco. La mano di Clara lo accoglie, un po’ fredde le dita, ma accogliente il palmo. Ad occhi chiusi tutto vortica e si condensa nel presente: il giorno del Sì, la notte in attesa che nel Ghetto il silenzio tornasse, il viaggio a Venezia, il borbottìo delle bottiglie di conserva nei bidoni sull’aia.
La vertigine di ricordi si chiude con gli occhi di Clara serrati nel buio. A quella memoria Ugo reagisce di scatto e ritrae la mano. Al suo fianco solo lo spazio gigante del divano. Il velluto verde, segnato dagli anni, conserva con lui la memoria tangibile della storia che fu.

C’è silenzio in casa. Clara non tornerà. Eppure, fra le dita di Ugo, la fede, datata 15 febbraio 1966, segna l’eternità del loro incontro.

di Rebecca




mercoledì 15 febbraio 2017

Shaima Al-Sabbagh e la Marcia dei Fiori. Rebecca

Ma che Primavera è
una primavera che accende i ceri del mese dei morti?


Shaima Al-Sabbagh
uccisa a Il Cairo.
Era in strada per ricordare.
                                                       Rebecca 


Shaima Al-Sabbagh è nata nel 1984 ad Alessandria d'Egitto.
È stata uccisa nella città de Il Cairo, il 24 gennaio 2015.
Shaima è stata uccisa mentre era in strada con il marito a portare la sua voce e il suo cuore per i morti di piazza Tahrir, in quella piazza e in quei giorni (2011) circa 900 le persone uccise.
Il quarto anniversario della Primavera Araba.
La manifestazione cui partecipava Shaima era stata chiamata "la marcia dei fiori", fiori da portare in piazza, per chi è stato assassinato.

Ieri, 14 febbraio 2017, la Corte di Cassazione egiziana, ha annullato la condanna dell'ufficiale Yassin Hatem Salah Eddin accusato di aver ucciso Shaima al Sabbagh.
Il processo è da rifare.
Tutti i militari che hanno partecipato alle azioni omicide del 2011 stanno avendo la stessa "fortunata" sorte.
Perché i regimi prosciolgono gli strumenti delle loro fauci.

Impossibile raccontare la morte, quale che sia.
Ma Shaima lo urla in faccia.
Ci urla che morire ammazzati fa schifo.




Manifestazione in omaggio a Shaima

Shaima Al-Sabbagh






sabato 11 febbraio 2017

Suicidi di Precarietà.

Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità.

Il suicidio è evento spiazzante per una cultura che interpreta la sacralità della vita come assenza di arbitrio, l'assenza di libertà di scegliere la morte come degna e onorevole. 
Eppure con la morte volontaria (la mors voluntaria) non si offendono gli Dèi, semmai è la mancanza che consegue al lutto che offende chi ci ama, chi viene lasciato solo
L'Occidente inizia a punire il suicidio nell'Alto Medioevo, verranno negate ai suicidi dapprima le esequie e poi la sepoltura in terra consacrata (al pari sarà scomunicato chi tenterà il suicidio ma non morirà).
Oggi facciamo fatica a riconoscere onore al suicida; abbiamo dei dettami che vogliano si attribuisca, in base all'età di chi si toglie la vita, un sentimento sociale corrispondente. Senza entrare nel merito di queste corrispondenze che vanno dallo sgomento, alla rabbia, dall'ostilità, alla pena, di certo dovremmo domandarci il senso che diamo, e che la società (intesa come cultura, intesa come assetto morale, intesa come assetto economico) dà, alla vita e alla morte.
Di fatto la lettera che ha lasciato Michele Valentini, il suo j'accuse, tutto chiede fuorché pietà.
Ci chiede uno sforzo enorme, lo sforzo di scrostare la patina sotto la quale viviamo.

La patina che ci fa spesso silenziosi. ossequiosi e ciò che striscia sotto è invece il vero motore delle dinamiche relazionali. 
La lettura del testamento esistenziale di questo giovane uomo tocca corde tesissime che potrebbero essere un vero e proprio punto di partenza per chiedersi "a che punto siamo?", dove abbiamo ficcato il senso della nostra vita?
Michele ha scelto di finirla lì, nel suo spazio unico e insindacabile.
Dobbiamo prendere coscienza di ciò che ci dice perché ci riguarda, quale che sia la nostra posizione in questa società.
Michele Valentini, morto suicida a trent'anni, il 31 gennaio 2017.
Rebecca

Per suicidarsi bisogna amarsi molto.
Albert Camus


Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.

Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.

Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia. Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.

A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo. Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.

Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione. Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.

Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno. Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie.

Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, il modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri. Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.

Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene. Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento.

P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.

Ho resistito finché ho potuto.




lunedì 6 febbraio 2017

Mutilazioni Genitali, Mutilazioni dell'anima. Rebecca di Santo

Dal pianerottolo arrivano rumori. Il passaggio di chi sale, a piedi o con l’ascensore.
Anele non è mai salita oltre i gradini d’ingresso del palazzo. In realtà Anele non è mai uscita di casa da quando vi è stata condotta. Sa di essere a Milano, e cerca nelle immagini del suo smartphone il significato di quel mondo che la circonda e di cui lei sente solo vaghi suoni.
Vive con tre uomini, due sono i suoi fratelli e l’altro è il marito.
Stanno con lei la mattina, qualche volta a pranzo, e la sera.  La sera non la lasciano da sola, è d’uso che solo uno dei maschi esca.
Non le parlano praticamente mai, l’unico che le si rivolge direttamente è il marito, Ohini.
Anele e Ohini hanno la stessa età, 23 anni.
Sono stati fatti fidanzare oramai da 10 anni. La famiglia di Ohini ha voluto essere presente alla defibulazione di Anele. Aveva 13 anni.
Anele non ricorderebbe mai quei momenti se non fosse che ogni volta che fanno l’amore il dolore il suo corpo diviene un’arma potente nelle mani del dolore.
La stanza era calda, umida, fra sudore e acqua messa a bollire in vari punti, vicino ai tappetini a terra. Anele aveva 9 anni ed aveva avuto il menarca. Foglie di banano fra le gambe l’avevano tenuta pulita. Appena finito il ciclo le donne della famiglia l’avevano portata a lavare al fiume. Un lungo bagno. Due giorni di riposo, poi l’avevano condotta nella casa della vecchia. Anele ne aveva sempre sentito parlare, senza mai comprendere appieno cosa quella vecchia facesse. Da quella casa stavano lontani tutti, uomini e donne, bambine e ragazzi. Mentre Anele si avvicinava, sentiva alle narici l’odore schifoso dell’urina e delle feci. Nelle orecchie grida soffocate, trattenute con strazio, anche piangere era un disonore.
Quando la porta di quelle quattro mura si aprì, il peggio di quanto potesse mai aver fantasticato le si parò dinanzi agli occhi. Le mura erano sudice, il pavimento di terriccio era coperto da tappeti e stoffe intrise di puzzo e liquidi di ogni natura, qua e là lampade ad olio illuminavano ciò che non si doveva vedere.
Anele iniziò a respirare forte, un affanno che presto si tramutò in desiderio di fuga. Ma le braccia delle donne della sua famiglia erano già pronte, mentre la trattenevano come animale al macello, cantilenavano e fissavano punti fissi verso il centro della stanza.
Anele venne stesa a terra a forza. A forza le fu messo nella bocca un pezzo di stoffa che sapeva di saliva. Le mani di sua madre erano quelle più tenaci, quelle che più delle altre sentiva metterci l’anima pur di non farla andar via di lì.
La donna anziana si sollevò da una bambina svenuta poco distante da Anele, si levò, come un mostro avrebbe potuto fare, dal corpo esangue dell’ennesima vittima sacrificale. Un guizzo di follia nello sguardo e un coltello dalla lama corta nella mano. Avvicinò la lama alla fiamma della lampada e ripeté più volte gli stessi gesti: passava la lama dalla fiamma alla stoffa logora su cui la ripuliva, una, due, dieci volte.
Anele era ipnotizzata da quei gesti e dalle luci. Sentiva la sua coscienza vagare in qualche punto della testa, ma non riusciva ad avere possesso di sé. Quelle mani, che la placcavano a terra, avevano evidentemente conquistato ampi spazi della sua anima.  Fu così che vide la vecchia posare il coltello su un piccolo leggìo di legno. Vi erano messi in ordine coltelli e lamette.
Avrebbe potuto sentire nella carne il diverso modo di tagliare di ognuno: le lamette, precise e rapide, le portarono via il clitoride; un colpo secco che le procurò un vuoto fra cervello e gola, un vuoto tale che non le permise di urlare e di cui, purtroppo, non morì né svenne. Altre lame lacerarono le piccole labbra, tagli piccoli e lentissimi. Durante uno di questi l’urlo finalmente bucò la stoffa madida che le riempiva la bocca.
Anele fu certa che lo avessero sentito ovunque, in cielo e in terra.
Ma così non era. Chi, nelle immediate vicinanze, lo aveva sentito riteneva che più alto fosse stato il grido più giusto il dolore.
La purezza è una conquista che deve passare attraverso una fessura strettissima.
Anele cancella e ricancella questi ricordi. Cancella gli impacchi per lenire il bruciore matto. Ricancella il dolore della pipì trattenuta pur di non urlare mentre, al passaggio, fa ardere la carne ancora nuda. Ad ogni nuovo ciclo, l’infezione si rinnova e le foglie di banano si trasformano in piante dalle mille spine.

