martedì 8 novembre 2016

Emanuela. di Rebecca di Santo

Aveva graffiato le pareti con rabbia estrema, pur avendo orrore di quell'odore acido sotto le unghie.
La vernice scrostata faceva pensare al ferro, puzzava di ruggine. 
Emanuela sentì gemere quelli che dovevano essere dei bulloni a sostegno della struttura nella quale era rinchiusa. 
La nausea le dava la sensazione di avere lo stomaco cotto, con una consistenza simile alla lana infeltrita che la nonna aveva estratto una volta dai cuscini della casa di campagna. Sentiva la pancia come una borsa vecchia e bagnata. Le gengive erano gonfie e la lingua picchiettata da bollicine dolenti.


Si era ritrovata a vomitare tante di quelle volte da quando quel prete l’aveva presa. 
Dopo il pianto e i singhiozzi aveva scoperto che il vomito era un modo eccellente per perdere conoscenza, per svenire e smetterla di sentire la paura.
Non mangiava quasi nulla, così vomitare riusciva a sfinirla. 
Poteva bere tanta acqua, gliene davano in quantità. Acqua liscia, dentro bottiglie di vetro che le lasciavano a terra, sotto una minuscola finestra che dava alla stanza un minimo di luce, l’unica a disposizione.
Almeno questo era stato nei primi giorni. Poi si era generata in lei una grande confusione ed era iniziata la fase dei lunghi mancamenti, della perdita di conoscenza e, forse, del delirio.
Non appena si svegliava si presentava il peggio da cui voleva di nuovo fuggire. Nonostante la giovane età sapeva che vivere così l’avrebbe portata alla morte in poco tempo, ma quel tempo le sembrava infinito, il dolore le pulsava fin dentro l’anima, era così intenso da farle provare terrore di esserci ancora, ancora viva a un nuovo risveglio.
La mamma l’aveva salutata, questo lo ricordava sempre, sia negli sprazzi di lucidità che nel dormiveglia malato.
«Emanuela, ricordati che passo da Gisella, non troverai nessuno a casa quando torni...»
Che parole inutili da farsi rimbalzare in testa. 
Le immagini però rimangono come lame affilate nel caldo del suo cuore. 
Mentre la mamma le parlava, Emanuela aveva allungato la mano a prendere la custodia col flauto e si era voltata. La madre sporgeva dalla porta del suo studio, con la testa di ricci rossi e la spalla, e un braccio, e una mano, illuminata da un riflesso così chiaro da far apparire quel ricordo già pronto per la malinconia. Una tale bellezza sporgeva, con naturalezza, da quella porta. 
Emanuela si era voltata, non ricordava più che parole avesse detto, ed era uscita.
Le scale, la strada, la lezione, un gelato e poi la chiesa.
Si perdeva a pregare nella vastità della basilica, una sensazione talmente forte quella che provava che solo raramente vi metteva piede. Sebbene la cappella laterale contenesse il mosaico di Cristo Pantocratore, così arrabbiato e duro, era proprio quello il luogo in cui andava a inginocchiarsi. A godersi la sua fetta di torta di Dio. Così l’aveva sempre pensata.
E proprio sotto gli occhi di quel Cristo si era voltata, attratta da un passo dal ritmo spezzato. Un prete tozzo e pelato si avvicinava. Abito nero e il viso sfigurato da una vasta cicatrice. Emanuela ne aveva viste di simili solo in qualche film e mai portavano una buona storia. La pelle lucida e violacea nascondeva sempre qualcosa di tremendo e, in più, quel povero prete zoppicava.
– Chissà se a pensare male di un prete si commette peccato! – questo si era chiesta, tornando a pregare. Il prete intanto si era poggiato sul marmo appena finite le scale della cappella, fra la cappella stessa e l’ingresso al chiostro.
La ragazza in piedi, riprese il suo flauto e si diresse verso l’uscita. Lo sguardo del prete era di traverso, teneva la mano sulla bocca forse per coprire parte della smorfia che la cicatrice gli cuciva sul volto. Aveva degli occhi chiarissimi ma cupi, da pazzo. 
Intanto la basilica si era abbigliata per la sera. 
Vestiva candele, lungo le navate, e incensi. 
Dal ciborio proveniva il suono del parroco che si dedicava alle ostie. Suono di oro generato dalla pisside che toccava le pareti del tabernacolo. 
Il pensiero del corpo di Cristo così vicino la rassicurava un poco, ma i suoi passi erano comunque attratti verso la fuga.
Ciò che era riuscita a notare, ed è l’ultimo ricordo di qualcosa di normale, anche se già mostruoso, fu un movimento repentino del prete. Il suo torcersi verso di lei e allungare un braccio, liberando completamente il volto dalla copertura della mano. Lo stupore e il tentativo di non guardare proprio verso il punto in cui la pelle si faceva tesa e scura la distrassero. 
Il prete le prese un polso, torcendoglielo, e le tappò la bocca. 
Non poté urlare e, nonostante mordesse, il prete sembrava non sentire il minimo fastidio.
La condusse alla porta del chiostro e la trascinò dentro una stanzetta e, da quella, in una serie di corridoi che si facevano sempre più stretti.
Finché entrò con lei in quello che era un luogo molto umido. 
Emanuela sapeva qualcosa dell’odore di muffa, grazie alla cantina in cui il nonno aveva accantonato gran parte della sua vita: c’era la muffa dei giornaletti, la muffa del legno, la muffa degli angoli dove misteriosa acqua colava dai muri. 
Per questo comprese che in quella stanza, quasi completamente buia, c’era muffa. 
L’odore quasi le bagnò il naso.
Proprio mentre si voltava verso la porta, la vide chiudersi.
E da allora le urla non esistono più, solo vomito e acqua.

Poi, dopo un numero di giorni che la ragazza non ha saputo contare, era stata portata via con un cappuccio sulla testa. Anche durante il viaggio aveva perso i sensi e si era risvegliata in quel contenitore illuminato da una piccola luce artificiale alla parete, sopra una porticina borchiata. 
L’odore non era più di muffa ma di sale e ferro.
Nel poco senso che riusciva a rintracciare in tutto quello che le stava avvenendo, si fece spazio un’unica convinzione: quell'uomo era l’incarnazione del Cristo Pantocratore, lei lo aveva dileggiato, ne aveva pensato male e per questo era stata punita. 
La rabbia del Dio dallo sguardo attento aveva preteso che le venisse rubato il corpo per punirle l’anima.

Durante quel viaggio, poiché la camera in cui era racchiusa era nella stiva di una grande nave, Emanuela si era pentita molte volte. 
Aveva bevuto e rimesso. Aveva mangiato come una bestia il raro cibo che le lanciavano a terra aprendo velocemente la porta.
Finché Dio l’aveva riaccolta nel suo seno.
Così pietoso Dio da non farle neanche comprendere se fosse quella una morte o un’assunzione in cielo.


Rebecca

chiedo scusa se mi sono permessa di narrare di Emanuela Orlandi, chiedo scusa a lei e alla sua famiglia.
ma avevo 13 anni in quell'estate, erano le prime volte in cui uscivo da sola per stare con le mie amiche e ricordo la mia città, Roma, tappezzate del suo volto.
ragazzina come me, lei non è più tornata.


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