martedì 5 settembre 2017

Quanto dura uno stupro? di Rebecca di Santo

Quello che segue è il suono struggente e rabbioso di una storia di ragazzi, la storia è vista da due punti di vista:

una ragazza vittima di stupro e il padre dello stupratore.

Racconta direttamente la ragazza che la notte tra il 17 e il 18 di gennaio del 2015 ha subito lo stupro mentre era priva di sensi, ubriaca.

E poi racconta un uomo, il padre dello stupratore, che pur di mondare il passato, il presente e il futuro di suo figlio, rimuove completamente il danno che suo figlio ha arrecato, rimuove il valore in sé dell'esistenza altrui - proprio come ha fatto il figlio nella notte fra il 17 e il 18 gennaio del 2015 -.

Quest'uomo si domanda, e domanda alla giustizia, come suo figlio possa sopportare una vita di patimenti per un fatto che è durante solo 20 minuti.

Questo il tempo stimato per rovinare due vite.


La ragazza che Brock Allen Turner ha stuprato, diviene consapevole della violenza solo il giorno dopo.

Lo ricostruisce pezzo per pezzo attraverso i segni del corpo, le parole degli infermieri e del dottore, attraverso gli aghi di pino fra i capelli, attraverso i giornali che le raccontano ciò che ha subito.

La ragazza ha scritto un memoriale, delicatissimo, lucido e dolente.
Come è avvenuto e come per tutto il tempo del processo la violenza sia stata ripetuta.

Racconta il suo modo di cercare di costruirsi e ricostruirsi, il modo di stare dietro alle menzogne del coetaneo che le ha usato violenza.

Fino ad arrivare a riannodare tutti i fili in una dichiarazione che solo un'anima che sta viaggiando profondamente può fare. La ragazza arriva a dire che il percorso che lei sta facendo è lo stesso che Brock Allen Turner dovrebbe fare per ritrovare il futuro.

Ebbene, la condanna per questo ragazzo poteva arrivare a 14 anni, invece la sentenza è stata di 6 mesi di reclusione, 3 in carcere e 3 in casa.

La pena che invece la legge non potrà mai depennare è quella dell'iscrizione di Brock al registro dei reati sessuali.

Il resto della storia lo troverete nelle parole di questa ragazza.

Difficili da leggere.

E nelle parole di Dan Turner.

Se le prime meritano rispetto, le secondo meritano che gli uomini facciano un esame profondo nella loro coscienza e nella loro cultura di esseri umani.






















Dichiarazione alla Corte di XXX

Vostro Onore,

Se me lo permette, vorrei rivolgermi direttamente all’imputato per la maggior parte di questa dichiarazione.

Tu non mi conosci, ma sei stato dentro di me, ed è per questo che oggi siamo qui. Il 17 gennaio 2015 stavo passando una serata tranquilla a casa. Mio padre aveva preparato la cena ed ero a tavola con mia sorella più piccola, che era tornata per il fine settimana. Avevo un lavoro full-time ed era quasi ora di andare a letto. Il mio programma era rimanermene a casa da sola, guardare un po’ di TV e leggere, mentre mia sorella sarebbe andata a una festa con i suoi amici. Poi, però, decisi che era l’unica serata che potevo passare con lei, non avevo niente di meglio da fare, e quindi perché no? C’era una festa a dieci minuti da casa mia, sarei andata, avrei ballato come una scema e messo in imbarazzo la mia sorellina. Mentre andavamo, le dissi scherzando che gli studenti avrebbero avuto l’apparecchio, e lei mi prese in giro perché mi ero messa un cardigan beige per andare a una festa di una confraternita e sembravo una bibliotecaria. Scherzai dicendo che sarei stata “la mamma”, perché sapevo che sarei stata la più vecchia. Alla festa mi misi a ballare facendo le facce stupide, abbassai la guardia e bevvi troppo velocemente, non tenendo conto del fatto che reggevo l’alcol molto meno rispetto a quando andavo al college.

Dopodiché, la prima cosa che mi ricordo è di essermi risvegliata sopra una barella in un corridoio, con del sangue secco e delle bende sul dorso delle mani e sul gomito. Pensai che forse ero caduta e ora mi trovavo nell’ufficio del responsabile del campus. Ero calma e mi chiedevo dove fosse mia sorella. Un agente mi disse che ero stata violentata. Mantenni la calma, convinta che stesse parlando con la persona sbagliata: non conoscevo nessuno a quella festa. Quando finalmente mi lasciarono andare in bagno, mi abbassai i pantaloni che mi avevano dato in ospedale, feci per abbassarmi le mutande e non sentii niente. Ricordo ancora la sensazione che provai quando le mie mani toccarono la pelle, non trovando niente. Guardai in basso e vidi che non c’era niente. Quel sottile strato di tessuto, l’unica cosa tra la mia vagina e qualsiasi altra cosa, non c’era, e dentro me cadde il silenzio. Non ho ancora parole per descrivere quella sensazione. Per continuare a respirare, pensai che forse dei poliziotti le avessero tagliate con le forbici per usarle come prova. Poi, sentii degli aghi di pino che mi graffiavano dietro al collo, e iniziai a togliermene altri dai capelli. Pensai che forse gli aghi erano caduti da un albero, finendomi in testa. Il mio cervello stava parlando alla mia pancia per non farmi crollare. Perché quello che la mia pancia stava dicendo era aiutatemi, aiutatemi.

Mi trascinai di stanza in stanza avvolta da una coperta, lasciandomi dietro una scia di aghi di pino e formandone un mucchietto in ogni stanza in cui passavo. Mi chiesero di firmare documenti in cui c’era scritto «Vittima di stupro», e lì pensai che fosse davvero successo qualcosa. Mi avevano requisito i vestiti ed ero nuda, mentre le infermiere misuravano le diverse abrasioni sul mio corpo con un righello e le fotografavano. Con le due infermiere mi pettinai i capelli per togliermi gli aghi di pino, sei mani al lavoro per riempirne un sacchetto. Per calmarmi, mi dissero che era soltanto flora e fauna, flora e fauna. Mi inserirono diversi tamponi nella vagina e nell’ano, mi fecero delle iniezioni, mi diedero delle pastiglie, e c’era una macchina fotografica puntata in mezzo alle mie gambe divaricate. Inserirono dentro di me dei lunghi beccucci appuntiti e versarono nella mia vagina una specie di vernice blu e fredda per controllare se ci fossero abrasioni. Dopo qualche ora passata in questo modo mi lasciarono fare una doccia. Esaminai il mio corpo sotto il getto di acqua e decisi che non lo volevo più. Mi terrorizzava, non sapevo cosa ci fosse entrato, se era stato contaminato, chi l’avesse toccato. Volevo togliermi il mio corpo come se fosse una giacca e lasciarlo in ospedale insieme a tutto il resto.

Quella mattina, le uniche cose che mi dissero furono che ero stata trovata dietro a un cassonetto, che forse ero stata penetrata da uno sconosciuto e che avrei dovuto rifare il test per l’HIV perché non sempre i risultati sono corretti da subito. Per il momento, però, sarei dovuta andare a casa e tornare alla mia vita di sempre. Immaginatevi cosa significhi dover tornare nel mondo avendo soltanto queste informazioni. Mi diedero dei grandi abbracci e io uscì dall’ospedale per andare verso il parcheggio, con addosso la nuova felpa e i pantaloni della tuta che mi avevano dato, visto che mi avevano fatto tenere solo la mia collana e le scarpe. Mi venne a prendere mia sorella. La sua faccia era bagnata dalle lacrime e deformata dall’angoscia. Istintivamente, ebbi subito il desiderio di farla smettere di soffrire. Le sorrisi e le dissi di guardarmi: ero lì e stavo bene, andava tutto bene, ero lì con lei; avevo lavato i capelli, in ospedale mi avevano dato uno shampoo stranissimo, doveva calmarsi, e guardarmi; guardare questi strani pantaloni della tuta e questa felpa, sembravo una professoressa di educazione fisica; ora dovevamo andare a casa e mangiare qualcosa. Non sapeva che sotto i pantaloni, sulla mia pelle, c’erano graffi e bende, che la mia vagina mi faceva male e aveva preso uno strano colore scuro per via di tutti gli esami, che non avevo le mutande e che mi sentivo troppo svuotata per continuare a parlare. Che avevo paura, e che ero distrutta.

