giovedì 13 settembre 2018

'La notte prima delle foreste’ di Bernard-Marie Koltès

'La notte prima delle foreste’ di Bernard-Marie Koltès

Bisognerebbe stare dall’altra parte senza nessuno intorno, amico mio quando mi viene di dirti quello che ti devo dire, stare bene tipo sdraiati sull’erba, una cosa così che uno non si deve più muovere con l’ombra degli alberi.
Allora ti direi: ‘qua ci sto bene, qua è casa mia, mi sdraio e ti saluto’.
Ma qua, amico mio, è impossibile, mai visto un posto dove ti lasciano in pace e ti salutano.
Ti dobbiamo mandare via, ti dicono, vai là, tu vai là vai laggiù, leva il culo da là e tu ti fai la valigia, il lavoro sta da un’altra parte, sempre da un’altra parte che te lo devi andare a cercare, non c’è il tempo per sdraiarsi e per lasciarsi andare, non c’è il tempo per spiegarsi e dirsi ‘ti saluto’.
A calci in culo ti manderebbero via, il lavoro sta là, sempre più lontano, fino in Nicaragua.
Se vuoi lavorare, ti devi spostare, mai che puoi dire ‘questa è casa mia e ti saluto’,
tanto che io quando lascio un posto ho sempre l’impressione che quello sarà casa mia, sempre di più di quello in cui vado a stare.
Quando ti prendono a calci in culo di nuovo, tu te ne vai di nuovo là dove te ne vai sei sempre più straniero, sempre meno a casa tua.
E quando ti prendono a calci in culo, tu te ne vai di nuovo quando ti giri a guardarti indietro, amico, è sempre il deserto.
Fermiamoci una buona volta e diciamo ‘Andate a fanculo’ io non mi sposto più, voi mi dovete stare a sentire se ci sdraiamo una buona volta sull’erba e ci prendiamo tutto il tempo che tu racconti la tua storia, quelli venuti dal Nicaragua
che ci diciamo che siamo tutti, più o meno stranieri ma che adesso basta, stiamo a sentire, tranquilli, tutto quello che ci dobbiamo dire allora sì che capisci che a loro non gliene frega un cazzo di noi.
Io mi sono fermato, ho ascoltato, mi sono detto: ‘Io non lavoro più’ finché non ve ne frega un cazzo di me.
A che serve che quello del Nicaragua viene fino qua e che io vado a finire laggiù se da tutte le parti la stessa storia.
Quando ho lavorato ancora, ho parlato a tutti quelli presi a calci in culo che sbarcano qua per trovare lavoro e loro mi sono stati a sentire.
Io sono stato a sentire quelli del Nicaragua che mi hanno spiegato com’è da loro.
Laggiù c’è un vecchio generale, che sta tutto il giorno e tutta la notte al bordo di una foresta gli portano da mangiare perché non si deve spostare che spara su tutto quello che si muove gli portano le munizioni quando non ce ne ha più.
Mi parlavano di un generale coi suoi soldati che circondano la foresta tutto quello che si muove diventa un bersaglio tutto quello che compare al bordo della foresta tutto quello che notano che non c’ha lo stesso colore degli alberi e che non si muove allo stesso modo.
Io sono stato a sentire tutto questo e mi sono detto che da tutte le parti è la stessa cosa più mi faccio prendere a calci in culo e più sarò straniero loro finiscono qua e io finirò laggiù, laggiù dove tutto quello che si muove sta nascosto nelle montagne.
Io ho ascoltato tutto questo e mi sono detto: “Io non mi muovo più, se non c’è lavoro non lavoro se il lavoro mi deve far diventare matto e mi devono prendere a calci in culo, io non lavoro più.
Io voglio sdraiarmi, una buona volta, voglio spiegarmi, voglio l’erba, l’ombra degli alberi, voglio urlare, voglio poter urlare, anche se poi mi sparano addosso.
Tanto è quello che fanno. Se non sei d’accordo, se apri la bocca, ti devi nascondere in fondo alla foresta.
Ma allora meglio così, almeno ti avrò detto quello che ti devo dire.
‘La notte prima delle foreste’
atto unico di Bernard-Marie Koltès, 1977

Testo in francese: 

La nuit juste avant les forêts





mercoledì 25 aprile 2018

Perché saliamo su una barca. di Awas Ahmed

A chi chiede: 
“Non era meglio rimanere a casa piuttosto che morire in mare?”, 
rispondo: 
“Non siamo stupidi, né pazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu che sceglieresti? O meglio cosa sceglieresti per i tuoi figli?”

di Abdalla Al Omari (Damasco, 1986)


Due giovani ieri sono stati uccisi a Mogadiscio perché si stavano baciando sotto un albero. Avevano 20 anni. Non festeggeranno altri compleanni. Non si baceranno più.

