In quanti modo possiamo coniugare l'egoismo?
A me interessa porre l'accento sull'egoismo nei rapporti interspecifici e
specificatamente a quella componente della condotta umana che ripiega
l'individuo su se stesso, escludendolo dal più vasto dialogo con la vita.
Questo ripiegamento, questa autoreferenzialità trova il suo culmine socio-culturale
nella figura dello scienziato, del politico, dell'esecutore del così si è sempre fatto; questo uomo particolare si riconosce come ricercatore disincarnato, come figura razionale in un mondo disordinato che,
come tale, viene considerato inservibile senza il suo intervento correttore.
Nella scienza l'egoismo e l'autoreferenzialità elevano l'azzardo della
frantumazione e della scomposizione della natura, a metodo e condotta. Da questa
via si costituisce una prassi di violazione dell'interezza e della compostezza
del cosmo. La violazione principale è fatta alla bellezza della articolata
reciprocità fra tutti gli elementi, quindi alla vita stessa.
La condizione principe dell'interpretazione egotista
è unidirezionale e, piuttosto che offrire impulso ad un soggetto che amplifichi la
sua conoscenza, ne rivela l'ottundimento, il misconoscimento dei limiti,
concorrendo alla formazione di un individuo grottesco e prepotente.
Questa forma di individualismo riposa sul
terreno della decontestualizzazione e della desacralizzazione dell'esistente, convergendo
verso ciò che è possibile chiamare depaganizzazione, ovvero lo smarrimento della
conoscenza diretta e personale dei luoghi, delle creature viventi, della loro
essenza.
In sintesi: lo smarrimento delle forme di comunicazione che si muovono
fra i regni animale, minerale e vegetale.
La rilevanza dell'educazione all'ecoismo -
ovvero al riconoscimento della più vasta rete di connessioni naturali nella
quale siamo compartecipi - deve essere percepita innanzitutto come necessità
dell'individuo che riconosce il disagio della convivenza attuale fra le
creature viventi. Un riconoscimento individuale del malessere culturale che
pecca di lacune nelle relazioni. Poiché tale conversione è impegnativa e
coinvolgente, non lascia spazio né nel quotidiano né nello straordinario a
tempi vuoti e sospesi. L'etica, in questo caso, non concede abbuoni.
Quindi condizione necessaria alla
trasformazione delle relazioni è la percezione del disagio, della condizione di
chiusura, qualora si consideri una gestione tutta umana della vita.
Sembrerebbe imprescindibile opporre alla
metodologia scientifica dell'intervento mirato e frantumato, la terapia di
un'inquietudine volta all'unità e alla libera espressione dell'esperienza.
Trapela così l'insorgere di un approccio
quasi-religioso poiché rivolto contemporaneamente all'immanenza e alla
trascendenza delle relazioni fra soggetti che possono giungere ad essere
denominati come sacri.
È necessaria la percezione del proprio
limite e dell'esistenza attivamente vincolante del cosmo dentro e attorno. In
tal modo l'ecologia può essere tradotta come esperienza sacra dell'unità, come
possibilità di riconoscere e mappare il cosmo, nel quale riconosciamo di
essere contenuti, per poter intraprendere una terapia globale, una terapia
panica che ci conduca al riconoscimento della codeterminazione reciproca.
Perché la necessità di nominare il sacro e
di rendere questo concetto come il contenitore di una rivoluzione laica? Perché, e come, utilizzare il sacro come chiave di lettura del rapporto individuo-natura, o meglio natura-cultura?
In termini antropologici la sacralità può
essere specificatamente riferita alle pratiche culturali, al fatto che queste
vengano considerate come esclusive e precisamente rispondenti a tutte le
necessità individuali e sociali, siano
esse d'ordine pratico o di ordine spirituale.
La conoscenza ed il confronto fra diversità
culturali appaiono come una desacralizzazione che mescola realtà di condotte e
stili diversi e autonomi, sciogliendo la norma della intoccabilità e della
incomunicabilità fra diversi credo.
Il paradosso è costituito proprio
dall'elemento di ricerca di una natura umana comune che vada a sciogliere e a lasciare comunicare le
differenze ma all'interno di una risacralizzazione più ampia. L'unità nuova che
viene riconosciuta supera le singole culture e riconosce una natura umana
necessariamente in rapporto con la natura, volta al riconoscimento della
complessità e non della autoreferenzialità.
Un ritorno al sacro come dialogo teso ad un
«impegno felicitante reciproco» (Pietro Maria Toesca) che impone un salto
logico ed esperienziale poiché se la singola unità è parte del gioco della
diversità e se questa diversità impone a sua volta il riconoscimento di una
unità allargata, l'orizzonte muta e l'individuo si ritrova al centro di nuove e
ampliate connessioni, nello spazio della mente naturale.
Decontestualizzare, frammentare e
distinguere permette sì di conoscere e di manipolare, ma rende poi molto arduo
ricostituire il percorso inverso. Questa pratica esige, fra l'altro,
un'alterazione dell'esperienza, una cosciente finzione che riduce la capacità
di partecipare agli eventi, esaltandone singole parti.
La scienza richiede un'esperienza limitata
alle specifiche protesi necessarie al suo operato - dal
telescopio al gene vivisezionato - ed
arriva a correggere ciò che noi percepiamo quotidianamente attraverso l'azione
concertata di sensi, emozioni, ricordi e progetti.
