Aveva
graffiato le pareti con rabbia estrema, pur avendo orrore di quell'odore acido sotto le unghie.
La
vernice scrostata faceva pensare al ferro, puzzava di ruggine.
Emanuela sentì gemere quelli che dovevano essere dei bulloni a sostegno della
struttura nella quale era rinchiusa.
La
nausea le dava la sensazione di avere lo stomaco cotto, con una consistenza
simile alla lana infeltrita che la nonna aveva estratto una volta dai cuscini
della casa di campagna. Sentiva la pancia come una borsa vecchia e bagnata. Le
gengive erano gonfie e la lingua picchiettata da bollicine dolenti.
Si
era ritrovata a vomitare tante di quelle volte da quando quel prete l’aveva
presa.
Dopo il pianto e i singhiozzi aveva scoperto che il vomito era un modo
eccellente per perdere conoscenza, per svenire e smetterla di sentire la paura.
Non
mangiava quasi nulla, così vomitare riusciva a sfinirla.
Poteva bere tanta acqua, gliene
davano in quantità. Acqua liscia, dentro bottiglie di vetro che le lasciavano a
terra, sotto una minuscola finestra che dava alla stanza un minimo di luce,
l’unica a disposizione.
Almeno
questo era stato nei primi giorni. Poi si era generata in lei una grande
confusione ed era iniziata la fase dei lunghi mancamenti, della perdita di
conoscenza e, forse, del delirio.
Non
appena si svegliava si presentava il peggio da cui voleva di nuovo fuggire.
Nonostante la giovane età sapeva che vivere così l’avrebbe portata alla morte
in poco tempo, ma quel tempo le sembrava infinito, il dolore le pulsava fin dentro l’anima, era così intenso da farle provare terrore
di esserci ancora, ancora viva a un nuovo risveglio.
La
mamma l’aveva salutata, questo lo ricordava sempre, sia negli sprazzi di
lucidità che nel dormiveglia malato.
«Emanuela,
ricordati che passo da Gisella, non troverai nessuno a casa quando torni...»
Che
parole inutili da farsi rimbalzare in testa.
Le immagini però rimangono come lame affilate nel caldo del suo cuore.
Mentre la mamma le parlava,
Emanuela aveva allungato la mano a prendere la custodia col flauto e si era
voltata. La madre sporgeva dalla porta del suo studio, con la testa di ricci
rossi e la spalla, e un braccio, e una mano, illuminata da un riflesso così
chiaro da far apparire quel ricordo già pronto per la malinconia. Una tale
bellezza sporgeva, con naturalezza, da quella porta.
Emanuela si era voltata, non
ricordava più che parole avesse detto, ed era uscita.
Le
scale, la strada, la lezione, un gelato e poi la chiesa.
Si
perdeva a pregare nella vastità della basilica, una sensazione talmente
forte quella che provava che solo raramente vi metteva piede. Sebbene la
cappella laterale contenesse il mosaico di Cristo Pantocratore, così arrabbiato
e duro, era proprio quello il luogo in cui andava a inginocchiarsi. A godersi
la sua fetta di torta di Dio. Così l’aveva sempre pensata.
E
proprio sotto gli occhi di quel Cristo si era voltata, attratta da un passo dal
ritmo spezzato. Un prete tozzo e pelato si avvicinava. Abito nero e il viso
sfigurato da una vasta cicatrice. Emanuela ne aveva viste di simili solo in
qualche film e mai portavano una buona storia. La pelle lucida e violacea
nascondeva sempre qualcosa di tremendo e, in più, quel povero prete zoppicava.
–
Chissà se a pensare male di un prete si commette peccato! – questo si era chiesta,
tornando a pregare. Il prete intanto si era poggiato sul marmo appena finite le
scale della cappella, fra la cappella stessa e l’ingresso al chiostro.
La
ragazza in piedi, riprese il suo flauto e si diresse verso l’uscita. Lo sguardo
del prete era di traverso, teneva la mano sulla bocca forse per coprire parte
della smorfia che la cicatrice gli cuciva sul volto. Aveva degli occhi
chiarissimi ma cupi, da pazzo.
Intanto la basilica si era abbigliata per la sera.
Vestiva candele, lungo le navate, e incensi.
Dal ciborio proveniva il suono del parroco
che si dedicava alle ostie. Suono di oro generato dalla pisside che toccava le
pareti del tabernacolo.
Il pensiero del corpo di Cristo così vicino la
rassicurava un poco, ma i suoi passi erano comunque attratti verso la fuga.
Ciò
che era riuscita a notare, ed è l’ultimo ricordo di qualcosa di normale, anche
se già mostruoso, fu un movimento repentino del prete. Il suo torcersi
verso di lei e allungare un braccio, liberando completamente il volto dalla
copertura della mano. Lo stupore e il tentativo di non guardare proprio verso
il punto in cui la pelle si faceva tesa e scura la distrassero.
Il prete le
prese un polso, torcendoglielo, e le tappò la bocca.
Non poté urlare e, nonostante mordesse, il prete sembrava non sentire il minimo fastidio.
La
condusse alla porta del chiostro e la trascinò dentro una
stanzetta e, da quella, in una serie di corridoi che si facevano
sempre più stretti.
Finché
entrò con lei in quello che era un luogo molto umido.
Emanuela sapeva qualcosa
dell’odore di muffa, grazie alla cantina in cui il nonno aveva accantonato gran
parte della sua vita: c’era la muffa dei giornaletti, la muffa del legno, la
muffa degli angoli dove misteriosa acqua colava dai muri.
Per questo comprese
che in quella stanza, quasi completamente buia, c’era muffa.
L’odore quasi le
bagnò il naso.
Proprio
mentre si voltava verso la porta, la vide chiudersi.
E
da allora le urla non esistono più, solo vomito e acqua.
Poi, dopo un numero di giorni che la ragazza non ha saputo contare, era stata
portata via con un cappuccio sulla testa. Anche durante il viaggio aveva
perso i sensi e si era risvegliata in quel contenitore illuminato da una
piccola luce artificiale alla parete, sopra una porticina borchiata.
L’odore non
era più di muffa ma di sale e ferro.
Nel
poco senso che riusciva a rintracciare in tutto quello che le stava avvenendo, si fece spazio un’unica convinzione: quell'uomo era l’incarnazione del Cristo
Pantocratore, lei lo aveva dileggiato, ne aveva pensato male e per questo era
stata punita.
La rabbia del Dio dallo sguardo attento aveva preteso che le
venisse rubato il corpo per punirle l’anima.
Durante
quel viaggio, poiché la camera in cui era racchiusa era nella stiva di una
grande nave, Emanuela si era pentita molte volte.
Aveva bevuto e rimesso. Aveva
mangiato come una bestia il raro cibo che le lanciavano a terra aprendo
velocemente la porta.
Finché
Dio l’aveva riaccolta nel suo seno.
Così
pietoso Dio da non farle neanche comprendere se fosse quella una morte o
un’assunzione in cielo.
Rebecca
chiedo scusa se mi sono permessa di narrare di Emanuela Orlandi, chiedo scusa a lei e alla sua famiglia.
ma avevo 13 anni in quell'estate, erano le prime volte in cui uscivo da sola per stare con le mie amiche e ricordo la mia città, Roma, tappezzate del suo volto.
ragazzina come me, lei non è più tornata.