Sono passati anni. Anele è passata per la pratica della defibulazione quando, sicuri che Ohini l’avrebbe sposata, hanno allargato il suo orifizio, in presenza delle donne di entrambe le famiglie.

Anele quando girovaga col suo smartphone rimane incredula di fronte alle foto delle ragazze che ammiccano agli uomini, riconosce in quella complicità un possibile piacere condiviso che lei mai e poi mai ha provato.
Ogni volta che Ohini la possiede spera che passi presto e stringe i denti fino a mordersi le labbra per coprire il dolore fra le gambe col dolore nella bocca.

Anele quando sente il rumore sul pianerottolo non sa cosa immaginare, sente però, a volte, le voci di ragazze e ragazzi che chiacchierano allegri, le chiacchiere fra uomini e donna adulti che assumono toni a lei sconosciuti. E non capisce le loro parole proprio come non ha mai capito il perché della violenza subita, ma vi ravvede un piacere sottile, un giocare emozionato, che mai ha provato.

di Rebecca di Santo



Oggi, sei febbraio, si celebra la Giornata Mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili. 3 milioni l’anno le bambine a rischio.
In Italia tali pratiche – che siano l’escissione della clitoride, l’infibulazione o qualsiasi genere di mutilazione – sono perseguibili per Legge, ma contattare le donne che vivono da noi (o in ogni caso in paesi fuori da quelli di provenienza) è paradossalmente più difficile che avvicinare e sensibilizzare coloro che vivono nei paesi d’origine. Chi vive altrove, vive in una situazione di isolamento. Per gli operatori queste donne sono irraggiungibili. Non è permesso loro di sviluppare un tessuto sociale, spesso non possono proprio mettere il naso fuori di casa.

Ci sono degli obiettivi internazionali che hanno come prospettiva quella del 2030, anno in cui si auspica le mutilazioni siano classificate in ogni Paese come illegali e, pertanto, chi le pratica, chi ne è complice, chi le propaganda, sia perseguibile per legge.







mercoledì 1 febbraio 2017

Carolina Picchio, morire di CyberBullismo.

Nelle parole che seguono l'appello di Paolo Picchio.
Dobbiamo essere tutti testimoni e portatori di anticorpi per una società migliore. Rebecca