L'esperienza non-scientifica, ovvero ciò
che ogni individuo sente e vive nella totale autonomia dall'astrazione dei
diktat scientifici, è composta da molte altre variabili che vengono
obbligatoriamente escluse nel cosmo-laboratorio nel quale opera lo scienziato.
Variabili spesso irripetibili che vanno dal mito alla danza, dalla danza ad un
bagno nel mare, dal mare
all'abbraccio di una compagna, dall'abbraccio al fulmine
che illumina il silenzio del
nostro letto.
Poiché è impossibile ridurre la nostra
interpretazione del mondo ai soli termini con cui possiamo comunicarlo,
dobbiamo riconoscere nella cultura e nell'esperienza degli elementi che non
possono essere composti e veicolati attraverso il linguaggio e concedere a
questi ampio spazio.
È
possibile invitare a dialogare
con noi, anche in questo luogo, non
soltanto la componente
razionale, verbale ma quella più segreta e
arcaica. La parte connessa con il creato, che sia detta animale o sacra,
rettile o vertebrata.
In questa
direzione abbiamo delle ottime indagini anche in quella che può essere considerata
la cultura ufficiale, senza doverci
spaventare per pratiche troppo distanti dalla nostra quotidianità. Non è
necessario spingerci all'estremo per ritrovare la nostra essenza animale,
vegetale e minerale ma è anche impensabile rimanere comodamente seduti ad
osservare aspettando il sovvertimento del senso
comune.
Oltre la
componente individualista l'homo sapiens-sapiens vede muoversi
al suo interno altri
ominidi quali l'homo ludens, l'homo demens,
l'homo religiosus. In ognuno di questi sono attive dinamiche di accesso e di
dimestichezza con la curiosità, il gioco, l'inquietudine. Il gioco permette il
riconoscimento dei bisogni vitali ma anche il loro superamento attraverso una
alterazione dinamica della percezione e del coinvolgimento, poiché il gioco ha
bisogno di regole e tali regole modificano la realtà di chi vi partecipa.
La religiosità dell'homo sapiens è il più
totale riconoscimento dell'aderenza pagana all'essenza delle relazioni, all'unicità
perenne delle manifestazioni della
vita.
Infine la demenza rileva l'aspetto forse più
importante, quello della curiosità e della
consapevolezza dei limiti. Tale incompletezza è da considerarsi come la
spinta propulsiva per trasformare la limitatezza e i contrasti umani in
inventiva ed estro. Per dirla con le parole di Edgar Morin, trasmutare
l'«incompletezza definitiva» di sapiens-demens
in coscienza creativa. Da tale incertezza dell'esistenza nasce
l'auto-etica, l'etica che agevola i rapporti intersoggettivi fra umani e fra
saperi. Il passaggio successivo è costituito dalla considerazione dell'etica
interspecifica, riconoscendo diritto di comunicazione a quelle alterità che la
modernità aveva escluso dal dialogo fra soggetti, alterità
che peraltro non
cessano di raccontarsi
neanche quando siamo troppo
spaventati e pigri per ascoltarle.
Considerare che viviamo in un cosmo
composto di elementi nient'affatto neutrali che testimoniano la reciprocità
fondante la formazione della cultura, nulla di ciò che esiste indica omogeneità
qualora ci apprestiamo all'ascolto. Siamo immersi in una sovrabbondanza di
elementi il cui equilibrio vivo e irrequieto invita al rispetto e alla dinamica
variazione di simboli e relazioni.
L'etica si allarga qui ad una sacralità
laica, intesa come accesso ad un luogo comune non più unico ed appartato. Sacro
come luogo della condivisione e perciò del coinvolgimento e delle
responsabilità.
Immerso in tale prospettiva l'individuo
perde il suo senso di solitudine e di ripiegamento autarchico per trovarsi al
centro rutilante delle connessioni vitali.
I conigli hanno calpestato ovunque la neve.
Ovunque continuano a spostarsi come quest'onda di cuore
che raggiunge il fiato nell'erba e le
colline.
La pazienza del deserto composto da
costellazioni fitte di sabbia
granelli di vastità distese e dune.
La pazienza del mutamento
dinanzi all'interezza.
Noi in continua lotta
scomoda compostezza
di mente e corpo
opposti come sconosciuti.
Siamo della
stessa sostanza delle tracce sulla neve.
Siamo lo stesso rumore dei piedi
a frantumare
il ghiaccio.
E i granelli di quel deserto sono ora sospinti dallo stesso
vento.
Solo raramente ci riconosciamo fluenti,
placate onde a rovesciarsi in spuma.
Allora apparteniamo.
Rebecca Di Santo
Ogni ceppo è sacro.
Ogni ceppo un santo.
Ogni fiume ghiaioso una chiesa dove il
salmone pellegrino tornerà.
Ogni alito di vento una poesia d'amore.
Noi
preghiamo nelle paludi,
ci inchiniamo alla felce, al sasso,
alla santa salamandra, al sangue dell'acqua
dolce, al corpo del muschio.
Gary Lawless
foto di Elena Usdin
di Diggie Vitt |
di Diggie Vitt |
Nessun commento:
Posta un commento