Quel giorno tornammo a casa e mia sorella mi abbracciò per ore. Il mio ragazzo non sapeva cos’era successo, ma quel giorno mi chiamò e mi disse: «Ieri sera mi sono preoccupato molto, mi hai spaventato, sei riuscita a tornare a casa tranquilla?». Ero terrorizzata. In quel momento scoprii che quella notte l’avevo chiamato durante il mio blackout, che gli avevo lasciato un messaggio incomprensibile in segreteria, e che avevamo anche parlato al telefono, ma che biascicavo così tanto da averlo fatto spaventare, e che mi aveva detto più volte di andare a cercare mia sorella. Me lo chiese di nuovo: «Cosa è successo ieri sera? Sei riuscita a tornare a casa tranquilla?». Gli dissi di sì, poi riattaccai e cominciai a piangere.

Non ero pronta a raccontare al mio ragazzo o ai miei genitori che forse mi avevano stuprata dietro un cassonetto, ma che non sapevo chi fosse stato, né quando o come fosse successo. Se glielo avessi raccontato, avrei visto la paura sulle loro facce, che avrebbe fatto moltiplicare la mia di dieci volte. Quindi finsi che non fosse vero. Cercai di spingere il pensiero fuori dalla mia testa, ma era così pesante che non riuscii a parlare, mangiare, dormire, né interagire con nessuno. Dopo il lavoro, prendevo la macchina per andare in qualche posto isolato e urlare. Non parlavo, non mangiavo, non dormivo, e non interagivo con nessuno, e mi isolai dalle persone a cui volevo più bene. Per una settimana nessuno mi chiamò o mi diede aggiornamenti su quello notte o su cosa mi era successo. L’unica cosa che dimostrava che non era stato solo un brutto sogno era la felpa dell’ospedale nel mio cassetto. Un giorno al lavoro mentre scorrevo le notizie sul mio telefono, capitai su un articolo. Leggendolo, venni a sapere per la prima volta che ero stata trovata svenuta, con i capelli arruffati, la mia lunga collana attorcigliata intorno al collo, il reggiseno fuori dal vestito, il vestito tirato su dalla vita fin sopra alle spalle, che ero completamente nuda fino agli stivali, con le gambe divaricate, e che ero stata penetrata da un corpo estraneo da una persona che non riconobbi. Questo fu il modo in cui scoprii cosa mi era successo, seduta alla mia scrivania mentre leggevo le notizie al lavoro. Scoprii cosa mi era successo nello stesso momento il cui lo scoprì il resto del mondo. In quel momento capii perché avevo degli aghi di pino tra i capelli: non erano caduti da un albero. Mi aveva tolto le mutande e le sue dita erano state dentro di me. Non la conoscevo nemmeno questa persona. Non la conosco ancora oggi. Quando lessi di come mi avevano trovata, mi dissi che non potevo essere io. Non potevo essere io. Non potevo elaborare né accettare nessuna di quelle informazioni. Non potevo pensare che la mia famiglia avrebbe dovuto scoprirlo da Internet. Continuai a leggere. Nel paragrafo dopo, lessi una cosa che non perdonerò mai. Che secondo lui mi era piaciuto. Mi era piaciuto. Non ho davvero parole per descrivere cosa provai.

È come se leggeste in un articolo su un’auto trovata ammaccata in un fosso che magari alla macchina era piaciuto. Che forse l’altra macchina non aveva intenzione di speronarla, solo di darle un colpetto. Le auto fanno incidenti tutti i giorni, le persone non ci badano, possiamo davvero dire di chi sia la colpa?

Verso la fine dell’articolo – dopo aver letto i dettagli espliciti della violenza sessuale che avevo subito – l’articolo parlava del periodo in cui faceva nuoto. “Quando l’hanno trovata respirava ma non reagiva, le sue mutande erano a 15 centimetri dal suo ventre nudo, ed era in posizione fetale”. E comunque, lui è un ottimo nuotatore. Già che ci siamo, metteteci anche in quanto tempo corro un chilometro. Sono brava a cucinare, scrivete anche questo. Immagino che la fine degli articoli sia il punto in cui si parla delle capacità extracurriculari, per cancellare tutte le cose nauseanti che sono state raccontate sopra.

La sera in cui uscì la notizia feci sedere i miei genitori e raccontai loro che ero stata violentata, dissi loro di non guardare il telegiornale perché era una cosa impressionante, e che la cosa importante era che stavo bene, ero lì con loro e stavo bene. Ma mentre parlavo mia mamma dovette sorreggermi perché non riuscivo più a stare in piedi. Non stavo bene.

La notte dopo avermi violentata, disse che non sapeva come mi chiamassi e che non sarebbe stato in grado di riconoscere la mia faccia. Ha detto che quella sera non avevamo parlato, nessuna parola, avevamo solo ballato e ci eravamo baciati. “Ballato” è un termine carino. Schioccavamo le dita e facevamo delle giravolte, o erano solo dei corpi che si strofinavano in una stanza piena di gente?  Mi chiedo se “baciarsi” non sia stato solo premere sciattamente le nostre facce una contro l’altra. Quando l’investigatore gli chiese se avesse avuto intenzione di portarmi in camera sua, disse di no. E quando gli chiese come eravamo finiti dietro il cassonetto, disse che non lo sapeva. Ammise di aver baciato altre ragazze a quella festa, tra cui mia sorella, che lo respinse. Ammise che voleva fare sesso con qualcuno. Io ero l’antilope ferita del branco, completamente sola e vulnerabile, fisicamente incapace di cavarmela da sola, e per questo scelse me.  A volte penso che se non fossi andata alla festa, tutto questo non sarebbe mai successo. Ma poi ho capito che invece sarebbe successo comunque, semplicemente a qualcun altro. Eri all’inizio di quattro anni di università in cui avresti incontrato ragazze ubriache e feste, e se questo è stato il tuo modo di cominciare, allora è meglio che tu non abbia continuato. La notte dopo avermi violentata, disse che pensava che mi stesse piacendo perché gli avevo passato la mano sulla schiena. Una mano sulla schiena. Non ha mai detto che gli avevo dato il mio consenso, o che avevamo parlato. Una mano sulla schiena. Ancora una volta grazie ai giornali scoprii che il mio culo e la mia vagina erano completamente scoperti, che i miei seni erano stati palpati, e che dentro di me erano state infilate dita, insieme ad aghi di pino e sporcizia, che la mia pelle nuda e la mia testa strisciavano a terra dietro un cassonetto, mentre uno studente del primo anno in erezione scopava con il mio corpo mezzo nudo e senza conoscenza. Però non me lo ricordo, quindi come faccio a dimostrare che non mi è piaciuto?

Pensavo che non ci sarebbe mai stato un processo. C’erano dei testimoni, nel mio corpo c’era della terra; lui era scappato, ma l’avevano preso. Cercherà di patteggiare, si scuserà formalmente, e tutti e due andremo avanti. Invece, mi dissero che aveva assunto un avvocato importante, dei periti, e degli investigatori privati che avrebbero cercato dettagli della mia vita privata da poter usare contro di me, delle falle nella mia storia per smentire me e mia sorella, per dimostrare che questa storia della violenza sessuale era in realtà un malinteso. Che avrebbe fatto di tutto per convincere il mondo che era semplicemente poco lucido. Non mi dissero solo che avevo subito una violenza, ma anche che visto che non riuscivo a ricordare, tecnicamente non potevo dimostrare che non fossi consenziente. Questo ha dato un’immagine distorta di me, mi ha danneggiato, e mi ha quasi distrutto. Sentirsi dire che ero stata aggredita e stuprata, all’aperto in modo così sfacciato, ma che ancora non era chiaro se avrebbe contato come violenza, mi fece provare la peggior sensazione di confusione. Ho dovuto lottare per un anno intero per far capire che c’era qualcosa di sbagliato in questa situazione.

Quando mi fu detto di prepararmi alla possibilità che non avremmo vinto, dissi che non potevo prepararmi a una cosa del genere. È stato colpevole fin dal momento in cui mi sono svegliata. Nessuno può eliminare a parole il dolore che mi ha causato. La cosa peggiore di tutte fu quando mi avvertirono che lui avrebbe deciso come erano andate le cose, perché ora sapeva che non mi ricordavo niente. Avrebbe potuto dire quello che voleva, e nessuno avrebbe potuto contestare niente. Ero impotente, non avevo voce in capitolo, ero indifesa. La mia perdita di memoria sarebbe stata usata contro di me. La mia testimonianza era debole e incompleta, e mi fu fatto credere che forse non era abbastanza per vincere questa causa. Fa davvero male. Il suo avvocato ha continuato a ricordare alla giuria che l’unica persona a cui possiamo credere è Brock, perché lei non si ricorda. Questa sensazione di impotenza fu un trauma.