A chi domanda: 
“Cosa speravate di trovare in Europa? Non c’è lavoro per noi figurarsi per gli altri”, 
rispondo: 
“Cerchiamo salvezza, futuro, cerchiamo di sopravvivere. Non abbiamo colpe se siamo nati dalla parte sbagliata e soprattutto voi non avete alcun merito di essere nati dalla parte giusta”.

Mio cognato scappava con me.  Prima del mare c’è il deserto che ne ammazza tanti quanti il mare. Ma quei cadaveri non commuovono perché non si vedono in Tv. Perché non c’è un giornalista che chiede ripetutamente quante donne e bambini sono morti, quante erano incinte.

di Abdalla Al Omari (Damasco, 1986)


Perché qui in occidente a volte sembra che l’orrore non basti, c’è bisogno di pathos. 
Mio cognato è morto nel deserto. Per la fame. 
Dopo 24 giorni in cui nessuno ci ha dato da mangiare. 
A casa c’è una moglie che non si rassegna e aspetta una telefonata che io so non arriverà mai.

di Abdalla Al Omari (Damasco, 1986)

di Abdalla Al Omari (Damasco, 1986)


A casa c’è quel che resta di un sogno, di un progetto, di una vita. 
Un biglietto per due i trafficanti se lo fanno pagare caro e loro i soldi non li avevano. 
Se fosse restato li avrebbero ammazzati tutti e due. 






Il suo ultimo regalo per lei è stata la vita. 
Lui è scappato e lei non era più utile, l’hanno lasciata vivere.

A chi chiede: 
“Come si possono evitare altre morti nel Mediterraneo?”, rispondo: 
“Venite a vedere come viviamo, dove abitiamo, guardate le nostre scuole, informatevi dai nostri giornali, camminate per le nostre strade, ascoltate i nostri politici.
Prima dell’ennesima legge, dell’ennesima direttiva, dell’ennesima misura straordinaria, impegnatevi a conoscerci, a trovare le risposte nel luogo da cui si scappa e non in quello in cui si cerca di arrivare. 
Cambiate prospettiva, mettetevi nei nostri panni e provate a vivere una nostra giornata. 
Capirete che i criminali che ci fanno salire sul gommone, il deserto, il mare, l’odio e l’indifferenza che molti di noi incontrano qui non sono il male peggiore”.

Awas Ahmed (rifugiato somalo in Italia) 

di Abdalla Al Omari (Damasco, 1986)



Perché-saliamo-su-una-barca (da Artigiani Digitali Comunicazione Sensibile, video con Valerio Mastandrea)


Casa-di-Warsan-Shire

Bandiera rossa. Rebecca

Sono nata secoli fa
su strade battute da uomini animali e piogge.
Dipingevamo graffiti della nostra guerra coi mammut.
Sono stata partorita dentro una pozzanghera scura
tutta l'acqua sporca del mondo 
per bere pioggia e Dio.
Sono nata di traverso
fra monti di foglie 
rami di spine.
Sono nata, una volta, 
con una bandiera rossa
che il vento mi lasciava scivolare sul volto.
Sono nata tante di quelle volte
che non ricordo come sia morire.


