domenica 14 agosto 2016

Del latte. di Rebecca di Santo


La Madonna tiene sempre lo sguardo basso. Chino sul corpo del figlio. Non è remissiva, è innamorata. 
A Emma quell'affresco fa venire il vomito.
E così mentre la guarda sente il dolore che la opprime. Un prurito insopportabile ai capezzoli. Una pressione che la solletica, fra ascella e seno. Si sente stordita e concentrata.
Si sente svanire in quelle sale così artificiali. 
Corridoi lontani dalla strada; due piani di altezza, uno spesso strato di mura antiche. La falsità che Emma sente in quel luogo, non contiene nessun imbroglio. È il sovrapporsi stupido del tempo. 
Vorrebbe scrostare dai dipinti lo spessore del colore. 
Si mette di traverso per osservare il profilo delle tele, del legno e inspira profondamente per riceverne l’odore. 
Non è una passione per l’arte la sua.
È una volontà stralunata di cullarsi negli spasmi della sua sofferenza e nella volontà perversa di non abbandonarla, mai.
Solo cinque mesi fa Emma sedeva sul letto sconcio e sporco dell’ospedale. 
Il letto si era trasformato in quella sola notte. 
Lo sa. Sa che lo sguardo sbieco della Madonna, sguardo quasi ottuso, le è appartenuto. 
Durante quella notte non sentiva il buio spingerle dietro come lo sente così tanto ora. 
Non lo avvertiva nemmeno quando era chiaro come il freddo premesse sul vetro della sua vita. Non sentiva niente. 
Era così semplice: era solamente viva.
Mentre guarda quella Madonna che allatta il bambino le arrivano gli schiaffi, lo sfregio aggressivo di chi riesce a farti guardare dove non dovresti. 
La Madonna di Signorelli guarda un’azione incompiuta. 
Ma sa che c’è una promessa. Il bambino che sta allattando è voltato e guarda Emma, guarda chi non può far parte del suo evento. 
E quel latte?
Ecco cosa dà il voltastomaco a Emma. Il latte esce dal capezzolo e si spreca. Nessuna bocca a succhiarlo.
<<La desolazione della Madonna…>> questo sta dicendo Emma con un filo di voce, <<…qualcuno la vede? Quella creatura sembra fare sfoggio dell’abbondanza di quella dedizione. Di quel seno pieno che si permette di lasciar svuotare senza che nessuno se ne nutra! È assurdo. Assurdo! Qualcuno deve fare qualcosa.>>

Eppure quella sera, seduta sul letto fra cuscini e lenzuola non avrebbe neanche lontanamente pensato di voler scomparire di lì a qualche ora. I suoi seni colmi. La sala parto lasciata da poco. Sentiva la pressione del latte aumentare, il cibo di suo figlio. 
Durante l’attesa del suo bambino aveva sognato. Aveva sognato il suo nome. E lo teneva dentro nel respiro. Lo avrebbe detto appena si fossero trovati soli. Appena glielo avrebbero portato e lei lo avrebbe avvoltolato, abbracciato. Appena avrebbe potuto sfiorare con le dita e gli occhi la pelle stropicciata e silenziosa di suo figlio, quel nome le sarebbe uscito in un sussurro.
Si era appisolata. Forse un minuto o di più. Appisolata. Quasi seduta senza poggiare la schiena al letto. Ansiosa come al primo appuntamento, o all’esame di maturità, o come quei tre minuti prima di sapere che era arrivata seconda alla gara di scacchi. 
Quando ci si addormenta per pochi minuti la mente al risveglio prende a girare a un ritmo stranissimo. Non si trova nella sua nota regolarità, piuttosto si raggruma. Si avvinghia a qualche visione. Emma è infatti rimasta intrappolata lì. 
Ha il nome di suo figlio incastrato fra lingua e denti. Incastrato nell’emozione di volerlo toccare. 
Al suo fianco c’è la notte e Miranda, la ragazza che dorme nell’altro letto. Il resto è fatto di penombra e rumori ovattati. Dal corridoio pochi suoni. Dal corridoio il tramestìo rarefatto.

Emma non era sicura di afferrare la direzione delle luci o delle voci. O degli zoccoli delle infermiere, ma quando i passi divennero decisi non ebbe alcun dubbio. 
C’era il nome, quel nome spingeva fra gli incisivi. Sapeva di saliva, buona. Sapeva del suo sapore già noto e del suo profumo.
I passi nascondono la luce. Ecco, se Emma dovesse ricordare se ci fosse stato qualcosa di stonato direbbe che , non era giusto e normale che un rumore coprisse la luce, eppure lei aveva sentito e visto proprio questo. 

Poi i passi si sono fatti sostanza e parole e delirio e quel letto si è fatto lo schifo indistinto in cui Emma vive.  
Ha deliberatamente scelto questo nome per la sua sensazione. Ha scelto la parola schifo fra un milione. Perché non ci può essere una parola degna. Perché né la disperazione, né la solitudine la interessano. Perché nessuna parola può più essere pronunciata. Perché l’unica vera parola non era stata detta: il nome.
Il primo atto compiuto dopo essersi guardata allo specchio, dopo essersi svegliata dalla massiccia dose di calmante che le avevano dato a forza, era stato quello di spaccarsi i denti. Un colpo netto sulla porcellana del piccolo lavabo nel bagno. Poi sangue, molto. Eppure il nome di suo figlio era ancora lì bloccato.
Era stata dimessa dopo una quindicina di giorni, dopo essere stata spostata nel reparto di medicina generale. Prima di andare via era passata da lei Miranda. Aveva avuto il cuore di non portare con sé la figlioletta. Miranda era entrata da sola. Emma aveva preso a piangere. Ricordava perfettamente il suo russare tiepido e profondo mentre i passi di quella notte la raggiungevano per presentarle ufficialmente il buio. E quel contrasto fra abbandono e violenza erano davvero troppo per lei. Così Miranda era scivolata via dalla camerata ed era scomparsa col suo passo di madre.

Ora Emma è poggiata al muro. Sta cercando di spiare la materia su cui Signorelli ha dipinto il peccato. Non si è fatta ricostruire i denti. Non sta abbandonando la vita, non se la sente. Capisce che sarebbe un’ulteriore offesa a quel nome intrappolato. Ma al contempo non riesce a trovare nessun senso. Nessun senso. E poi quel seno. Tutto quel latte.
Lei ha dovuto far tornare indietro il suo latte. Ha dovuto forzare il suo corpo a capire che non serviva. Che non c’era nessuno. Aveva provato a strizzare i seni con le mani e con tutta la forza. Si era procurata dei lividi. Era passata in un lampo dall’essere una fidanzata all’essere la vedova di stato. La vittima di una strage. 

Dentro la Galleria Nazionale dell’arte si è addormentata. Dal basso ha visto la tela del tessuto su cui vive il dipinto. Ad occhi chiusi sente il liquido caldo che esce dalla Madonna colarle sul viso. Di fronte a lei la guida del gruppo tedesco rimane incredula. Una ragazza addormentata col viso stravolto. La fotografa. 

Muro bianco. Teca con dipinto. Donna addormentata. Nel suo sogno Emma ride, ride di cuore e dal corridoio sulla porta arriva improvviso, incontrastato, un bagliore innominato.

Rebecca



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