mercoledì 25 aprile 2018

Perché saliamo su una barca. di Awas Ahmed

A chi chiede: 
“Non era meglio rimanere a casa piuttosto che morire in mare?”, 
rispondo: 
“Non siamo stupidi, né pazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu che sceglieresti? O meglio cosa sceglieresti per i tuoi figli?”

di Abdalla Al Omari (Damasco, 1986)


Due giovani ieri sono stati uccisi a Mogadiscio perché si stavano baciando sotto un albero. Avevano 20 anni. Non festeggeranno altri compleanni. Non si baceranno più.

A chi domanda: 
“Cosa speravate di trovare in Europa? Non c’è lavoro per noi figurarsi per gli altri”, 
rispondo: 
“Cerchiamo salvezza, futuro, cerchiamo di sopravvivere. Non abbiamo colpe se siamo nati dalla parte sbagliata e soprattutto voi non avete alcun merito di essere nati dalla parte giusta”.

Mio cognato scappava con me.  Prima del mare c’è il deserto che ne ammazza tanti quanti il mare. Ma quei cadaveri non commuovono perché non si vedono in Tv. Perché non c’è un giornalista che chiede ripetutamente quante donne e bambini sono morti, quante erano incinte.

di Abdalla Al Omari (Damasco, 1986)


Perché qui in occidente a volte sembra che l’orrore non basti, c’è bisogno di pathos. 
Mio cognato è morto nel deserto. Per la fame. 
Dopo 24 giorni in cui nessuno ci ha dato da mangiare. 
A casa c’è una moglie che non si rassegna e aspetta una telefonata che io so non arriverà mai.

di Abdalla Al Omari (Damasco, 1986)

di Abdalla Al Omari (Damasco, 1986)


A casa c’è quel che resta di un sogno, di un progetto, di una vita. 
Un biglietto per due i trafficanti se lo fanno pagare caro e loro i soldi non li avevano. 
Se fosse restato li avrebbero ammazzati tutti e due. 






Il suo ultimo regalo per lei è stata la vita. 
Lui è scappato e lei non era più utile, l’hanno lasciata vivere.

A chi chiede: 
“Come si possono evitare altre morti nel Mediterraneo?”, rispondo: 
“Venite a vedere come viviamo, dove abitiamo, guardate le nostre scuole, informatevi dai nostri giornali, camminate per le nostre strade, ascoltate i nostri politici.
Prima dell’ennesima legge, dell’ennesima direttiva, dell’ennesima misura straordinaria, impegnatevi a conoscerci, a trovare le risposte nel luogo da cui si scappa e non in quello in cui si cerca di arrivare. 
Cambiate prospettiva, mettetevi nei nostri panni e provate a vivere una nostra giornata. 
Capirete che i criminali che ci fanno salire sul gommone, il deserto, il mare, l’odio e l’indifferenza che molti di noi incontrano qui non sono il male peggiore”.

Awas Ahmed (rifugiato somalo in Italia) 

di Abdalla Al Omari (Damasco, 1986)



Perché-saliamo-su-una-barca (da Artigiani Digitali Comunicazione Sensibile, video con Valerio Mastandrea)


Casa-di-Warsan-Shire

Bandiera rossa. Rebecca

Sono nata secoli fa
su strade battute da uomini animali e piogge.
Dipingevamo graffiti della nostra guerra coi mammut.
Sono stata partorita dentro una pozzanghera scura
tutta l'acqua sporca del mondo 
per bere pioggia e Dio.
Sono nata di traverso
fra monti di foglie 
rami di spine.
Sono nata, una volta, 
con una bandiera rossa
che il vento mi lasciava scivolare sul volto.
Sono nata tante di quelle volte
che non ricordo come sia morire.


