domenica 20 settembre 2015

Nascita. Contrazioni letterarie. di Rebecca di Santo

Nella sala travaglio, una finestra alla mia sinistra. 
L’estate più calda. Siccità. Umidità. Anche le acque che contengono Mirella non ne vogliono sapere. Lei è protetta, abbracciata all'utero. 
Sono convinta che siano giusti i miei calcoli ma nessuno ne vuol sapere nulla. 
Mirella, non mi ascoltano e così ci ritroviamo stese in sala parto ad aspettare di nascere. 
Delle bellissime contrazioni ci sono state al mattino ma erano truccate ed ora soltanto insignificanti picchi che non parlano la giusta lingua nella grammatica del monitoraggio. 
Ho amato quelle contrazioni. L’illusione che fosse l’apertura della tua strada mi ha emozionata come una bambina. 
Qui, mi sembra così bello. L’arredamento. La bilancia. Il lavandino. Chiedo di sollevare la serranda. Oramai sono quasi le otto di sera. Entrerà più che altro luce non calura. C’è del movimento attorno. Mi sembra un luogo vivo. Donne che si aggirano in camice. Mi saranno vicine e questo già mi commuove. 
Fra poco vedrò il volto, le mani, i piedi, annuserò l’odore, toccherò la pelle, sentirò la consistenza della tua carne dalla mia carne. 

