Non
mi muovo. Sono ore che non mi muovo. Non ne ho voglia. Non ci credo più. Sento
solo il calore lontano. Ricordo il caminetto, il caldo insopportabile e poi,
appena voltato, subito freddo. Entrambe le sensazioni assolute. Mi sono
abituato a tutto, credo.
Mi
sono abituato a tutto. Anche a questo dolore alla bocca dello stomaco. Così
forte che, ogni tanto, mi rannicchio e cerco di coccolarlo. Mi sono abituato a
stare fermo. Non avverto più il sapore angusto di questa che è la mia cuccia.
Ricordo
invece, a tratti, quella che era la mia dimora, ne ricordo la porta. Lo scatto
preciso della serratura al girare della chiave nella toppa. Ma non so quando
era, non so più cosa ci fosse oltre la soglia.
Poco
fa sognavo, mi affacciavo oltre l’uscio. Salutavo con una voce, la mia, che mi
ha riportato a un'altra vita. Il tuo nome. So chi sei stata: mia moglie. La
madre di chi mi manca nelle ossa. So che i miei figli vivono anche senza di me.
Ma senza di te non posso. Eleonora trovami! Portami via le mani. Scava tra gli
steccati, di modo che io possa riconoscere il refrigerio dell'aria.
Il
braccio destro mi si intorpidisce sempre. Avverto il formicolio solo quando mi
decido a muovermi, a spostarmi su un altro fianco, a sedermi. E le gambe, le
sento pesanti e al tempo stesso non sembrano più le mie. Mai stato così magro.
Mai stato così inutile e dimesso.
Una
volta, sulla spiaggia di Punta Palascìa ho sentito qualcosa di simile. Pesante
nei miei trent'anni di uomo, con addosso la forza e l’obbligo del sentirci
tutti liberi dalla guerra. Era Capodanno, nell'alba ventosa del 1946. Lo sai,
ero appena divenuto anche marito, tuo marito. Su quella Punta l'illusione
dell'est, la vicinanza al nuovo anno nella luce più accesa d'Italia. Mentre
toccavo quel sole mi sentivo venir meno. Avrei voluto smarrirmi nella luce, fra
quelle onde gelate e l'aria che vi si disintegrava dentro. Ero magro già
allora, ma non così. Ero magro ma vivo, non ero ciò che ora sono.
Stamattina
mi hanno svegliato così presto. Per riportarmi alla vita. Non la ricordavo
così, Eleonora. Ricordavo più colori, voci più nette e ricordavo me in piedi,
non così ritorto. Poi questa coperta che separa il mio sguardo dal poter
vedere.
Ma
forse non voglio davvero niente, oltre questo. Ho trovato l'umanità in una
cuccia malmessa e ho sentito allontanarsi i fratelli di sempre, gli amici, la
fede persino. E so perché sono dimagrito. Sono dimagrito perché sono voluto
andargli incontro. Ritirarmi, farmi ossa e corpo del martirio. È come se mi
potessi vedere, nonostante io non abbia uno specchio e non abbia più gli occhi.
Mi vedo come fossi un cucciolo di foca massacrato. Sangue vivido. Ma il
paesaggio su cui si staglia il mio supplizio non è di neve densa e bianca. Io
mi staglio su un nugolo di mosche, in mezzo ad una nebbia di polvere di pietre.
Eleonora,
non sento più niente. Eppure avverto il movimento leggero della macchina quando
qualcuno le passa vicino, quando un'altra vettura scorre via. Devono essere
sampietrini, qui vicino alle mie orecchie.
Mi
hanno riportato alla vita con una pistola e poi, credo, una mitragliatrice. Il
mio corpo è stato irriconoscente. Sotto la selva dei colpi si è fracassato. Mi
è scoppiato il cuore, Eleonora. E questa ora è la mia casa. Un luogo dove
inizio a sentire tutto il freddo che c'è nell'incontro fra onda e cielo.
Spero
qualcuno venga presto; io qui provo vergogna e non posso più gridare.
Iniziano
a tacere i pensieri, così come mi tace il cuore. Il formicolìo si è fatto
brivido.
Sento
rarefarsi la volontà che, in questi 55 giorni, mi è costato fatica mantenere.
Dieci
colpi, undici, non lo so. Non so più contare.
Meglio
che vada ora.
Ma
dico ancora una volta, ciò che in cuor mio andavo ripetendo già da via Fani:
venitemi a prendere. Eppure già vedo Punta Falasca con la sua alba più estrema.
Sono
libero Eleonora, ma quanta tristezza di uomo sto portando via con me.
di
Rebecca di Santo
Aldo Moro al mare con la famiglia, 1963 |
La Repubblica, Ore contate per Moro, 21 aprile 1978 |