Bisognerebbe stare dall’altra parte senza
nessuno intorno, amico mio quando mi viene di dirti quello che ti devo dire,
stare bene tipo sdraiati sull’erba, una cosa così che uno non si deve più
muovere con l’ombra degli alberi.
Allora ti direi: ‘qua ci sto bene, qua è casa
mia, mi sdraio e ti saluto’.
Ma qua, amico mio, è impossibile, mai visto un
posto dove ti lasciano in pace e ti salutano.
Ti dobbiamo mandare via, ti dicono, vai là, tu
vai là vai laggiù, leva il culo da là e tu ti fai la valigia, il lavoro sta da
un’altra parte, sempre da un’altra parte che te lo devi andare a cercare, non
c’è il tempo per sdraiarsi e per lasciarsi andare, non c’è il tempo per
spiegarsi e dirsi ‘ti saluto’.
A calci in culo ti manderebbero via, il lavoro
sta là, sempre più lontano, fino in Nicaragua.
Se vuoi lavorare, ti devi spostare, mai che
puoi dire ‘questa è casa mia e ti saluto’,
tanto che io quando lascio un posto ho sempre
l’impressione che quello sarà casa mia, sempre di più di quello in cui vado a
stare.
Quando ti prendono a calci in culo di nuovo,
tu te ne vai di nuovo là dove te ne vai sei sempre più straniero, sempre meno a
casa tua.
E quando ti prendono a calci in culo, tu te ne
vai di nuovo quando ti giri a guardarti indietro, amico, è sempre il deserto.
Fermiamoci una buona volta e diciamo ‘Andate a
fanculo’ io non mi sposto più, voi mi dovete stare a sentire se ci sdraiamo una
buona volta sull’erba e ci prendiamo tutto il tempo che tu racconti la tua
storia, quelli venuti dal Nicaragua
che ci diciamo che siamo tutti, più o meno
stranieri ma che adesso basta, stiamo a sentire, tranquilli, tutto quello che
ci dobbiamo dire allora sì che capisci che a loro non gliene frega un cazzo di
noi.
Io mi sono fermato, ho ascoltato, mi sono
detto: ‘Io non lavoro più’ finché non ve ne frega un cazzo di me.
A che serve che quello del Nicaragua viene
fino qua e che io vado a finire laggiù se da tutte le parti la stessa storia.
Quando ho lavorato ancora, ho parlato a tutti
quelli presi a calci in culo che sbarcano qua per trovare lavoro e loro mi sono
stati a sentire.
Io sono stato a sentire quelli del Nicaragua
che mi hanno spiegato com’è da loro.
Laggiù c’è un vecchio generale, che sta tutto
il giorno e tutta la notte al bordo di una foresta gli portano da mangiare
perché non si deve spostare che spara su tutto quello che si muove gli portano
le munizioni quando non ce ne ha più.
Mi parlavano di un generale coi suoi soldati
che circondano la foresta tutto quello che si muove diventa un bersaglio tutto
quello che compare al bordo della foresta tutto quello che notano che non c’ha
lo stesso colore degli alberi e che non si muove allo stesso modo.
Io sono stato a sentire tutto questo e mi sono
detto che da tutte le parti è la stessa cosa più mi faccio prendere a calci in
culo e più sarò straniero loro finiscono qua e io finirò laggiù, laggiù dove
tutto quello che si muove sta nascosto nelle montagne.
Io ho ascoltato tutto questo e mi sono detto:
“Io non mi muovo più, se non c’è lavoro non lavoro se il lavoro mi deve far
diventare matto e mi devono prendere a calci in culo, io non lavoro più.
Io voglio sdraiarmi, una buona volta, voglio
spiegarmi, voglio l’erba, l’ombra degli alberi, voglio urlare, voglio poter
urlare, anche se poi mi sparano addosso.
Tanto è quello che fanno. Se non sei
d’accordo, se apri la bocca, ti devi nascondere in fondo alla foresta.
Ma allora meglio così, almeno ti avrò detto
quello che ti devo dire.
‘La notte prima delle foreste’
Bernard-Marie Koltes
Bernard-Marie Koltès, Metz 9 aprile 1948 Parigi, 15 aprile 1989 |
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