Sono il papà di Carolina, quella ragazzina meravigliosa che manca a me e al mondo da una notte di gennaio del 2013. 
Mia figlia aveva 14 anni, si è uccisa perché dei giovanotti poco più grandi di lei, dopo averla molestata sessualmente e aver filmato ogni scena, hanno messo tutto su Internet. 
Me la ricordo bene la notte in cui tornò da quella festa, andai a prenderla io stesso e la mattina dopo mi disse: papà non ricordo niente di quello che ho fatto ieri sera.
Non sapeva nulla, povera stella. 
L’ha saputo giorni dopo, quando ha trovato il coraggio di buttarsi dal balcone dopo aver letto i 2.600 like, insulti e volgarità vomitati dal mondo anonimo della rete. 
Ma parliamo dei responsabili. Le hanno fatto perdere coscienza e si sono divertiti un po’. Chissà, a loro sarà sembrato normale... 
Ancora oggi, dopo le loro ammissioni, mi chiedo: hanno capito davvero il disvalore di quello che hanno fatto? 
La consapevolezza dichiarata non sempre corrisponde a quella vissuta ed è per questo che insisto ormai da mesi: devono dimostrare fino in fondo che sono pentiti, come hanno detto in tribunale.
Hanno ottenuto la messa alla prova invece del procedimento penale? 
Bene. Se hanno elaborato le loro colpe sarà un bene condividerle con gli adolescenti nelle scuole. Questo sarà il loro percorso alternativo al carcere, quando li sentirò parlare sinceramente del male che hanno fatto saprò che hanno capito davvero. 
Se hai perduto tua figlia in modo così tragico hai bisogno di un motivo per alzarti ogni mattina. 
Io ho passato tre mesi senza avere nemmeno la voglia di aprire gli occhi. Poi mi sono detto che Carolina non poteva essere una riga in cronaca che si legge e si dimentica. 
Così oggi vivo per le Caroline che non conosco e che purtroppo, lo so, sono da qualche parte nella rete anche adesso mentre scrivo.
Vivo per creare anticorpi, per una società migliore. 
Per esempio attraverso la proposta di legge per la prevenzione e il contrasto al cyberbullismo che ha firmato per prima l’ex insegnante di musica di Carolina, la senatrice Elena Ferrara. Il nostro disegno di legge riguarda soltanto i minori e abbiamo avuto la disponibilità di Twitter, Facebook, Google, dei garanti e di tanti altri per agevolare la rimozione dei contenuti che danneggiano, appunto, i minorenni. Ma qualcuno vuole modificare il nostro testo originario ed estendere la legge ai maggiorenni, e temo che la disponibilità dei social e degli altri in questo caso andrà a ramengo. Abbiamo previsto anche un protocollo per trattare casi di cyberbullismo e un centro di prevenzione, ideato dal professor Luca Bernardo, che coinvolga le scuole: è già tutto pronto ma non decolla nulla perché mancano fondi. 
E allora io chiedo a chi può aiutarmi una cosa molto semplice: 
ascoltate il cuore e valutate l’impegno di un padre che agisce nel nome di una figlia che non c’è più.
Lo faccio per la mia Carolina, perché quello che è successo almeno serva a qualcosa in futuro. 
Non c’è giorno che io non pensi a lei e di notte la sogno quasi sempre. 
La rivedo anche adesso, qui, accanto a me. 
Ogni tanto sfoglio le sue fotografie, guardo un video che le feci durante un allenamento sportivo, la vedo sorridere. 
La immagino davanti all’altro video, quello mortale, e penso a lei che scrive la lettera d’addio. 
Se n’è andata ma c’è più di sempre. 
È lei che mi fa alzare ogni mattina.
Paolo Picchio,
settembre 2016

Proprio oggi, primo febbraio 2017, il Senato ha approvato con 224 sì, un no e 6 astensioni, il disegno di legge per il contrasto al cyberbullismo.
Il testo è quello proposto dalla senatrice Elena Ferrara, insegnante di musica di Carolina Picchio, la stessa di cui parla il padre nel suo appello. 

Per cyberbullismo il testo di legge intende atti quali "pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d'identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali, in danno di minorenni, realizzate per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo.

Il disegno di legge intende creare misure di prevenzione ed educazione sia per le vittima che per i bulli. Le vittime (o perché no, anche i carnefici) possono chiedere anche senza l'avvallo del genitori, al gestore del sito internet, l'oscuramento di quella che è la cyber aggressione. Se il gestore del sito ignora la richiesta il minore dovrà coinvolgere i genitori e rivolgersi al Garante della Privacy. 

Ogni singola scuola dovrà formare il personale scolastico e indicare uno fra i professori come riferimento per contrastare e prevenire le aggressioni, il professore potrà chiedere l'aiuto delle forze di polizia. Viene promosso anche il ruolo attivo degli studenti.

Rebecca



di Jesse Lenz (?)