Invece di prendermi il tempo di guarire, passavo il tempo cercando di ricordare quella notte nei suoi dettagli strazianti, in modo da prepararmi alle domande del suo avvocato, che sarebbero state invasive, aggressive, e pensate per mandarmi fuori strada, per far contraddire me e mia sorella, e formulate in modo da manipolare le mie risposte. Al posto di dirmi Hai notato abrasioni?, il suo avvocato diceva Non hai notato abrasioni, vero? Era un gioco di strategia, come se fosse possibile portare via il mio valore con l’inganno. Anche se la violenza sessuale era stata evidente, ero a processo, a dover rispondere a domande come queste:

Quanti anni ha? Quanto pesa? Cosa aveva mangiato quel giorno? E cosa aveva mangiato a cena? Chi aveva preparato la cena? Aveva bevuto a cena? Nemmeno dell’acqua? Quando bevve? Quanto bevve? Da che contenitore bevve? Chi le diede da bere? Quanto beve di solito? Chi l’aveva portata alla festa? A che ora? Ma dove, esattamente? Come era vestita? Perché era andata a quella festa? Cosa fece quando arrivò? È sicura di averlo fatto? Ma a che ora lo fece? Cosa significa questo messaggio? A chi stava scrivendo? Quando urinò? Dove urinò? Con chi andò a urinare fuori? Il suo telefono era impostato sul silenzioso quando chiamò sua sorella? Si ricorda di aver inserito il silenzioso? Vorrei far notare che a pagina 53 aveva detto che la suoneria era inserita. Beveva all’università? Ha detto che era un “animale da festa”? Quante volte le è capitato di svenire? Frequentava le feste delle confraternite? Con il suo ragazzo è una cosa seria? È sessualmente attiva con lui? Quando avete iniziato a uscire? Lo tradirebbe mai? Ha tradito in passato? Cosa intendeva quando ha detto che lo voleva premiare? Si ricorda a che ora si svegliò? Indossava il suo cardigan? Di che colore era il suo cardigan? Ricorda qualcos’altro di quella notte? No? D’accordo, lasceremo che sia Brock a dircelo.

Fui colpita da una raffica di domande circoscritte e mirate che hanno dissezionato la mia vita privata, la mia vita sentimentale, la mia vita passata, e quella familiare. Domande stupide, che avevano lo scopo di accumulare dettagli irrilevanti e cercare una scusa per il tizio che non aveva nemmeno perso il tempo di chiedermi come mi chiamavo, che mi aveva spogliata qualche minuto dopo avermi vista per la prima volta. Dopo essere stata aggredita fisicamente, fui aggredita con delle domande pensate per attaccarmi, in modo da poter dire: vedete? La sua versione non torna, è fuori di testa, praticamente è un’alcolizzata, probabilmente voleva fare sesso, lui è un atleta, erano entrambi ubriachi, le cose che ricorda dell’ospedale sono successe dopo il fatto, perché prenderle in considerazione? Brock si gioca molto e sta passando davvero un brutto periodo in questo momento.

Poi arrivò il momento della sua testimonianza, e tornai a essere una vittima. Voglio ricordarvi che dopo quella notte aveva detto di non aver mai avuto intenzione di portarmi in camera sua. Aveva detto che non sapeva perché eravamo dietro un cassonetto. Che si era alzato e se ne era andato perché non si sentiva bene, quando all’improvviso era stato inseguito e attaccato. Poi scoprì che non mi ricordavo niente. Così un anno dopo, come previsto, saltò fuori una nuova storia. Brock aveva una nuova, strana versione che sembrava un romanzo per adolescenti scritto male in cui c’erano baci, si ballava, ci si teneva la mano e si cadeva romanticamente per terra. La cosa più importante, però, è che nella nuova storia all’improvviso c’era il consenso. Un anno dopo il fatto, si era ricordato che, sì, comunque lei aveva detto sì, era d’accordo su tutto. Raccontò che mi aveva chiesto se volevo ballare. A quanto pare, gli dissi di sì. Mi aveva chiesto se volevo andare nel suo dormitorio, e io avevo detto di sì. Poi mi aveva chiesto se poteva penetrarmi con le dita, e io dissi di sì. La maggior parte dei ragazzi non chiede posso penetrarti con le dita? Di solito le cose succedono gradualmente, in modo naturale e consensuale, non è una sessione di domande e risposte. Ma a quanto pare, io gli avevo dato il permesso di fare tutto. Era innocente. Anche nella sua versione della storia io ho detto soltanto tre parole in totale prima di ritrovarmi mezza nuda per terra, sì sì sì. Per il futuro: se hai il dubbio che una ragazza possa davvero darti il suo consenso, assicurati che possa completare una frase intera. Non sei riuscito a fare nemmeno quello. Una sequenza di parole coerenti. Cosa c’è di difficile da capire? È senso comune. Decenza umana.

Secondo lui, l’unico motivo per il quale eravamo per terra è che io ero caduta. Un appunto: se una ragazza cade, aiutala a rialzarsi. Se è troppo ubriaca anche per camminare e cade, non salirle sopra, non scoparla, non toglierle le mutande, e non mettere la tua mano nella sua vagina. Se una ragazza cade, aiutala a rialzarsi. Se indossa un cardigan sopra il vestito, non toglierglielo per toccarle il seno. Forse ha freddo, forse è per questo che indossava il cardigan. Se il suo culo e le sue gambe sono nudi e sfregano contro pigne e aghi mentre con il tuo peso spingi dentro di lei, togliti da sopra di lei.

Nella tua storia, poi, si avvicinarono due ragazzi svedesi che passavano in bicicletta. Secondo me sei scappato perché ti avevano preso, non perché eri spaventato di due terrificanti studenti universitari svedesi. L’idea che tu pensassi di essere stato attaccato senza motivo è semplicemente ridicola. Che il fatto che tu fossi sopra il mio corpo incosciente non c’entrasse niente. Sei stato colto sul fatto, non ci sono spiegazioni. Quando ti aggredirono, perché non hai detto «Fermi! Va tutto bene, chiedete a lei, è lì, ve lo dirà lei»? Mi avevi appena chiesto il permesso, no? Ero sveglia, no? Quando arrivarono i poliziotti e interrogarono lo svedese cattivo che ti aveva appena attaccato, stava piangendo così forte per quello che aveva visto da non riuscire a parlare. E comunque, se davvero pensavi che fossero pericolosi, quello che hai fatto è stato abbandonare una ragazza mezza nuda per scappare e metterti in salvo. In qualsiasi modo la giri, non ha senso.

Il tuo avvocato ha sottolineato ripetutamente che bé, non sappiamo esattamente quando la ragazza ha perso conoscenza. Vero, magari stavo ancora sbattendo gli occhi e il mio corpo non era ancora del tutto molle, d’accordo. Ma non è quello il punto. Ero troppo ubriaca per poter parlare, troppo ubriaca per essere consenziente molto prima di finire per terra. Non avrei mai dovuto essere toccata. Brock ha detto: «Non mi sono mai accorto che non reagiva. Se in qualsiasi momento mi fossi accorto che non reagiva, mi sarei fermato subito». Ecco. Se avevi intenzione di fermarti solo quando avessi smesso letteralmente di reagire, allora non hai ancora capito. E comunque non ti sei fermato nemmeno quando ho smesso di reagire! È stato qualcun altro a fermarti. Due ragazzi in bici si erano accorti nel buio che non mi muovevo e sono dovuti intervenire. Come hai fatto a non accorgertene tu, mentre eri sopra di me?

Hai detto che ti saresti fermato e avresti chiesto aiuto. L’hai detto, ma voglio che spieghi come mi avresti aiutato, passo dopo passo, fammi capire. Voglio sapere come sarebbe andata avanti la serata se quegli svedesi cattivi non mi avessero trovato. Te lo sto chiedendo. Mi avresti tirato su le mutande? Avresti sbrogliato la collana attorcigliata intorno al mio collo? Avresti chiuso le mie gambe e mi avresti coperta? Mi avresti rimesso il reggiseno nel vestito? Mi avresti aiutata a togliermi gli aghi di pino dai capelli? Mi avresti chiesto se le abrasioni che avevo sul collo e sul sedere mi facevano male? Saresti andato da un tuo amico e gli avresti chiesto di aiutarti a portarmi in un posto caldo e comodo? Quando penso a come sarebbero potute andare le cose se gli svedesi non fossero mai arrivati, non riesco a dormire. Cosa mi sarebbe successo? Questa è la domanda per cui non avrai mai una risposta valida, la cosa che non sei in grado di spiegare nemmeno dopo un anno.

E poi: lui dice che raggiunsi l’orgasmo dopo un minuto di penetrazione con le dita. L’infermiera ha detto che c’erano abrasioni, lacerazioni e sporcizia nei miei genitali. È successo prima o dopo il mio orgasmo?