Rebecca di Santo





martedì 17 aprile 2018

Ilaria. di Rebecca




Ilaria guarda lo schermo del cellulare. Sfiora, col pollice, la superficie incrinata. Quasi non si sente niente, se non una minuscola rottura della continuità. Sullo sfondo, oltre la sua mano e il telefonino, scorre il Tevere; rapido e sporco passa a qualche metro dai suoi piedi. La giornata è freddissima, il vento fa sì che lì, sotto ai ponti, sotto la città, il frastuono sia più forte di sempre. Da tanto tempo non scendeva all’Isola Tiberina. Seduta davanti al ponte Rotto, con le gambe ciondoloni sulla pietra che le ghiaccia il sedere, rivede la volta in cui scese con una comitiva e andarono sotto i piloni di ponte Garibaldi. I raggi del sole rilucevano in scaglie tondeggianti sull’acqua. Ricorda questo e i lunghi capelli nel vento, insieme a qualche risata, ai suoni misti del fluire del fiume e della fiumana di macchine sul ponte.  Una volta avevano detto che sul ponte c’erano delle crepe, sottili, che lo attraversavano da un lato all’altro. Poi non se n’era più parlato.  Anche Ilaria ha una crepa. Forse era già lì quando rilevarono le lesioni del ponte. Invece di rimarginarsi e scomparire, nel tempo, la sua crepa si era allargata. Poteva vederla ora, avrebbe sempre potuto vederla, ma aveva passato un lungo tempo della vita a fare altro.  C’era sempre qualcosa di cui occuparsi: la scuola, l’università, il ragazzo, la politica, il centro sociale, la madre, il fratello, il lavoro. Tutto con quella muffa che le cresceva dentro, quella materia che le si faceva sempre più sconosciuta e che ricopriva la crepa.  Dove poteva collocarla? Non era in un luogo fisico del suo corpo, era piuttosto in uno stato mentale e la venatura che seguiva univa la testa e il cervello con lo stomaco e le ovaie. Ora, con alle spalle ponte Garibaldi e davanti il ponte Rotto, può sentire con chiarezza cosa era stato e cosa poteva divenire.  Il tempo non aveva condiviso con lei alcuna fortuna. Era impossibile attraversare di nuovo tutto quel tempo, controcorrente e senza nessuna energia. Davanti a lei uno scenario molto più semplice e realistico, i resti vetusti di un ponte che, a imperitura memoria, potevano essere ammirati. E Ilaria? Ilaria da chi sarebbe stata ammirata?
Lei con le guance scarne nel volto ovale. Scomparsa di scena pian piano, per non essere vista. Con la muffa a crescerle dentro, in tutti quegli anni distratti. Aveva coperto con una nebbia densa la fenditura che si era aperta sulla sua infanzia, non le aveva concesso ossigeno e così la cancrena aveva marcito il suo futuro. Seduta sulla pietra, le natiche anestetizzate dal gelo, guardava l’acqua scorrere, senza violenza ma infaticabile.  Ilaria si alza, in fin dei conti non sta riflettendo su nulla di nuovo. Il vento è aumentato e fa una gran confusione fra le foglie in movimento, i suoni dalla strada in alto e il fiume. Nel suo cappottone spigato va verso le scale senza voltarsi indietro, non è più tempo. Sale su, nella piazza, vicino alla Basilica di San Bartolomeo all’Isola dove una cugina si sposò.  Esita un solo istante, poi il bisogno di silenzio la conduce verso l’ingresso. La chiesa le si apre dinanzi e subito le si fa incontro sferrandole un colpo al cuore. La accoglie muta, come una piazzola di sosta lungo l’autostrada, in cui cercare ristoro e tregua all’ombra di un gazebo. I pensieri di Ilaria tacciono sorpresi e, appena la porta le si chiude alle spalle con la sua vertigine di vuoto pneumatico, anche il vento e la città se ne vanno.  Avanza verso il centro e si siede su una panca. Non crede in Dio, non è stata educata per questo. Sente però affinità con la preghiera, tana nella quale cullarsi e risolvere ogni inciampo. Porta lo sguardo verso l’alto, agli affreschi che raccontano storie di cui non sa nulla, ma di cui intuisce il dolore inerme, lo stesso che ha provato poco prima, nella sua sosta di fronte al Tevere, una sorellanza di angoscia. Addosso, incrostato, le resta tutto il lavoro ancora da fare, ma avverte il solletico di una leggerezza sconosciuta, quasi una gioia fiduciosa che le si compone nel petto. Si alza, procede camminando all’interno delle navate. Il varco che quella nuova sensazione schiude è struggente, sembra una ventata che spalanca una finestra in un luogo chiuso da anni. Ilaria si volta ed esce.  Una volta fuori guarda avanti e procede, come se avesse appena finito di mettere ordine, come se avesse terminato le pulizie della casa e avesse aperto la porta per andare a passeggio. Appena messo piede oltre la piazza le viene il dubbio: destra o sinistra? Ponte Fabricio o Ponte Cestio? 
Ponte Cestio, quello che ha meno attraversato, quello più riservato, quello che guarda verso il ghetto di Roma. Pochi passi al riparo dal vento e dal suono del Tevere. Subito dopo il castello Caetani di nuovo si apre il gorgo assordante, nessuna protezione. Ilaria estrae dalla borsa il cellulare, passa di nuovo le dita sullo schermo, stavolta senza guardarlo. Poi lo ripone e poggia la borsa sul parapetto che va verso sud. Scavalca e, senza un fiato, entra volando nel pieno della sua crepa.

