martedì 27 dicembre 2016

"Nora" di Rebecca di Santo

Nora è seduta sulla poltroncina beige in mezzo al salone, vicina alla porta a vetri dello spazio riservato ai fumatori. 
Le piace stare lì e fare un cenno di saluto a chi entra ed esce perché così, dice, le sembra di stare al corso, seduta al sole con il cappello di paglia e il rossetto rosa.
- Sedano, sedano, sedano. Il cuore verde e senza fili. Sedano che scrocchia, sedano solo qualche volta.
Il professor Ferraresi ha impiegato del tempo prima di unire tutte le parole e i luoghi che la memoria di Nora ricompone ogni giorno. Era stato facile riconoscere le ripetizioni infinite dei suoi piccoli rituali, ma individuarne il filo conduttore non lo era stato altrettanto.
Dal momento in cui Nora apre gli occhi, fino alla sera, quando si addormenta, è tutto un muoversi in un reticolato di sogni e vincoli. Il padre è il maestro dell’orchestra che non permette mai a Nora di andare col suo passo. Lui sa dirigere, lui conosce tutti gli elementi e sa come si reagisce anche agli imprevisti.
Per Nora nessun imprevisto.
Siede sulla poltroncina, il camicione color conchiglia, il fard leggero sugli zigomi e il lucidalabbra alla fragola che mette e rimette.
- Sedano e gassosa in vetro. Sedano verde. Il cuore del sedano. E gassosa.
Nora è in clinica da molti anni. È entrata poco dopo aver compiuto 18 anni. 
Era un filo di carne e di voce. Le ossa più evidenti erano quelle del volto e quelle delle spalle. Gli occhi erano sembrati più grandi e spauriti di quanto in realtà fossero, incavati nello scheletro.
Tutta la sua vita precedente era stata vissuta nella parte alta di una bella cittadina toscana. La parte in abbandono in cui solo i turisti arrivavano a passeggio. Nora li guardava da dietro la frangia castana, sempre lunga e storta. 
I primi occhi che aveva guardato con sguardo diretto erano stati quelli di Lucia, l’unica degente della clinica con cui riusciva ad entrare in contatto quando il mix di farmaci, la allontanava dalla sua prigione dall’aria viziata.
Anche Lucia era molto giovane, tondetta e sempre allegra.
Se la mente di Nora poteva essere rappresentata come un cupo labirinto, quella di Lucia era un vasto prato luminoso, con alberi da frutto e orridi tutt’intorno.
Lucia era stata per Nora il contatto con il sole, di lei non aveva paura.
Ferraresi non ha mai compreso se il giorno in cui Lucia si tolse la vita gettandosi dalla torre campanaria, Nora abbia capito cosa fosse accaduto, vero è che il suo corpo riverso e sfranto le fu davanti agli occhi per qualche minuto, ma nessuna reazione e, soprattutto, nessuna variazione sui suoi tempi paranoici, permise di registrare l’evento come evento assimilato .
Per Nora gli accadimenti hanno avuto consistenza solo fino alla prima adolescenza, da lì in poi una nebbia lattiginosa li ha coperti.
- Sedano.
Una vita lunga protetta dalla corruzione del tempo, ma totalmente priva di slancio.
Il refrain felice e sciocco di un dolore radicato e reso tenebra, così fitto il buio da non poter andare più a guardare.

Un giorno la polizia venne chiamata dai compaesani preoccupati per la scomparsa della ragazza. Tutti conoscevano bene il padre, l’uomo da sempre in lutto, rimasto vedovo quando sua moglie era morta di parto.
Al momento in cui bussarono all'uscio quell’uomo era morto già da qualche settimana.
Nessuno venne ad aprire.
Dopo aver sfondato la porta trovarono Nora al piano superiore della piccola casa. Era seduta alla finestra, coperta da un grande scialle di lana color amaranto. Ai piedi degli scarponi da montagna.
Non si era voltata neanche per il frastuono, l’invasione del suo silenzio non l’aveva minimamente interessata.
I poliziotti avevano chiamato la clinica ed erano arrivate due infermiere.
Le avevano parlato, l’avevano carezzata, poi l’avevano esortata ad alzarsi, a prendere dei vestiti da portare con lei.
Ma Nora non le aveva sentite, era così lontana che dovettero alzarla e trascinarla, non perché opponesse resistenza ma perché era totalmente passiva.
Il professor Ferraresi la incontrò solo il giorno dopo, quando era stata lavata e nutrita con le flebo. Oltre l’aroma del bagnoschiuma e dello shampoo, era possibile intravedere la giovanissima ragazza che era. Il suo corpo aveva reagito subito al cibo chimico, al calore della notte passata in un letto pulito.
Negli anni, questi erano stati gli unici risultati: un corpo in buona forma, il ritmo sonno veglia sempre preciso, ma Nora non era mai atterrata.
Le evidenze del suo comportamento conducevano tutte al rapporto con il padre.
La gassosa che beveva da bambina ai bordi del campo di bocce in cui lui giocava.
Il sedano del pinzimonio, che sembrava il cibo degli Dei nelle loro serate estive, con la finestra aperta e il silenzio come condimento.
Ma questo e nient’altro era stato possibile ricostruire.
Davvero pochi i momenti in cui la loro piccola e lugubre famiglia aveva vissuto in pubblico.
Il medico di famiglia aveva visto per l’ultima volta Nora, attorno al suo dodicesimo anno, quando aveva avuto il menarca, dopodiché più nulla.
Ora il corpo di Nora era vivo, sano. In lei tutto funzionava, ma la sua mente era stata corrotta a tal punto da divenire impermeabile alla vita.