Dire a tutti noi, sotto giuramento, che sì, lo volevo, che l’ho permesso, e che sei tu la vera vittima, che sei stato attaccato da due ragazzi per ragioni sconosciute, è una cosa ripugnante, da dementi, egoista e stupida. Dimostra che eri disposto a fare qualsiasi cosa pur di screditarmi, smentirmi e spiegare che andava bene farmi del male. Hai provato ostinatamente a salvare te stesso e la tua reputazione a mie spese.

La mia famiglia ha dovuto vedere le foto della mia testa legata a una barella, piena di aghi di pino; del mio corpo per terra con gli occhi chiusi, il vestito tirato su, braccia e gambe molli nel buio. E anche dopo tutto questo, la mia famiglia ha dovuto ascoltare il tuo avvocato che diceva che le foto erano state scattate dopo il fatto, che potevamo scartarle. Ha dovuto ascoltarlo mentre diceva che, sì, l’infermiera ha confermato il rossore e le abrasioni dentro il suo corpo, ma è questo che succede quando penetri qualcuno con le dita, e lui questo lo ha già ammesso. Ha dovuto ascoltarlo mentre usava mia sorella contro di me. Ascoltarlo mentre cercava di descrivermi come un provocante animale da festa, come se in qualche modo questo facesse sì che me la fossi andata a cercare. Ha dovuto ascoltarlo mentre raccontava che il motivo per cui al telefono sembravo ubriaca è che sono stupida, e che quello era il mio modo scemo di parlare. Mentre sottolineava che nel messaggio che avevo lasciato al mio ragazzo in segreteria, gli avevo detto che l’avrei premiato, e sappiamo tutti a cosa stavo pensando. Vi assicuro che le mie ricompense non sono trasferibili, soprattutto non al primo sconosciuto che mi si avvicina.

Il punto è che questo è quello che la mia famiglia e io abbiamo dovuto sopportare durante il processo. Ho dovuto ascoltare tutto questo seduta in silenzio, subirlo, mentre lui inventava il racconto della serata. Dover soffrire è già abbastanza. Ma dover sentire una persona che cerca in modo spietato di sminuire la gravità e la validità di questa sofferenza è un’altra cosa. Alla fine, però, le sue affermazioni infondate e la logica contorta del suo avvocato non hanno ingannato nessuno. La verità ha vinto. La verità parla da sola.

Sei colpevole. Dodici membri della giuria ti hanno giudicato colpevole di tre capi di accusa al di là di ogni ragionevole dubbio; sono dodici voti per ogni capo di accusa, trentasei “sì” che confermano la tua colpevolezza, il cento per cento: sei stato giudicato colpevole all’unanimità. Ho pensato che fosse finalmente finita; finalmente avrebbe confessato quello che ha fatto, si sarebbe scusato davvero, entrambi saremmo andati avanti e le cose sarebbero migliorate. Poi ho letto la tua dichiarazione. Se speri che uno dei miei organi imploda per la rabbia e io muoia, ci sono quasi. Ci sei molto vicino. Un’aggressione non è un incidente. Questo non è un altro caso di sesso tra universitari ubriachi che hanno fatto una scelta sbagliata. In qualche modo, ancora non ci arrivi. In qualche modo, sembri ancora confuso.

Ora vorrei leggere parti della dichiarazione dell’imputato, e rispondere.

Tu hai detto: Ero ubriaco e non ero in grado di prendere le decisioni migliori, e nemmeno lei.

L’alcol non è una scusa. È un fattore? Sì. Ma non è stato l’alcol a spogliarmi, penetrarmi con le dita e farmi strisciare la testa per terra, mentre ero quasi completamente nuda. Ammetto che bere troppo è stato un errore da principianti, ma non è un reato. Tutti in quest’aula abbiamo avuto una serata in cui abbiamo bevuto troppo, di cui ci pentiamo, o conosciamo bene qualcuno che l’ha fatto e ne è pentito. Pentirsi per aver bevuto non è uguale a doversi pentire di aver aggredito sessualmente qualcuno. Eravamo entrambi ubriachi, ma la differenza è che io non ti ho tolto i pantaloni e le mutande, e toccato in modo inappropriato per poi scappare via. È questa la differenza.

Hai detto: Se avessi voluto conoscerla avrei dovuto chiederle il numero, invece di chiederle di andare in camera mia.

Non sono furiosa perché non mi hai chiesto il numero. Anche se mi avessi conosciuto, non avrei voluto trovarmi in quella situazione. Il mio ragazzo mi conosce, ma se chiedesse di penetrami con le dita dietro un cassonetto, gli darei uno schiaffo. Nessuna ragazza vuole trovarsi in quella situazione. Nessuna. Non mi interessa se hai il suo numero di telefono o meno.

Hai detto: Ho pensato stupidamente di fare quello che tutti gli altri intorno a me stavano facendo, cioè bere. Mi sbagliavo.

Lo ripeto: non hai sbagliato perché hai bevuto. Tutti gli altri intorno a te non mi stavano aggredendo sessualmente. Hai sbagliato perché hai fatto una cosa che non stava facendo nessun altro, cioè aver spinto il cazzo eretto che avevi nei pantaloni contro il mio corpo nudo e indifeso, nascosto in una zona buia dove le altre persone alla festa non potevano vedermi e proteggermi, e mia sorella non poteva trovarmi. Il tuo reato non è aver bevuto uno shot. Togliermi le mutande e buttarle come fossero la carta di una caramella per inserire le tue dita nel mio corpo: è stato questo il tuo errore. Perché lo devo spiegare di nuovo?

Hai detto: non volevo assolutamente accanirmi su di lei durante il processo. È stato il mio avvocato e la sua strategia per gestire la causa.

L’avvocato non è il tuo capro espiatorio, rappresenta te. Il tuo avvocato ha detto delle cose incredibilmente esasperanti e umilianti? Certo. Ha detto che ti era venuta un’erezione perché faceva freddo.

Ha detto che stai creando un programma per studenti delle superiori e universitari in cui racconterai la tua esperienza per «Sensibilizzare contro la cultura dell’alcol nelle università e la promiscuità sessuale che ne deriva».

Sensibilizzare contro la cultura dell’alcol nelle università. È di questo che vuoi parlare? Pensi sia questa la cosa che ho passato a combattere nell’ultimo anno? Non a sensibilizzare contro le violenze sessuali nei campus universitari, o lo stupro, o sull’imparare a riconoscere il consenso. La cultura dell’alcol nelle università. Abbasso il Jack Daniels. Abbasso la vodka Skyy. Se vuoi parlare ai ragazzi delle superiori dell’alcol, vai a un incontro degli alcolisti anonimi. Capisci che avere un problema con l’alcol è una cosa diversa dal bere e poi cercare di avere sesso con qualcuno con la forza? Mostra agli uomini come rispettare le donne, non a bere meno.

La cultura alcolica e la promiscuità sessuale che ne deriva. Che ne deriva, come se fosse un effetto collaterale, le patatine che ordini come contorno al tuo piatto. Cosa c’entra la promiscuità? Non ho letto titoli di giornali che dicevano: Brock Turner, colpevole di aver bevuto troppo e della promiscuità sessuale che ne deriva. La violenza sessuale nei campus. Eccoti la prima slide per la tua presentazione.

Ho spiegato abbastanza. Ora non puoi più scrollare le spalle ed essere confuso. Non puoi fare finta che non ci siano stati dei segnali. Non puoi più non sapere perché sei scappato. Sei stato dichiarato colpevole di avermi violato con dolo, e tutto quello che riesci ad ammettere è di aver bevuto. Non parlare nel modo triste in cui la tua vita è stata sconvolta per colpa dell’alcol che ti ha fatto fare brutte cose. Trova il modo di assumerti la responsabilità della tua condotta.

Per concludere, hai detto: Voglio far vedere alle persone che una serata da ubriachi può rovinare una vita.

Rovinare una vita, una vita sola, la tua: ti sei dimenticato della mia. Permetti di riformulare la frase per te: Voglio far vedere alle persone che una serata da ubriachi può rovinare due vite. La tua e la mia. Tu sei la causa, io sono la conseguenza. Tu mi hai trascinato con te in quest’inferno, mi hai fatto immergere di nuovo in quella notte, volta dopo volta. Hai fatto crollare entrambi i nostri castelli. Il tuo è stato un danno concreto: ti hanno portato via i tuoi titoli sportivi, quelli di studio, e l’iscrizione all’università. Il mio è stato interiore, invisibile, lo porto con me: mi hai portato via il mio valore, la mia privacy, la mia energia, il mio tempo, la mia sicurezza, la mia intimità, la mia fiducia e la mia voce, fino a oggi.