Rebecca di Santo





martedì 17 aprile 2018

Ilaria. di Rebecca




Ilaria guarda lo schermo del cellulare. Sfiora, col pollice, la superficie incrinata. Quasi non si sente niente, se non una minuscola rottura della continuità. Sullo sfondo, oltre la sua mano e il telefonino, scorre il Tevere; rapido e sporco passa a qualche metro dai suoi piedi. La giornata è freddissima, il vento fa sì che lì, sotto ai ponti, sotto la città, il frastuono sia più forte di sempre. Da tanto tempo non scendeva all’Isola Tiberina. Seduta davanti al ponte Rotto, con le gambe ciondoloni sulla pietra che le ghiaccia il sedere, rivede la volta in cui scese con una comitiva e andarono sotto i piloni di ponte Garibaldi. I raggi del sole rilucevano in scaglie tondeggianti sull’acqua. Ricorda questo e i lunghi capelli nel vento, insieme a qualche risata, ai suoni misti del fluire del fiume e della fiumana di macchine sul ponte.  Una volta avevano detto che sul ponte c’erano delle crepe, sottili, che lo attraversavano da un lato all’altro. Poi non se n’era più parlato.  Anche Ilaria ha una crepa. Forse era già lì quando rilevarono le lesioni del ponte. Invece di rimarginarsi e scomparire, nel tempo, la sua crepa si era allargata. Poteva vederla ora, avrebbe sempre potuto vederla, ma aveva passato un lungo tempo della vita a fare altro.  C’era sempre qualcosa di cui occuparsi: la scuola, l’università, il ragazzo, la politica, il centro sociale, la madre, il fratello, il lavoro. Tutto con quella muffa che le cresceva dentro, quella materia che le si faceva sempre più sconosciuta e che ricopriva la crepa.  Dove poteva collocarla? Non era in un luogo fisico del suo corpo, era piuttosto in uno stato mentale e la venatura che seguiva univa la testa e il cervello con lo stomaco e le ovaie. Ora, con alle spalle ponte Garibaldi e davanti il ponte Rotto, può sentire con chiarezza cosa era stato e cosa poteva divenire.  Il tempo non aveva condiviso con lei alcuna fortuna. Era impossibile attraversare di nuovo tutto quel tempo, controcorrente e senza nessuna energia. Davanti a lei uno scenario molto più semplice e realistico, i resti vetusti di un ponte che, a imperitura memoria, potevano essere ammirati. E Ilaria? Ilaria da chi sarebbe stata ammirata?
Lei con le guance scarne nel volto ovale. Scomparsa di scena pian piano, per non essere vista. Con la muffa a crescerle dentro, in tutti quegli anni distratti. Aveva coperto con una nebbia densa la fenditura che si era aperta sulla sua infanzia, non le aveva concesso ossigeno e così la cancrena aveva marcito il suo futuro. Seduta sulla pietra, le natiche anestetizzate dal gelo, guardava l’acqua scorrere, senza violenza ma infaticabile.  Ilaria si alza, in fin dei conti non sta riflettendo su nulla di nuovo. Il vento è aumentato e fa una gran confusione fra le foglie in movimento, i suoni dalla strada in alto e il fiume. Nel suo cappottone spigato va verso le scale senza voltarsi indietro, non è più tempo. Sale su, nella piazza, vicino alla Basilica di San Bartolomeo all’Isola dove una cugina si sposò.  Esita un solo istante, poi il bisogno di silenzio la conduce verso l’ingresso. La chiesa le si apre dinanzi e subito le si fa incontro sferrandole un colpo al cuore. La accoglie muta, come una piazzola di sosta lungo l’autostrada, in cui cercare ristoro e tregua all’ombra di un gazebo. I pensieri di Ilaria tacciono sorpresi e, appena la porta le si chiude alle spalle con la sua vertigine di vuoto pneumatico, anche il vento e la città se ne vanno.  Avanza verso il centro e si siede su una panca. Non crede in Dio, non è stata educata per questo. Sente però affinità con la preghiera, tana nella quale cullarsi e risolvere ogni inciampo. Porta lo sguardo verso l’alto, agli affreschi che raccontano storie di cui non sa nulla, ma di cui intuisce il dolore inerme, lo stesso che ha provato poco prima, nella sua sosta di fronte al Tevere, una sorellanza di angoscia. Addosso, incrostato, le resta tutto il lavoro ancora da fare, ma avverte il solletico di una leggerezza sconosciuta, quasi una gioia fiduciosa che le si compone nel petto. Si alza, procede camminando all’interno delle navate. Il varco che quella nuova sensazione schiude è struggente, sembra una ventata che spalanca una finestra in un luogo chiuso da anni. Ilaria si volta ed esce.  Una volta fuori guarda avanti e procede, come se avesse appena finito di mettere ordine, come se avesse terminato le pulizie della casa e avesse aperto la porta per andare a passeggio. Appena messo piede oltre la piazza le viene il dubbio: destra o sinistra? Ponte Fabricio o Ponte Cestio? 
Ponte Cestio, quello che ha meno attraversato, quello più riservato, quello che guarda verso il ghetto di Roma. Pochi passi al riparo dal vento e dal suono del Tevere. Subito dopo il castello Caetani di nuovo si apre il gorgo assordante, nessuna protezione. Ilaria estrae dalla borsa il cellulare, passa di nuovo le dita sullo schermo, stavolta senza guardarlo. Poi lo ripone e poggia la borsa sul parapetto che va verso sud. Scavalca e, senza un fiato, entra volando nel pieno della sua crepa.

Rebecca di Santo

"Ilaria"
Menzione Speciale III edizione Concorso Letterario "Apriamo un Varco"




“Amo immergermi perché sott’acqua mi sento più libera di quanto non mi senta sulla terraferma, dove il senso del confine è molto più marcato. Il momento dell’immersione è una pausa dalla mia vita, necessaria per riprendere fiato, rallentare e riflettere. È in assoluto l’esperienza che mi trasmette più serenità. Sott’acqua il tempo si ferma e si vive solo il presente, senza preoccuparsi per ciò che succede all’esterno. Posso sentire il mio respiro, il battito cardiaco. I suoni sono attenuati e dall’interno tutte le percezioni cambiano e sembra di essere avvolti in un bozzolo di liquido caldo. Credo che ci si senta in questo modo anche nel grembo materno. L’esperienza dell’immersione mi lascia rinvigorita, mi dà serenità. Andare sott’acqua è per me una fuga da un presente reale e nel contempo illusorio.”
Foto e testo di Elena Kalis