Rebecca di Santo

"Ilaria"
Menzione Speciale III edizione Concorso Letterario "Apriamo un Varco"




“Amo immergermi perché sott’acqua mi sento più libera di quanto non mi senta sulla terraferma, dove il senso del confine è molto più marcato. Il momento dell’immersione è una pausa dalla mia vita, necessaria per riprendere fiato, rallentare e riflettere. È in assoluto l’esperienza che mi trasmette più serenità. Sott’acqua il tempo si ferma e si vive solo il presente, senza preoccuparsi per ciò che succede all’esterno. Posso sentire il mio respiro, il battito cardiaco. I suoni sono attenuati e dall’interno tutte le percezioni cambiano e sembra di essere avvolti in un bozzolo di liquido caldo. Credo che ci si senta in questo modo anche nel grembo materno. L’esperienza dell’immersione mi lascia rinvigorita, mi dà serenità. Andare sott’acqua è per me una fuga da un presente reale e nel contempo illusorio.”
Foto e testo di Elena Kalis




giovedì 8 marzo 2018

Dillo, figlia. di Antonella Lucchini

Dillo, figlia.

Dimmelo

che non ci sarà mano

capace si schiacciarti la testa

dillo

che non ci sarà sangue fuori di te

che non sia per essere

o non essere culla.

Ti ho fatto

femmina

perché tu sia il centro al centro di te.

_____di Antonella Lucchini




Foto di Elena Vizerskaya

mercoledì 7 marzo 2018

Un sacco di cose. di Rebecca


Un sacco di cose:
borse
occhiaie
bacchette magiche
ultravioletti
preservativi
noduli
mare mosso
un anello
la lingua
la bilancia
essere in troppi
"non te ne andare"
geloni
la fretta
passami una sigaretta
porta fortuna
"guarda come vola!"
solo un etto
ho avuto paura
provo a dormire
i lacci
ora ti telefono
non starmi addosso
grattami la schiena
"mamma non morire"
un quadro
il pieno di gpl
non ha nevicato
è finito male
le mutande
ho perso me stessa
110 e lode
"zietta!"
io non so quanto ancora vivrò
so che ogni giorno
tutto questo vorrei poterlo ripassare nella mente
vorrei poter sapere e ricordare tutto
contemporaneamente
non perdermi
nemmeno
un particolare
di
tutto questo sciocco
vivere.
                                                                 Rebecca



martedì 27 febbraio 2018

La Siria per me. Maram Al Masri da "Arriva nuda la libertà"


La Siria per me

è una ferita sanguinante

è mia madre sul letto di morte

è la mia infanzia sgozzata

è incubo e speranza

è inquietudine e presa di coscienza.

La Siria per me

è un’orfana abbandonata.

È una donna violentata tutte le notti da un vecchio mostro,

violata,

imprigionata,

costretta a sposarsi.

La Siria per me

è l’umanità afflitta

è una bella donna che canta l'inno della Libertà

ma le tagliano la gola.

È l’arcobaleno del popolo

che si staglierà dopo i fulmini

e le tempeste.

Maram Al Masri,

estratto dal libro Arriva nuda la libertà

















Maram Al Masri è nata il 2 Agosto del 1962 a Lattakia, Siria.
Sarà moglie, sarà esule, sarà divorziata e sarà anche lontana da suo figlio che il padre ha portato di nuovo in Siria dopo la separazione.