Una cosa che abbiamo in comune è che tutti e due non riuscivamo ad alzarci la mattina. Non sono stata estranea alla sofferenza. Hai fatto di me una vittima. Il mio nome sui giornali era «donna ubriaca priva di sensi». Dieci sillabe e niente di più. Per un po’, ho pensato di essere solo quello. Ho dovuto obbligare me stessa a imparare di nuovo il mio vero nome e la mia identità. A imparare di nuovo di non essere solo quello. Che non sono solo la vittima ubriaca a una festa di una confraternita dietro un cassonetto, mentre tu saresti il nuotatore tipicamente americano che frequenta un’università esclusiva, innocente fino a prova contraria, con così tanto da perdere. Sono un essere umano che è stato ferito in modo irreversibile. Che ci ha messo un anno per capire se valeva qualcosa.

La mia indipendenza, la mia gioia di vivere, la mia delicatezza e il mio stile di vita regolare sono stati stravolti in modo irriconoscibile. Mi sono chiusa in me stessa, sono diventata arrabbiata, senza autostima, stanca, irritabile e vuota. A volte l’isolamento era insopportabile. Non puoi ridarmi la vita che avevo prima di quella notte. Mentre tu ti preoccupavi per la tua reputazione distrutta, tutte le sere io mettevo dei cucchiai in frigo in modo che, quando la mattina dopo mi sarei svegliata con gli occhi gonfi per il pianto, potevo mettermeli sopra gli occhi per sgonfiarli e riuscire a vedere. Ogni mattina, mi presentavo al lavoro con un’ora di ritardo, e mi alzavo scusandomi per andare a piangere sulle scale; posso dirti quali sono i posti migliori in quel palazzo per piangere, quelli dove nessuno può sentirti. Stavo così male che ho dovuto dire al mio capo che lasciavo il lavoro, che avevo bisogno di tempo perché continuare così ogni giorno era impossibile. Ho usato i miei risparmi per andare il più lontano possibile.

Di notte, non riesco a dormire da sola se non ho una luce accesa, come una bambina di cinque anni, perché ho incubi in cui vengo toccata e non riesco a svegliarmi. Allora aspettavo l’alba per sentirmi abbastanza sicura per andare a letto. Per tre mesi, sono andata a letto alle sei del mattino.

Una volta ero orgogliosa della mia indipendenza. Ora ho paura di fare una passeggiata di sera, di andare a eventi sociali dove si beve tra amici, situazioni in cui dovrei sentirmi a mio agio. Sono diventata come quei crostacei che stanno attaccati alle rocce, ho sempre bisogno che ci sia qualcuno al mio fianco, che il mio ragazzo stia vicino a me, che dorma con me, e mi protegga. È imbarazzante quanto sia diventata debole, con quanta timidezza mi muova nella mia vita, sempre in guardia, pronta a difendermi e ad arrabbiarmi. Non hai idea di quanto duramente io abbia lavorato per ricostruire parti di me che sono ancora deboli. Mi ci sono voluti otto mesi solo per parlare di quello che era successo. Non riuscivo più ad avere un rapporto con i miei amici e con le persone intorno a me. Urlavo contro il mio ragazzo e la mia famiglia tutte le volte che tiravano fuori l’argomento. Tu non mi permetti di dimenticare mai quello che è successo. Alla fine di ogni udienza durante il processo, ero troppo stanca per parlare. Quando me ne andavo ero prosciugata e rimanevo in silenzio. Andavo a casa e spegnevo il telefono. Non parlavo per giorni. Mi hai comprato un biglietto per un pianeta dove vivevo isolata. Ogni volta che usciva un nuovo articolo vivevo con la paranoia che tutta la città scoprisse che la ragazza aggredita ero io. Non volevo la compassione di nessuno e sto ancora imparando ad accettare che essere vittima è parte della mia identità. Hai trasformato la mia città in un posto dove mi sento a disagio. Un giorno potrai ridarmi indietro i soldi per l’ambulanza e le cure. Ma non potrai mai ridarmi indietro le mie notti insonni. Il modo in cui iniziavo a singhiozzare senza potermi controllare quando in un film veniva fatto del male a una donna. Questa esperienza ha aumentato la mia empatia verso le altre vittime, per usare un eufemismo. Sono dimagrita per lo stress, e quando me lo facevano notare, rispondevo che stavo correndo molto in quel periodo. Ci sono momenti in cui non voglio essere toccata. Devo imparare di nuovo che non sono fragile, che sono una persona capace e sana, e non solo furiosa e debole.

Voglio dire una cosa. Posso sopportare tutti i pianti e la sofferenza che mi hai causato. Ma quando vedo la mia sorellina che soffre, quando non riesce ad andare bene a scuola, quando è triste, non dorme, quando piange così forte al telefono da non riuscire quasi a respirare, ripetendomi in continuazione che le dispiace avermi lasciato sola quella notte, quando lei si sente più in colpa di te, allora non ti perdono. Quella notte l’avevo chiamata per cercarla, ma tu mi hai trovato prima di lei. Il tuo avvocato ha iniziato la sua arringa finale dicendo: «Sua sorella ha detto che stava bene: chi la conosce meglio di sua sorella?». Hai cercato di usare mia sorella contro di me. I tuoi attacchi sono stati davvero deboli, dei colpi bassi: erano quasi imbarazzanti. Non ti azzardare a toccare mia sorella.

Se pensi che io sia stata risparmiata, che ne sia uscita indenne, e che oggi per me sia tutto finito, mentre tu sei qui a prenderti la botta peggiore, ti sbagli. Non ci sono vincitori. Siamo tutti devastati, stiamo tutti cercando un significato in mezzo a tutta questa sofferenza. Non avresti mai dovuto farmi una cosa del genere. E in secondo luogo, non avresti mai dovuto farmi lottare per così tanto tempo, per dirti che non avresti mai dovuto farmi una cosa del genere. Ma ora siamo qui. Il danno è fatto e nessuno lo può cancellare. Ora entrambi abbiamo una scelta. Possiamo lasciare che tutto questo ci distrugga. Io posso continuare a essere arrabbiata e ferita, e tu puoi continuare a negare. Oppure possiamo affrontare la cosa di petto: io accetto il dolore, tu accetti la pena e andiamo avanti.

La tua vita non è finita, hai ancora decenni davanti a te per riscrivere la tua storia. Il mondo è un posto immenso, molto più grande di Palo Alto e di Stanford e tu ti creerai una spazio dentro al mondo in cui puoi essere utile e felice. Adesso il tuo nome è macchiato e io ti sfido a trovartene uno nuovo, in modo di fare qualcosa di buono per il mondo, che lasci tutti di stucco. Hai un cervello, hai una voce e un cuore. Usali in modo saggio. La tua famiglia ti ama moltissimo. Questo da solo può farti superare qualsiasi cosa. La mia mi ha tenuta in piedi durante tutto questo. La tua farà lo stesso con te e tu andrai avanti. Credo che un giorno riuscirai a capire tutto questo meglio. Spero che diventerai una persona migliore e più onesta, che riuscirà a usare questa storia per fare in modo di evitare che un’altra storia come questa possa mai più succedere. Io sostengo pienamente il tuo viaggio per guarire e ricostruire la tua vita, perché questo è l’unico modo in cui potrai iniziare ad aiutare gli altri.

Ora vorrei parlare della sentenza. Quando ho letto il rapporto del funzionario addetto alla libertà vigilata sono rimasta incredula, consumata dalla rabbia che alla fine si è placata, trasformandosi in profonda tristezza. Le mie dichiarazioni sono state tagliate per essere distorte e messe fuori contesto. Ho combattuto duramente in questo processo e non lascerò che il risultato sia banalizzato da un funzionario che ha cercato di valutare il mio stato attuale e i miei desideri in una conversazione di quindici minuti, la maggior parte dei quali passati a rispondere alle mie domande sul sistema giudiziario. Anche il contesto è importante. Brock doveva ancora fare una dichiarazione e io non avevo letto le sue osservazioni.