La piccola Nora, ora donna di cinquant’anni, viveva nell’eterno presente di una giornata ideale, senza dolore, senza coscienza.

Rebecca


venerdì 9 dicembre 2016

"Antonio e Cleofe" di Rebecca di Santo

- Ho freddo.
- uhm…
- Antonio, ho freddo. Non riesco a dormire.
Antonio si avvicina e sente che il corpo di  Cleofe è infagottato da mille strati. Sua moglie, così gracile, quando gli si affianca nel letto gli rimanda sempre alla memoria un cucciolo di balena: piccola ma densa di lana e pigiami e coperte.
Cleofe ha da sempre temuto la notte. Era piccina e già il buio le rendeva l’anima pesante.
Ora è grande, anzi è vecchia, ha imparato a tuffarsi ad occhi aperti nell’oscurità, ma le accade comunque di trovarsi smarrita quando il sonno non la accoglie.
Antonio, nel tempo, si è fatto trovare pronto. Non quando c’erano i giorni della tensione, non nei periodi di rabbia.
Ma è sempre stato pronto quando le fragilità delle loro vite si incontravano, o quando l’una trovava porto certo nelle braccia degli altri.
- Eccomi. Ti ricordi però qual è il segreto? 
Cleofe conosce il segreto. Il segreto che tante notti ha sollecitato lei stessa. Il segreto che tante notti ha condiviso a fatica. Il segreto che ora, in vecchiaia, si è trasformato in fuoco tenue, che brucia lentamente.
Il segreto è che quando si ha freddo, molto freddo, bisogna raggiungere l’anima per tornare a sentire il caldo e, per farlo, bisogna essere nudi. L’anima si affaccia più volentieri se un corpo tocca un altro corpo. 
- Non lo ricordo… ma sono convinta che fra poco lo ricorderò. Me lo ricorderai, vero?
Memoria e calore si confondono.
Lui le leccava le dita dei piedi. Questo Cleofe lo rammenta spesso. È avvenuto forse due o forse dieci volte, ma ciò che nella mente di Cleofe è chiaro è come lei si fosse sentita una regina in quei momenti.
Antonio ricorda il pudore tenero di quando facevano all’amore davanti al caminetto. Avevano impiegato un po’ di tempo per comprendersi. La vergogna non è una buona amica dell’intimità sessuale. Ma sono cresciuti insieme, hanno trasformato il silenzio in complicità. Così fare all’amore sul divano era stata una conquista, un’affermazione di amore e libertà. Un re e una regina nudi nel loro regno.
Le mani di Antonio liberano dagli strati il corpo di Cleofe. Strati di stoffa, strati di storia. Ogni velo che cade fa aumentate il calore che sotto le coperte si irradia dall’uno all’altro. Cleofe si volta, allaccia i piedi alle gambe di Antonio e gli carezza il volto. Anche al buio riconosce le rughe, la barba, le grandi orecchie così ben attaccate alla forma della testa. Antonio ritrova sotto le carezze i fianchi ossuti di sua moglie e il fondo della schiena che, sempre, lo ha eccitato. Insieme hanno imparato ad amarsi senza peccare.
Mani nelle mani, sesso nel sesso, occhi negli occhi.
Cleofe gli carezza l’inguine, sente ancora e sempre la risposta di Antonio, il suo brivido che le rimanda un senso di grandezza simile al cielo e al vento.
Fanno l’amore così, gesto dopo gesto. Senza l’impeto confuso dei primi anni e delle prime conquiste. Fanno l’amore scaldandosi dal gelo della notte. Trovandosi nell’oscurità muta per zittire la morte.