Bibliografia in lingua italiana:
Ciliegia rossa su piastrelle bianche, ed. Liberodiscrivere, 2005
Ti minaccio con una colomba bianca, ed. Liberodiscrivere, 2008
Ti guardo, Multimedia Edizioni / Casa della poesia, 2009
Anime scalze, Multimedia Edizioni / Casa della poesia, 2011
Arriva nuda la libertà , Multimedia Edizioni, 2014
Il tempo dell'amore, ed. Culturaglobale, 2015
Lontananza, Medinova, 2016

domenica 18 febbraio 2018

'La notte prima delle foreste’ di Bernard-Marie Koltès


Bisognerebbe stare dall’altra parte senza nessuno intorno, amico mio quando mi viene di dirti quello che ti devo dire, stare bene tipo sdraiati sull’erba, una cosa così che uno non si deve più muovere con l’ombra degli alberi.
Allora ti direi: ‘qua ci sto bene, qua è casa mia, mi sdraio e ti saluto’.
Ma qua, amico mio, è impossibile, mai visto un posto dove ti lasciano in pace e ti salutano.
Ti dobbiamo mandare via, ti dicono, vai là, tu vai là vai laggiù, leva il culo da là e tu ti fai la valigia, il lavoro sta da un’altra parte, sempre da un’altra parte che te lo devi andare a cercare, non c’è il tempo per sdraiarsi e per lasciarsi andare, non c’è il tempo per spiegarsi e dirsi ‘ti saluto’.
A calci in culo ti manderebbero via, il lavoro sta là, sempre più lontano, fino in Nicaragua.
Se vuoi lavorare, ti devi spostare, mai che puoi dire ‘questa è casa mia e ti saluto’,
tanto che io quando lascio un posto ho sempre l’impressione che quello sarà casa mia, sempre di più di quello in cui vado a stare.
Quando ti prendono a calci in culo di nuovo, tu te ne vai di nuovo là dove te ne vai sei sempre più straniero, sempre meno a casa tua.
E quando ti prendono a calci in culo, tu te ne vai di nuovo quando ti giri a guardarti indietro, amico, è sempre il deserto.
Fermiamoci una buona volta e diciamo ‘Andate a fanculo’ io non mi sposto più, voi mi dovete stare a sentire se ci sdraiamo una buona volta sull’erba e ci prendiamo tutto il tempo che tu racconti la tua storia, quelli venuti dal Nicaragua
che ci diciamo che siamo tutti, più o meno stranieri ma che adesso basta, stiamo a sentire, tranquilli, tutto quello che ci dobbiamo dire allora sì che capisci che a loro non gliene frega un cazzo di noi.
Io mi sono fermato, ho ascoltato, mi sono detto: ‘Io non lavoro più’ finché non ve ne frega un cazzo di me.
A che serve che quello del Nicaragua viene fino qua e che io vado a finire laggiù se da tutte le parti la stessa storia.
Quando ho lavorato ancora, ho parlato a tutti quelli presi a calci in culo che sbarcano qua per trovare lavoro e loro mi sono stati a sentire.
Io sono stato a sentire quelli del Nicaragua che mi hanno spiegato com’è da loro.
Laggiù c’è un vecchio generale, che sta tutto il giorno e tutta la notte al bordo di una foresta gli portano da mangiare perché non si deve spostare che spara su tutto quello che si muove gli portano le munizioni quando non ce ne ha più.
Mi parlavano di un generale coi suoi soldati che circondano la foresta tutto quello che si muove diventa un bersaglio tutto quello che compare al bordo della foresta tutto quello che notano che non c’ha lo stesso colore degli alberi e che non si muove allo stesso modo.
Io sono stato a sentire tutto questo e mi sono detto che da tutte le parti è la stessa cosa più mi faccio prendere a calci in culo e più sarò straniero loro finiscono qua e io finirò laggiù, laggiù dove tutto quello che si muove sta nascosto nelle montagne.
Io ho ascoltato tutto questo e mi sono detto: “Io non mi muovo più, se non c’è lavoro non lavoro se il lavoro mi deve far diventare matto e mi devono prendere a calci in culo, io non lavoro più.
Io voglio sdraiarmi, una buona volta, voglio spiegarmi, voglio l’erba, l’ombra degli alberi, voglio urlare, voglio poter urlare, anche se poi mi sparano addosso.
Tanto è quello che fanno. Se non sei d’accordo, se apri la bocca, ti devi nascondere in fondo alla foresta.
Ma allora meglio così, almeno ti avrò detto quello che ti devo dire.
‘La notte prima delle foreste’
atto unico di Bernard-Marie Koltès, 1977