La mia vita è rimasta in sospeso per oltre un anno, un anno di rabbia, angoscia e incertezza, fino a che una giuria di miei pari ha emesso un giudizio che confermava le ingiustizie che avevo sopportato. Se Brock avesse ammesso la sua colpa, dimostrato di avere rimorsi e si fosse offerto prima di patteggiare, avrei preso in considerazione l’ipotesi di una condanna più lieve, rispettando la sua onestà e grata di poter andare avanti con le nostre vite. Invece si è assunto il rischio di andare a processo, aggiungendo insulti e ferite, e costringendomi a rivivere il dolore, mentre i dettagli della mia vita privata e dell’aggressione sessuale venivano brutalmente sezionati in pubblico. Ha fatto vivere a me e alla mia famiglia un anno di sofferenze indicibili, che non erano necessarie e dovrebbe affrontare le conseguenze per aver messo in dubbio il suo reato e il mio dolore e di averci fatto aspettare così tanto prima che venisse fatta giustizia. Al funzionario per la libertà vigilata ho detto che non voglio che Brock marcisca in prigione. Non ho detto che non merita di finire dietro le sbarre. La raccomandazione del funzionario per la libertà vigilata, che consiglia un anno o meno in una prigione della contea, è una punizione morbida, una presa in giro per la gravità della sua aggressione e le conseguenze del dolore che sono stata costretta a sopportare. Al funzionario per la libertà vigilata ho anche detto che quello che volevo veramente era che Brock ci arrivasse, che capisse e ammettesse il suo errore. Purtroppo, dopo aver letto la dichiarazione dell’imputato, sono rimasta molto delusa, non è riuscito a mostrare un rimorso sincero e ad assumersi la responsabilità della sua condotta. Ho totale rispetto del suo diritto ad avere un processo, ma anche dopo che dodici membri della giuria lo hanno giudicato all’unanimità colpevole di tre reati, tutto quello che ha ammesso è di aver ingerito dell’alcol. Una persona che non è in grado di assumersi la piena responsabilità delle sue azioni non merita uno sconto di pena. Il fatto che abbia cercato di sminuire lo stupro parlando di promiscuità è profondamente offensivo. Per definizione lo stupro è l’assenza di promiscuità, è l’assenza di consenso e il fatto che non riesca nemmeno a capire la differenza mi turba profondamente.

Il funzionario per la libertà vigilata ha tenuto conto del fatto che l’imputato è giovane e non ha condanne alla spalle. Secondo me è abbastanza grande per sapere che quello che ha fatto è sbagliato. In questo paese quando hai diciotto anni puoi andare in guerra. Quando ne hai diciannove, sei abbastanza grande per pagare le conseguenze di un tentato stupro. È giovane, ma è grande abbastanza da non essere così ingenuo. Dal momento che questo è il suo primo reato, posso capire perché venga invocata la clemenza. D’altra parte, però, come società non possiamo perdonare tutte le persone che commettono un’aggressione sessuale o stuprano qualcuno con le dita per la prima volta. Non ha senso. Bisogna comunicare la gravità di uno stupro in modo chiaro, non dobbiamo creare una cultura che suggerisce che impariamo a capire che lo stupro è sbagliato andando per tentativi. Le conseguenze di un’aggressione sessuale devono essere sufficientemente gravi da far sì che le persone abbiano abbastanza paura da usare la testa anche se sono ubriache, abbastanza gravi da evitare che succeda. Il fatto che Brock fosse un atleta di successo in un’università prestigiosa non dovrebbe essere visto come un diritto alla clemenza, ma come un’opportunità per mandare un messaggio culturale forte: l’aggressione sessuale è contro la legge indipendentemente dalla classe sociale. Il funzionario per la libertà vigilata ha considerato il fatto che ha dovuto rinunciare a una borsa di studio per il nuoto guadagnata con fatica. Se fossi stata aggredita sessualmente da un ragazzo non atletico di un’università pubblica, quale sarebbe la sua condanna? Se un ragazzo al primo reato cresciuto senza privilegi fosse accusato di tre reati e non mostrasse di essersi assunto la responsabilità delle proprie azioni, se non per aver bevuto, quale sarebbe la sua condanna? La velocità con cui nuota non diminuisce l’impatto di quello che mi è successo.

Il funzionario per la libertà vigilata ha dichiarato che questa causa, se la confrontiamo ad altri reati di natura simile, potrebbe essere considerata meno grave visto l’alto stato di ebbrezza dell’imputato. Sembrava serio, non dirò altro.

La sua aggressione sessuale rimarrà nei registri per sempre. Non ha scadenza. Come non ce l’ha quello che mi ha fatto, non sparisce dopo un numero definito di anni. Rimarrà con me; è parte della mia identità; ha cambiato per sempre il modo in cui mi comporto e quello in cui vivo per il resto della mia vita. È passato un anno e ha avuto un sacco di tempo. È andato da uno psicologo? Cosa ha fatto nell’ultimo anno per dimostrare che sta facendo progressi? Ha detto di voler creare un programma? Cosa ha fatto per dimostrarlo?

Spero che durante il suo periodo in carcere gli vengano fornite le terapie e le risorse necessarie per ricostruire la sua vita. Chiedo che si istruisca sul tema delle aggressioni sessuali nei campus. Spero che accetti la giusta pena e che si sforzi a rientrare nella società da persona migliore.

Per finire, vorrei fare dei ringraziamenti. A tutti, dal medico che mi preparò la colazione quando mi svegliai in ospedale quella mattina, all’agente che aspettò di fianco a me, alle infermiere che mi calmarono, all’investigatore che mi ascoltò senza mai giudicarmi, ai miei avvocati che sono sempre stati saldamente al mio fianco, al mio terapista che mi ha insegnato a trovare il coraggio nella vulnerabilità, al mio capo per essere stato gentile e comprensivo, ai miei incredibili genitori che mi hanno insegnato a trasformare il dolore in forza, ai miei amici che mi ricordano come essere felice, al mio ragazzo, che è paziente e affettuoso, alla mia indomabile sorella, che è l’altra metà del mio cuore, ad Alaleh [Alaleh Kianerci, il viceprocuratore distrettuale che ha curato il caso] il mio idolo, che ha lottato instancabilmente e non ha mai dubitato di me. Grazie a tutte le persone coinvolte nel processo per il loro tempo e la loro attenzione. Grazie alle ragazze in tutto il paese che hanno scritto bigliettini al mio procuratore distrettuale perché me li consegnasse, tantissimi sconosciuti che tenevano a me. Soprattutto, grazie ai due uomini che mi hanno salvata, che non ho ancora conosciuto. Dormo con due biciclette che ho disegnato e attaccato sopra il mio letto, per ricordarmi che ci sono degli eroi in questa storia. Che ci prendiamo cura l’uno dell’altra. Non dimenticherò mai di aver conosciuto tutte queste persone, di aver sentito la loro protezione e il loro amore.

Infine, alle ragazze di tutto il mondo: sono con voi. Sono con voi nelle notti in cui vi sentite sole. Sono con voi quando le persone dubitano di voi o vi ignorano. Lotto ogni giorno per voi. Quindi non smettete mai di lottare, io credo in voi. I fari non se ne vanno in giro per un’isola cercando barche da salvare; rimangono semplicemente dove sono, a fare luce. Anche se non posso salvare ogni barca, spero che oggi, parlando, abbiate assorbito un po’ di luce, la piccola consapevolezza che non possono mettervi a tacere, la piccola soddisfazione che giustizia è stata fatta, la piccola rassicurazione del fatto che stiamo raggiungendo un obiettivo, e la grande, grande consapevolezza che siete importanti, indiscutibilmente, che siete intoccabili, siete belle, che dovete essere apprezzate, rispettate, innegabilmente, ogni minuto di ogni giorno, siete potenti e nessuno ve lo può togliere. Alle ragazze, in tutto il mondo, sono con voi. Grazie. 


Traduzione Dichiarazione

Testo originale Dichiarazione in Inglese


Questo, invece il testo scritto e postato su Twitter da Dan Allen Turner, padre di Brock.



La vita di Brock è stata modificata per sempre dagli eventi di quella notte fra il 17 e il 18 gennaio. Brock non sarà mai più felice, ha perso la sua personalità semplice e il suo sorriso. Ogni suo minuto da sveglio è consumato da preoccupazione, ansia, paura e dalla depressione. Glielo si vede in faccia, dal modo in cui cammina, dalla voce bassa, dalla mancanza di appetito. A Brock sono sempre piaciuti certi cibi e lui stesso è un ottimo cuoco. Ero sempre felice quando gli compravo una grossa bistecca da fare alla griglia, o i suoi snack preferiti. Ho sempre dovuto nascondere salatini e patatine perché sapevo che, al ritorno da uno dei suoi allenamenti in piscina li avrebbe mangiati tutti ed io non avrei trovato più niente. Questa sentenza ha distrutto lui e tutta la nostra famiglia. La sua vita non sarà più quella che aveva sognato, quella per cui ha faticato.

Questo è il prezzo che dovrà pagare per un’azione durata venti minuti, venti minuti nei suoi oltre vent’anni di vita. Il fatto che verrà segnalato come stupratore influenzerà il resto della sua vita, influenzerà la scelta dei luoghi dove potrà vivere, che potrà visitare, dove potrà lavorare e modificherà il suo modo di interagire con le persone. Quello che so, come padre, è che il carcere non è la giusta punizione per Brock. Non ha precedenti penali e non è mai stato violento. Brock potrebbe fare molte cose positive per la società, potrebbe continuare ad impegnarsi con gli studenti del college parlandogli dei pericoli legati al consumo di alcol e alla promiscuità sessuale.