Comunque.
Il reparto maternità dell’ospedale è apprezzato per le sue (indiscusse) qualità: accoglienza, cordialità, gentilezza. Persone consapevoli dell’importanza del momento per ogni singola donna che si arriva su quel lettino. 
Eppure qualcosa non è andato. 
Non mangiavo dalla sera precedente. Un goccio d’acqua da un bicchierino di plastica. 
Poi arriva lo stimolo della pipì. Il bagno fa decadere l’illusione che aveva fino a quel momento disegnato un quadro di grazia. Nel bagno non c’è carta. Non c’è sapone. Dietro la scena scopro delle quinte decadenti. 
Un cattivo ginecologo entrava, infilava i guanti e infilava le sue mani fra le mie gambe, lungo il collo dell’utero. Evitava sapientemente i miei occhi. Non riferiva a me. Riferiva a se stesso e alla donnina-infermierina che approvava ogni cosa detta da lui. 
Ho taciuto. Nessuna grinta. 
Mi sono sentita trascurata e in mani non degne. 
Le nostre piccole e preziose contrazioni trattate con indifferenza clinica. Ma erano le mie uniche, le mie prime, le mie. Nessuno al fianco. 
Per tutta la notte il monitoraggio sulla pancia, sulla tua casa. Per comodità le sonde mi sono state fissate con del nastro adesivo che al mattino è stato poi necessario strappare dalla pelle. La comodità era in realtà sciatteria. 
Nessun’altra donna. Una notte silenziosa. 
Solo le chiacchiere riposate del personale che arrivavano a tratti nel mio dormiveglia. Senza chiedermi hanno spento la luce. Questo credo di averlo detto. Credo di aver detto di lasciar stare. Il silenzio ancora fino ai cambi di turno. Indicazioni date da uomini-dottori a donne-infermiere-ostetriche. Non comprese. Corrette. Io sentivo tutto e capivo anche le incomprensioni ma ho continuato a tacere. 
Comunque. 
Il cattivo ginecologo ha persistito con il suo atteggiamento. In fin dei conti aveva funzionato. Il mio silenzio non era paura ma vergogna. «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno». 
Una sorta di onnipotenza onnicomprensiva che mi lascia tuttora in perdita. 
Segni di sofferenza fetale. 
Procediamo al cesareo. 
Un monitoraggio poco convincente. 
Che non ha convinto fin dal primo momento. 
Per tutta la notte. 
Ma al mattino con l’anestesista, i pediatri, il ginecologo-chirurgo, l’ostetrica compiacente, insomma tutti in fila. Finalmente si può intervenire ad un orario adeguato per lavorare. 
Due soli pensieri che riesco a tradurre in domande prima di andare nella sala operatoria: 
ma il mio bambino ha dei problemi? 
e devo avvisare qualcuno a casa. 
L’ostetrica rimane voltata di spalle e dice: 
«Sappiamo come sta solo quando lo vediamo». 
L’ostetrica non è una buona mediatrice fra il mio mondo e l'ospedale, quando scopre che il mio bambino non ha un nome esprime il suo fastidio, glielo leggo nelle spalle. Non può avere un nome il mio bambino, non so se sarà maschio o femmina. 
Ma qual è il suo problema? Non può avvantaggiarsi il lavoro preparando i braccialetti.
Sala operatoria. Finalmente una persona simpatica. L’anestesista. Me lo ritrovo occhi negli occhi. Riesce a darmi leggerezza, riesce a farmi ridere, e ride con me. 
Devo contare e mi sento sveglissima, ma in un solo momento perdo di vista tutto. Completamente. Annullata nel buio e in un tempo di cui non saprò mai nulla. Un tempo durante il quale tu, Mirella, sorgevi dalla mia pancia. Non le mie braccia, non le mie lacrime, non il tuo e mio petto. Solo più tardi questo. Una conquista graduale che ancora sta avvenendo. 
La prima persona che vedo è mia sorella. È Sandra. Da lei imparo a chiamarti Mirella. Perché mi rivela che è nata una femmina. Mirella sta bene. È grande. È reattiva. Sono io ad essere tramortita. In una stanza con altre mamme-cesaree e non. Un tremore assurdo al braccio. Per paura di chissà cosa non lo muovo. Ma trema. Trema tantissimo. Ho freddo. Credo. Dormo ancora. Credo. Torno nel mio letto. Dormo ancora. Credo. Non ricordo molto se non quello che mi hanno riferito. 
Una cosa però la ricordo benissimo. Michele era con me. Finalmente. Quando Mirella è arrivata nella stanza, tolta dalla carrozzina comunitaria, Michele sgrana gli occhi: ma questa bimba non è Mirella! Non la conoscevamo ancora, ma il braccialino al polso non era il suo, e neanche la tutina che indossava. 
L’infermiera va via senza una parola, portando con sé e il cucciolo che non abbiamo riconosciuto come nostra figlia. Mirella arriva dopo un po’. È piccola ed è grande. Ora è fuori di me. Fra le mie braccia. Ma davvero non lo ricordo molto bene. Arriva tutta la mia famiglia. 
Mirella è la benvenuta. 
Mirella ed Io.




Devo provare a ricostruire il perché del mio comportamento. Il mio sdegnato e penitente silenzio. 
Che io sia stata lasciata sola perché avevo con me una compagnia sublime? Avevo con me un libro. 
E su quel lettino tra ginecologi, infermiere, nastri adesivi, io leggevo. Leggevo per starmene per conto mio. Per non avere paura. Per pensare. Per allontanarmi. Per non dover vedere. Per farmi compagnia. Un po’ una maschera un po’ la verità. 
E chissà che non l’abbiano capito. Come potevano sollevarmi più di un libro?  
Mirella apprezzava con me. Forse anche con lei i momenti di dialogo più profondi e nitidi sono stati proprio quelli durante la lettura. Donare a lei tutti quei luoghi, quei colori, quell’enorme varietà che mi scorreva semplicemente sotto gli occhi. 
L’unica frase che mi hanno detto in quella sala, in effetti, era diretta al libro fra le mie mani: 
«Questa qui se legge nun ce l’ha i dolori».
Ho pensato che sbagliava che avrei anche potuto partorire col libro fra le mani. Ma che ne sapevano. 
La meditazione, la preghiera, i mantra, la lettura, una nenia, la respirazione profonda. 
Il libro era “Ricorderò domani" di Erica Jong.


Rebecca di Santo 

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