Il Triangolo Rosa
Non era più una persona.
Lì dentro, Edward era solo un numero, il numero 182101 per
l’esattezza.
Al posto delle sei lettere del suo nome, si erano piazzate
sei cifre.
Sul petto, invece, un triangolo rosa aveva preso il posto
del cuore.
Quel triangolo urlava
“omosessuale” da tutte le parti e scatenava l’indignazione di chi gli
passava a fianco, soprattutto dei soldati nazisti, che, tanto per mortificarlo
ancora di più, gli sbattevano le canne dei fucili addosso o gli urlavano parole
offensive. Gli altri prigionieri non ci badavano troppo, preoccupati per la
morte che poteva arrivare da un momento all’altro. Si poteva morire per
qualsiasi cosa, anche per l’umore storto della guardia, che ossessivamente ti
controllava.
Edward faceva il possibile per passare inosservato e,
contemporaneamente, svolgere bene gli ordini che gli arrivavano.
Il suo ragazzo, invece, non riusciva proprio ad arrendersi
all’evidenza. Noah aveva molte più ferite di Edward, molte delle quali
risalivano ancora al momento della liquidazione del loro ghetto. Aveva provato
con tutte le forze a non farsi catturare ed era un miracolo se non era rimasto
ucciso, dopo tutto quello che aveva combinato: arrampicate sugli alberi,
tentativi di fuga attraverso le fogne e, addirittura, aggressione di un
soldato, che non l’aveva ucciso solo perché aveva finito la riserva dei
proiettili.
Arrivato al campo chiamato “Birkenau”, Noah ricevette non
solo il triangolo rosa (come Edward) ma anche quello giallo. Questi due
triangoli lo indicavano come “ebreo omosessuale”.
I due ragazzi non capivano bene il perché di tali
distinzioni.
«Tanto vogliono ammazzarci tutti lo stesso!» commentò Noah,
durante una discussione tra i ragazzi del dormitorio numero diciotto.
«I simboli servono per sapere come trattare ognuno di noi.»
gli rispose un uomo magrissimo, scheletrito come un albero spoglio. Non era
difficile intuire che fosse a Birkenau da diverso tempo. Aveva una stella di
Davide cucita sulla giacca esageratamente grande per le sue povere
spallucce.
Non si parlava per molto nei dormitori.
Tutti volevano provare a dormire il più possibile.
Ad essere precisi, non si parlava molto in generale.
Durante le ore di lavoro, i suoni che si sentivano non erano
parole, ma lamenti ed urla.
Quelle urla, la maggior parte delle volte, finivano con uno
sparo e qualche povero diavolo steso a terra.
Edward aveva sempre il terrore di guardare uno di quei
cadaveri e accorgersi che magari era Noah. Cercava di stargli vicino il più
possibile per non perderlo di vista, ma non sempre ci riusciva. In quei casi
sfortunati, il ragazzo pregava perché Noah non facesse qualche sciocchezza.
Sapeva bene che non avrebbe potuto cavarsela ogni volta. Prima o poi, Noah sarebbe
arrivato a commettere l’ultima imprudenza e, purtroppo per entrambi, quel
momento sembrava proprio essere arrivato. Edward stava trascinando un carretto
pieno di pietre, quando sentì un urlo pericolosamente familiare. Come temeva,
vide Noah accasciato a terra e un soldato che lo riempiva di calci e lo
bastonava con il suo fucile.
D’un tratto l’aguzzino lo afferrò per il collo, impedendogli
di respirare. Stava per succedere.
Noah stava per morire ed Edward era lì, a qualche metro da
lui ma impotente. Voleva fare qualcosa per impedire che il suo peggior incubo
si avverasse, ma riusciva solo a stare fermo e a guardare la scena con il cuore
in gola. Si sentì ancora peggio quando Noah girò leggermente la testa e lo
guardò.
Non gli stava chiedendo aiuto, voleva semplicemente che il
viso del fidanzato fosse l’ultima cosa impressa nella sua mente, prima del buio
della morte.
Edward capì i pensieri del compagno, quindi ricambiò quello
sguardo intenso, cercando addirittura di abbozzare un sorriso. La stretta sul
collo di Noah si allentò, ma fu seguita subito dopo dallo sparo fatale.
Il sangue cominciò ad uscire dalla testa rasata del ragazzo,
così come le lacrime uscirono copiose dagli occhi di Edward.
Ormai non gli era rimasto più niente e nessuno.
L'unica cosa bella a cui non avrebbe voluto rinunciare se ne
era appena andata.
La sua vita non era più vita, ma solo un insieme di
avvenimenti uno più tristi dell'altro.
La presenza di Noah in quell'Inferno lo aiutava più di
quanto sia possibile immaginare. Avere una relazione con un ragazzo, in quei
tempi, gli aveva causato non pochi problemi, ma era stato anche ciò che gli
permetteva ancora di ridere o avere dolci pensieri. Senza Noah poteva solo
continuare a far finta di continuare a vivere, ma non era sicuro di volerlo.
Se ci pensava bene, la morte lo avrebbe tolto da quel mondo
orribile e avrebbe messo fine a tutte le sue sofferenze.
La decisione era presa!
Rimaneva solo da trovare un modo per farsi sparare più
rapidamente possibile.
«Forza, ricominciate a lavorare, se non volete fare la
stessa fine!» ordinava la voce dura dello stesso soldato che aveva ucciso Noah.
Edward aveva appena trovato il suo biglietto per l'ultimo treno.
«No!» esclamò in modo che l'uomo lo sentisse chiaramente.
Il primo schiaffo non tardò ad arrivare. A quello, ne
seguirono altri. La guardia cercò di farlo cadere, ma il ragazzo non cedeva.
Dopo una serie interminabile di schiaffi, il soldato si sdegnò e prese il
fucile. Lo puntò contro Edward, pronto a sparare.
«Lo dirò solo un'altra volta: torna a lavorare!» gridò con
il suo accento marcato.
Edward chiuse gli occhi: rivide tutti i momenti migliori
della propria vita, la maggior parte di essi trascorsi con Noah.
Gli vennero in mente anche momenti terribilmente brutti,
come l'isolamento nel ghetto e la dura prigionia a Birkenau che stava per
finire, e quella di Noah che era già stato liberato.
Edward sentì il grande bisogno di raggiungerlo, e fu questo
lo stesso desiderio che gli diede la forza di pronunciare la sua ultima parola:
«No!». Dopo, solo il rumore di uno sparo e di un corpo che
si schiantava a terra, raggiungendo nell'infinito la sua metà.
di Mirella Eva Bernardi
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