Con persone come Brock, la società può educare i ragazzi e rompere il ciclo delle sbronze coi loro esiti negativi. La sospensione della pena è ciò che ci vuole per Brock, questo gli permetterebbe di rientrare in società in modo positivo.

Dan Allen Turner

twitter.com/laurenduca 

lunedì 4 settembre 2017

La Voce degli Uomini (finalmente). Con un articolo di Christian Raimo

Gli uomini picchiano le donne, spesso le pestano a sangue, alle volte le uccidono. Ogni tanto c’è un caso che sembra più disumano e per questo più esemplare: uno che tenta di bruciare viva la fidanzata che l’ha lasciato, un altro che ammazza insieme alla compagna i figli piccoli. A ondate sui giornali si riparla di femminicidio, o di allarme femminicidio; per il resto del tempo il conto delle morti continua regolare: negli ultimi mesi un tizio a Modena ha strangolato la sua ex e poi ha nascosto il cadavere nel frigorifero in cantina, a Novara un altro ha accoltellato a morte la moglie in strada, a Pavia un infermiere ha sparato alla moglie e alla figlia dodicenne. Quasi sempre gli uomini non accettavano la fine della relazione.

Lo stigma astratto su questi uomini violenti è speculare all’incapacità di ragionare sulle motivazioni dei loro gesti e di agire di conseguenza. Negli anni recenti non sono mancate campagne sociali e addirittura una legge ad hoc sul femminicidio, ma il risultato è che nel dibattito pubblico si è verificato spesso un semplice rovesciamento: dalla minimizzazione si è passati a fasi alterne all’emergenza. La violenza degli uomini prima era invisibile, poi è mostrificata: una riflessione laica su come intervenire efficacemente è sempre laterale, una politica d’intervento sociale sui maschi violenti è difficile da programmare.

Eppure, per fortuna, qualcosa si è mosso in questi ultimi anni. Sul sito della rivista inGenere si trova un elenco – indicativo, anche se non aggiornato – dei centri che in Italia si occupano di maschi maltrattanti: tre anni fa erano una quindicina, oggi sono più di trenta, sparsi a macchia di leopardo ma con significative differenze (a sud di Roma non c’è praticamente nulla). Il ruolo di questi centri è cruciale. Giorgia Serughetti lo scrive chiaramente in un articolo con molti riferimenti intitolato Smettere si può:

La recidiva degli autori di violenza è straordinariamente alta: più di otto uomini su dieci rischiano di tornare a commettere gli stessi reati, se non interviene nel mezzo qualcosa o qualcuno. Ovvero se non sono presi in carico da un servizio o un centro d’ascolto per uomini maltrattanti.

Il funzionamento di questi centri è eterogeneo, non c’è un coordinamento nazionale, in alcuni casi hanno rapporti più o meno strutturati con le istituzioni (le aziende sanitarie locali, il carcere), in altri i programmi di aiuto cercano di fare tesoro delle esperienze anche se recenti: il Centro di ascolto per uomini maltrattanti di Firenze, aperto nel 2009, è in piccolo il punto di riferimento.

Il testo italiano che invece cerca di fare il punto, da una prospettiva teorica e fenomenologica, è Il lato oscuro degli uomini, uscito per Ediesse nel 2013 e poi varie volte aggiornate. Il libro, oltre a segnalare quanto siano in ritardo il dibattito e la politica in Italia, cerca all’interno del femminismo fin dagli anni settanta l’origine di un rilevante cambiamento di approccio:

Mentre il lavoro di tutela e di sostegno per le vittime di violenza può essere considerato una conquista, l’intervento con gli uomini maltrattanti nelle relazioni d’intimità ha ricevuto, in paragone, molta meno attenzione da parte degli organismi pubblici, del terzo settore e dagli ambienti accademici. Barner e Carney, in un excursus storico sullo sviluppo dei programmi per uomini violenti negli Stati Uniti, affermano che a partire dalla fine degli anni settanta le case rifugio per le donne hanno cambiato la loro strategia di aiuto passando da un ‘intervento d’emergenza e primario per le vittime’ ad una ricerca attiva di collaborazioni sul territorio con altri servizi per fornire loro migliori opportunità di empowerment all’interno della situazione di violenza con l’obiettivo della prevenzione della recidiva e lo sviluppo di un approccio di comunità.

Insomma può essere utile fino a un certo punto proteggere donne e bambini dalle violenze dei maschi, se il maschio non fa nulla per affrontare il suo problema. Ma non è l’anno zero, e auspicare vagamente una presa di coscienza dei maschi italiani sessisti significa non fare tesoro delle analisi e dei risultati di chi ha cominciato a interrogarsi sul metodo oltre che sul merito della questione, e ha elaborato per esempio i programmi di training in Scozia (il programma Change) e in Catalogna (il programma Contexto).

Del resto è almeno un decennio che vari gruppi di uomini hanno affiancato a questo lavoro sul campo un percorso di indagine culturale. Stefano Ciccone dell’associazione Maschile plurale me lo conferma:

L’attenzione è cambiata, o meglio sta cambiando. Ma è il contesto stesso che va ripensato. Occorre individuare i comportamenti violenti, e per questo servono formazione e capacità di distinguere questi comportamenti all’interno di una cultura che è profondamente condivisa. Per cui il fenomeno più banale è quello della molteplice rimozione della responsabilità. Si passa da ‘io non sono violento, ho avuto un comportamento violento in quell’occasione, in quella situazione’ alle dichiarazioni di assassini o stupratori che messi a confronto con altri uomini violenti dichiarano: ‘Io che c’entro con questi, io quelli che violentano le donne li ammazzerei’. Oltre ovviamente alla costante colpevolizzazione della donna: ‘È stata lei. Lei mi ha fatto diventare così, lei mi ha ridotto in questo stato’.

L’elaborazione delle proprie emozioni può essere un cammino lunghissimo, inedito per molti adulti maschi, non abituati nemmeno a immaginare la realtà oltre che la legittimità di un’autonomia femminile. Quest’autonomia, agli occhi dei maschi che si credevano forti e fanno fatica a sentirsi limitati o impotenti, è un mostro. Il rovesciamento è pieno. Continua Ciccone: “Il sentimento di questi uomini nei confronti delle donne è di puro rancore. Le donne sono descritte come false, opportuniste, manipolatorie. ‘Io sono la vittima, io sono onesto, io sono trasparente’”.

Un paziente durante una seduta con lo psicologo, nella casa di reclusione di Milano-Bollate, 2010. 
- Giovanni Cocco Un paziente durante una seduta con lo psicologo, nella casa di reclusione di Milano-Bollate, 2010. (Giovanni Cocco)
È evidente, anche dalle parole di chi lavora con i maschi maltrattanti, che il lavoro primario è quello conoscitivo e sui contesti culturali. Come si fa a essere consapevoli di essere violenti, sessisti, se il mondo intorno a te non solo tollera ma induce questi atteggiamenti?

Daltra parte, parlando con Costanza Jesurum, psicoanalista e autrice di un libro sullo stalking, mi rendo conto che la sola prospettiva sociologica e culturale è tanto importante quanto insufficiente.

Bisogna considerare che nei casi italiani la voce psichiatrica è forte, e non si può parlare di una patologia generalizzata come per alcuni paesi del Sudamerica dove il femminicidio è culturalizzato.



Occorre impostare l’intervento a più livelli: per prima cosa ovviamente affrontare l’emergenza e dare soldi, molti, ai centri antiviolenza – mentre mi sembra che oggi in Italia la discussione sia sempre come tagliare e non come aumentare. Bisogna aprirne di nuovi, soprattutto al sud la situazione è drammatica.

L’intervento psichiatrico invece è più difficile perché i maschi violenti non si vedono come tali, pensano di aver ceduto una volta – e in questo senso ovviamente la connivenza della società è pericolosa. Ma in questi casi c’è sempre un problema con il proprio femminile interno, che viene visto come angariante. Un’immagine perfetta di quest’angoscia può essere esemplificato dal film Venere in pelliccia di Polanski: ecco una femmina che solo per il fatto di essere libera è minacciosa. Come si risponde a quest’angoscia? Invece di incorporare il soggetto interno – ostile in quanto autonomo – dentro una relazione matura, si assiste a una controreattività sadica. Negli incastri fusionali patologici ci può essere una regressione provvisoria, ma appunto patologica.