Rebecca


domenica 4 dicembre 2016

Che Guevara. L'Avana, anno dell'Agricoltura. 31 marzo 1965

Fidel,
in questa ora mi ricordo di molte cose, di quando ti ho conosciuto in casa di Maria Antonia, di quando mi hai proposto di venire, di tutta la tensione dei preparativi.
Un giorno passarono a domandare chi si doveva avvisare in caso di morte, e la possibilità reale del fatto ci colpì tutti. Poi sapemmo che era proprio così, che in una rivoluzione, se è vera, si vince o si muore, e molti compagni sono rimasti lungo il cammino verso la vittoria.
Oggi tutto ha un tono meno drammatico, perché siamo più maturi, ma il fatto si ripete. Sento che ho compiuto la parte del mio dovere che mi legava alla rivoluzione cubana nel suo territorio e mi congedo da te, dai compagni, dal tuo popolo, che ormai è il mio.
Faccio formale rinuncia ai miei incarichi nella direzione del partito, al mio posto di ministro, al mio grado di comandante, alla mia condizione di cubano. Niente di giuridico mi lega a Cuba; solo rapporti di altro tipo che non si possono spezzare come le nomine. Se faccio un bilancio della mia vita, credo di poter dire che ho lavorato con sufficiente rettitudine e abnegazione a consolidare la vittoria della rivoluzione.
Il mio unico errore di una certa gravità è stato quello di non aver avuto fiducia in te fin dai primi momenti della Sierra Maestra e di non aver compreso con sufficiente rapidità le tue qualità di dirigente e di rivoluzionario.
Ho vissuto giorni magnifici e al tuo fianco ho sentito l’orgoglio di appartenere al nostro popolo nei giorni luminosi e tristi della crisi dei Caraibi.
Poche volte uno statista ha brillato di una luce più alta che in quei giorni; mi inorgoglisce anche il pensiero di averti seguito senza esitazioni, identificandomi con la tua maniera di pensare e di vedere e di valutare i pericoli e i princìpi.
Altre sierras nel mondo reclamano il contributo delle mie modeste forze. io posso fare quello che a te è negato per le responsabilità che hai alla testa di Cuba, ed è arrivata l’ora di separarci.
Lo faccio con un misto di allegria e di dolore; lascio qui gli esseri che amo, e lascio un popolo che mi ha accettato come figlio; tutto ciò rinascerà nel mio spirito; sui nuovi campi di battaglia porterò la fede che mi hai inculcato, lo spirito rivoluzionario del mio popolo, la sensazione di compiere il più sacro dei doveri: lottare contro l’imperialismo dovunque esso sia; questo riconforta e guarisce in abbondanza di qualunque lacerazione.
Ripeto ancora una volta che libero Cuba da qualsiasi responsabilità tranne da quella che emanerà dal suo esempio; se l’ora definitiva arriverà per me sotto un altro cielo, il mio ultimo pensiero sarà per questo popolo e in modo speciale per te; ti ringrazio per i tuoi insegnamenti e per il tuo esempio a cui cercherò di essere fedele fino alle ultime conseguenze delle mie azioni; mi sono sempre identificato con la politica estera della nostra rivoluzione e continuo a farlo; dovunque andrò sentirò la responsabilità di essere un rivoluzionario cubano e come tale agirò; non lascio a mia moglie e ai miei figli niente di materiale, ma questo non è per me ragione di pena: mi rallegro che sia così; non chiedo niente per loro perché lo stato gli darà il necessario per vivere e per educarsi.
Avrei molte cose da dire a te e al nostro popolo, ma sento che le parole non sono necessarie e che non possono esprimere quello che io vorrei dire; non vale la pena di consumare altri fogli.
Fino alla vittoria sempre. Patria o Morte!
Ti abbraccio con grande fervore rivoluzionario

Che
L'Avana, anno dell'Agricoltura.
31 marzo 1965


























Non sono Cristo né un filantropo, io sono tutto il contrario di un Cristo; 
io combatto per le cose in cui credo con tutte le armi a mia disposizione e cerco di lasciare morto l'altro, 
invece di lasciarmi mettere in croce o in qualsiasi altro luogo.
Ernesto Guevara, El Che, 
Rosario (Argentina) 14 giugno 1928 - La Higuera (Bolivia) 9 ottobre 1967