Testo in francese: La nuit juste avant les forêts




























Bernard-Marie Koltes
Bernard-Marie Koltès,
Metz 9 aprile 1948
Parigi, 15 aprile 1989



venerdì 9 febbraio 2018

"Stiamo tutti bene" Mirkoeilcane di Migranti e di bugie.

Ciao,
mi chiamo Mario e ho 7 anni
7 e mezzo per la precisione
mi piace il sole, l'amicizia
le persone buone, il calcio,
le canzoni allegre
e il profumo buono della pelle di mia madre.
Papà mio è da qualche mese che non torna,
ma guai a parlarne con qualcuno specialmente con la mamma
perché si sente male, grida, piange e non la smette più
e per tre giorni si nasconde e non si fa vedere,
ma oggi è un giorno felice
che qui è arrivato un pallone
e finalmente potrò diventare forte e fare il calciatore
so già palleggiare… con i sassi è diverso,
ma sono avvantaggiato perché corro forte come il vento
e allora volo alla radura insieme agli altri bambini
chi arriva ultimo in porta, sai che rottura di coglioni.
Arrivo primo come sempre e allora sono attaccante.
Scatto, dribblo, tiro in porta e il portiere non può farci niente
poi da più lontano sento
“Mario vieni qua! Prendiamo tutto quel che abbiamo e raggiungiamo papà !"
“Mamma ! Proprio adesso! sto tirando un rigore…",
ma non c’è verso, ce ne andiamo, meglio non polemizzare.

Ma guarda te la iella proprio a me doveva capitare
quattro giorni su 'sta barca e intorno ancora solo mare,
ma ti pare giusto uno va in vacanza per la prima volta
e quelli lì davanti son capaci di sbagliare rotta.





Che poi a chiamarla barca ci vuole un bel coraggio,
stare in tre seduti in mezzo metro di spazio


















e come me gli altri duecento tutti intenti a pregare
e io vorrei soltanto alzarmi e palleggiare,
ma se soltanto sposto anche di un centimetro il piede
questo davanti si sveglia e inizia a dire che ha sete.









Io pure ho sete, fame, sonno e mi fa male la schiena
ma non c’è mica bisogno di fare tutta 'sta scena
e poi c’è questo di fianco che ha chiuso gli occhi e non li apre più
è da tre giorni che dorme che pare non respiri
non ho mai visto nessuno dormire così tanto.
Ho chiesto a mamma e ha detto che era proprio stanco
boh tre giorni fa ne hanno buttati una trentina in mare
mamma dice che volevano nuotare
io li sentivo gridare e non sembravano allegri
ma almeno adesso ho un po di spazio per i piedi
è il sesto giorno e adesso dorme pure mamma
un tipo magro qualche fila più in la grida che vede la madonna
e questa barca adesso puzza di benzina e di morte,
ma mamma ha detto di non farci caso e di esser forte
di fare il bravo bambino e star seduto qua
che mamma adesso si addormenta e raggiunge papà.

Foto di Muhammed Muheisen
Isola di Lesbo 2 ottobre 2015


Però piangeva e si sforzava di sorridere
forse era proprio tanto stanca pure lei.
E c’è un silenzio tutto intorno che mi mette paura
s’è fatta notte, ho freddo e in cielo non c’è neanche la luna
la gente grida, chiede aiuto ma nessuno risponde
mi guardo intorno e neanche a dirlo vedo sempre e solo onde, 
dopo onde, ancora onde,
allora onde evitare di addormentarmi come gli altri e esser buttato in mare
mi unisco al coro della barca e inizio a piangere e gridare
ma non ho forza, chiudo gli occhi e non so neanche nuotare.