È vero che nella narrazione maschile la violenza sulla donna è sempre una reazione. È lei che mi ha provocato, dice lui. E spesso le vittime della violenza maschile sono le donne più autonome, che magari hanno cominciato la relazione in un momento di debolezza (la morte di un genitore, un periodo di depressione), incastrate in una relazione di dipendenza, e nel momento in cui riacquistano autonomia sono percepite come traditrici, minacciose, ostili.

Sarebbe bello però che queste costanti fenomenologiche portassero anche a individuare fattori comuni da un punto di vista diagnostico. Jesurum spiega che non è così:

Le patologie legate alla violenza di genere possono essere molte e molto diverse, bisogna sempre indagare sulla singola persona, il suo contesto famigliare, la sua storia. Anche se il discrimine vero nella violenza di genere è l’evidenza che in questi casi il sesso è sempre legato a un istinto di morte. Si vuole uccidere la partner.

Riuscire ad avviare un percorso di psicoterapia serio con maschi violenti, stalker, stupratori, pedofili, assassini non è per niente semplice. Oltre la mancanza di strutture, oltre la rimozione, esiste uno stigma sociale molto duro (pensiamo all’interno delle carceri), ma anche non di rado tra gli stessi terapeuti, che alle volte esitano a prendere in carico questo tipo di pazienti. Ne dà un quadro molto lucido Marina Valcarenghi, psichiatra milanese, autrice di un libro che racconta la sua esperienza clinica ormai ventennale, Ho paura di me.

Nel racconto di Valcarenghi si mostra come i molestatori, i maschi violenti non suscitano l’interesse di nessuno, né dei politici, né dei medici, né dei formatori, né dei criminologi: è come se fossero dei paria della società. Perché, ci si chiede, uno dovrebbe confessare pulsioni pedofile o un istinto violento, ed essere condannato per sempre? E infatti non accade, e quest’uomo, invece di tentare di capire come trasformare il suo istinto violento in altro, ci si abbandonerà come se non fosse artefice delle sue azioni: dall’immaginare violenze sulle donne o anche sui bambini, passerà a compierle.

Agire sul piano personale e collettivo
Sia Ciccone sia Jesurum sia Valcarenghi però concordano che, pure in assenza di denominatori comuni tra questi comportamenti violenti (Valcarenghi: “Né storia, né etnia, né religione, né classe sociale, né esperienze, né traumi, né temperamenti, né condizioni economiche”), occorre agire contemporaneamente sia su un piano individuale sia su uno collettivo.

Durante una terapia di gruppo con lo psicologo nel centro di reclusione di Milano-Bollate. 2010. 
- Giovanni Cocco Durante una terapia di gruppo con lo psicologo nel centro di reclusione di Milano-Bollate. 2010. (Giovanni Cocco)
“La struttura psichica, quella conscia e quella inconscia, si forma all’interno della società di appartenenza: la famiglia, la scuola, la vita sessuale, il lavoro, le passioni, gli ideali, i sogni, tutte le esperienze prendono forma all’interno del tessuto sociale”, scrive Valcarenghi.

E quindi il miglior modo per contrastare la violenza di genere è tutelare il welfare state: per esempio la scuola, dall’asilo nido in poi, può rivelarsi un fattore protettivo rispetto alle patologie famigliari di oggi, e domani può diventare il luogo dove intercettare ragazzi che stanno sviluppando istinti violenti.

Di fronte a una società in cui le famiglie si vanno nuclearizzando, la psicoterapia non può essere solo appannaggio di una classe sociale che se lo può permettere. Questo significa immaginare una società futura dove crescere dei cittadini responsabili e non solo uno stato che, in assenza di una cultura della relazione, cerca come può di proteggere le vittime.

di Christian Raimo, giornalista e scrittore

domenica 3 settembre 2017

Terzo giorno di Scuola. Beslan. La strage. di Rebecca

«Eccoci qui, ci avviciniamo alla fine. Manca poco, manca soltanto l'ultimo giorno - che è più breve degli altri e più terribile - poi tutto finisce. Finisce con una lotta impari, una guerra non dichiarata e orrenda, una lotta per la morte non per la vita.
Finisce come tutti sapete.
Il rumore delle due scariche è arrivato all'improvviso e mi ha ballato nello stomaco. 
Poi quello che è successo ha cominciato a succedere. È così che finisce.
Ho imbracciato il kalašnikov e sono tornato di corsa verso la palestra. Arrivano! Arrivano! ho urlato. Nella palestra era già tutto un urlare e un piangere, e diverse persone si erano già alzate dai loro posti e non riuscivano a stare calme.
Ruslan ha sparato in aria e ha urlato a Betrozov di far sedere immediatamente tutti quanti, altrimenti avremmo cominciato a sparare a occhi chiusi sugli ostaggi.»

«Ci siamo messi a correre lungo il corridoio. L'odore ha cominciato a salire per le scale, era di gomme bruciata, era l'anima nera del tetto della palestra che stava andando a fuoco. Da sotto le urla impressionanti della folla sono sembrate una voce sola, un unico grido di dolore e di morte. 
Sono comparse alcune persone che correvano disperate cercando di salvarsi dall'incendio e dalla gomma; rimanendo immobile nella sua posa, Adam ha sparato ai primi della fila. I loro corpi - tre donne e due bambini - sono crollati a terra senza un suono. Il gruppetto che li seguiva ha provato a rinfilare le scale o a buttarsi in un'aula aperta, ma i proiettili di Adam hanno raggiunto i loro corpi con una precisione implacabile e li hanno buttati a terra sopra gli altri ostaggi.»

«Sono ferito - ho detto una volta fuori, circondato dai miliziani incappucciati, - sono uno di loro, mi chiamo Marat Bazarev. - Solo la mia presentazione, solo questo, è così che finisce. Il resto, per chi vuole, lo si conosce.»

dal libro Il demone di Beslan, di Andrea Tarabbia



È mercoledì, è il primo settembre del 2004.
È il primo giorno di scuola.
Studenti, insegnanti, genitori e parenti raggiungono la scuola “Numero Uno” di Beslan.
Sono in Cecenia loro, vivono a Beslan.
Il primo giorno di scuola.
Bambini, mani che sfuggono, saluti, i più piccoli che arrivano per frequentare la prima classe daranno un fiore ai più grandi, ai bambini che faranno l'ultimo anno.
In pochi minuti circa 1.200 persone persero la loro identità. Da esseri umani si trasformarono in 1.100 ostaggi.
Era il primo settembre e c'erano tanti bambini. E tanti ragazzi.
Dai 6 ai 18 anni.
Primo giorno di scuola a Beslan, quando un commando composto da 32 persone entra nella scuola.
Dopo pochi minuti di regole assurde a cui gli ostaggi avrebbero dovuto sottostare, vengono uccisi dei ragazzi, così per dimostrare che ciò che stava accadendo era vero, tremendo, mostruoso.
E occorre stare zitti, una delle regole è il silenzio. E provateci voi a non urlare. Provateci voi a far stare in silenzio di fronte all’orrore tutti quei bambini.

Il 2 settembre, giovedì, agli ostaggi, ai bambini, alle mamme, ai nonni, ai ragazzi, viene vietato di mangiare e di bere.
Quanto faceva caldo? E poi potevano andare in bagno?
E poi dov'era scappata la vita normale?
Quella di casa, del piatto in tavola, del letto con le lenzuola.
Dove la polvere sotto il televisore, dove "Esco, vado al lavoro", dove il “Mi cambio l'assorbente”?
Il quotidiano semplice nulla che compone le giornate lasciando che siano eccezionali e nostre.
Sono rimasti quasi tutti con le mutandine bianche indosso. La loro tenera intimità. Faceva tanto caldo. Spogliarsi era l'unica cosa che potevano fare.

Il 3 settembre, venerdì, l'eccidio.
56 ore di paura e di grida, di minacce e di malori. 56 ore di paura e di impotente possibilità di comprendere. 56 ore di mondo che non torna più quello di prima. Quello del fiore che i più piccoli dovevano dare ai più grandi.











Moriranno 335 persone.
Moriranno 186 bambini.

La loro culla, la loro bara, misurava 25 metri in lunghezza per 10 in larghezza. Questa la misura delle 56 ore passate in quella palestra.
Tutti gli altri ostaggi rimasero feriti. Molti nel corpo, tutti nella mente.
Perché si passò allo scontro a fuoco non è dato sapere. Perché i soldati armarono una guerra con gli attentatori rimane nascosto nel pozzo nero della storia.
Ma io li sento. Sento come sussurrano ancora i bambini. Sussurrano tutte quelle parole che non hanno potuto gridare. Sussurrano “mamma” e qualcuno dovrebbe rispondere e dovrebbe portar loro da bere. Perché non c’è pace senza memoria.


Li senti anche tu, lo so.