Ilaria guarda lo schermo del
cellulare. Sfiora, col pollice, la superficie incrinata. Quasi non si sente
niente, se non una minuscola rottura della continuità. Sullo sfondo, oltre la
sua mano e il telefonino, scorre il Tevere; rapido e sporco passa a qualche
metro dai suoi piedi. La giornata è freddissima, il vento fa sì che lì, sotto
ai ponti, sotto la città, il frastuono sia più forte di sempre. Da tanto tempo
non scendeva all’Isola Tiberina. Seduta davanti al ponte Rotto, con le gambe
ciondoloni sulla pietra che le ghiaccia il sedere, rivede la volta in cui scese
con una comitiva e andarono sotto i piloni di ponte Garibaldi. I raggi del sole
rilucevano in scaglie tondeggianti sull’acqua. Ricorda questo e i lunghi
capelli nel vento, insieme a qualche risata, ai suoni misti del fluire del
fiume e della fiumana di macchine sul ponte.
Una volta avevano detto che sul ponte c’erano delle crepe, sottili, che
lo attraversavano da un lato all’altro. Poi non se n’era più parlato. Anche Ilaria ha una crepa. Forse era già lì
quando rilevarono le lesioni del ponte. Invece di rimarginarsi e scomparire,
nel tempo, la sua crepa si era allargata. Poteva vederla ora, avrebbe sempre
potuto vederla, ma aveva passato un lungo tempo della vita a fare altro. C’era sempre qualcosa di cui occuparsi: la
scuola, l’università, il ragazzo, la politica, il centro sociale, la madre, il
fratello, il lavoro. Tutto con quella muffa che le cresceva dentro, quella
materia che le si faceva sempre più sconosciuta e che ricopriva la crepa. Dove poteva collocarla? Non era in un luogo
fisico del suo corpo, era piuttosto in uno stato mentale e la venatura che
seguiva univa la testa e il cervello con lo stomaco e le ovaie. Ora, con alle
spalle ponte Garibaldi e davanti il ponte Rotto, può sentire con chiarezza cosa
era stato e cosa poteva divenire. Il
tempo non aveva condiviso con lei alcuna fortuna. Era impossibile attraversare
di nuovo tutto quel tempo, controcorrente e senza nessuna energia. Davanti a
lei uno scenario molto più semplice e realistico, i resti vetusti di un ponte
che, a imperitura memoria, potevano essere ammirati. E Ilaria? Ilaria da chi
sarebbe stata ammirata?
Lei con le guance scarne nel volto
ovale. Scomparsa di scena pian piano, per non essere vista. Con la muffa a
crescerle dentro, in tutti quegli anni distratti. Aveva coperto con una nebbia
densa la fenditura che si era aperta sulla sua infanzia, non le aveva concesso
ossigeno e così la cancrena aveva marcito il suo futuro. Seduta sulla pietra,
le natiche anestetizzate dal gelo, guardava l’acqua scorrere, senza violenza ma
infaticabile. Ilaria si alza, in fin dei
conti non sta riflettendo su nulla di nuovo. Il vento è aumentato e fa una gran
confusione fra le foglie in movimento, i suoni dalla strada in alto e il fiume.
Nel suo cappottone spigato va verso le scale senza voltarsi indietro, non è più
tempo. Sale su, nella piazza, vicino alla Basilica di San Bartolomeo all’Isola
dove una cugina si sposò. Esita un solo
istante, poi il bisogno di silenzio la conduce verso l’ingresso. La chiesa le
si apre dinanzi e subito le si fa incontro sferrandole un colpo al cuore. La
accoglie muta, come una piazzola di sosta lungo l’autostrada, in cui cercare
ristoro e tregua all’ombra di un gazebo. I pensieri di Ilaria tacciono sorpresi
e, appena la porta le si chiude alle spalle con la sua vertigine di vuoto
pneumatico, anche il vento e la città se ne vanno. Avanza verso il centro e si siede su una
panca. Non crede in Dio, non è stata educata per questo. Sente però affinità
con la preghiera, tana nella quale cullarsi e risolvere ogni inciampo. Porta lo
sguardo verso l’alto, agli affreschi che raccontano storie di cui non sa nulla,
ma di cui intuisce il dolore inerme, lo stesso che ha provato poco prima, nella
sua sosta di fronte al Tevere, una sorellanza di angoscia. Addosso, incrostato,
le resta tutto il lavoro ancora da fare, ma avverte il solletico di una
leggerezza sconosciuta, quasi una gioia fiduciosa che le si compone nel petto.
Si alza, procede camminando all’interno delle navate. Il varco che quella nuova
sensazione schiude è struggente, sembra una ventata che spalanca una finestra
in un luogo chiuso da anni. Ilaria si volta ed esce. Una volta fuori guarda avanti e procede, come
se avesse appena finito di mettere ordine, come se avesse terminato le pulizie
della casa e avesse aperto la porta per andare a passeggio. Appena messo piede
oltre la piazza le viene il dubbio: destra o sinistra? Ponte Fabricio o Ponte
Cestio?
Ponte Cestio, quello che ha meno
attraversato, quello più riservato, quello che guarda verso il ghetto di Roma.
Pochi passi al riparo dal vento e dal suono del Tevere. Subito dopo il castello
Caetani di nuovo si apre il gorgo assordante, nessuna protezione. Ilaria estrae
dalla borsa il cellulare, passa di nuovo le dita sullo schermo, stavolta senza
guardarlo. Poi lo ripone e poggia la borsa sul parapetto che va verso sud.
Scavalca e, senza un fiato, entra volando nel pieno della sua crepa.
Rebecca di Santo
"Ilaria"
Menzione Speciale III edizione Concorso Letterario "Apriamo un Varco"
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“Amo immergermi perché sott’acqua mi
sento più libera di quanto non mi senta sulla terraferma, dove il senso del
confine è molto più marcato. Il momento dell’immersione è una pausa dalla mia
vita, necessaria per riprendere fiato, rallentare e riflettere. È in assoluto
l’esperienza che mi trasmette più serenità. Sott’acqua il tempo si ferma e si
vive solo il presente, senza preoccuparsi per ciò che succede all’esterno.
Posso sentire il mio respiro, il battito cardiaco. I suoni sono attenuati e
dall’interno tutte le percezioni cambiano e sembra di essere avvolti in un
bozzolo di liquido caldo. Credo che ci si senta in questo modo anche nel grembo
materno. L’esperienza dell’immersione mi lascia rinvigorita, mi dà serenità.
Andare sott’acqua è per me una fuga da un presente reale e nel contempo
illusorio.”
Foto e testo di Elena Kalis
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