sabato 2 settembre 2017

Secondo giorno di Scuola. Beslan. La strage. di Rebecca

«La massa umana dei corpi ai miei piedi respirava un solo respiro - l'unico, ampio sospiro del sonno o della veglia che lo precede. Ogni tanto qualcuno - sopratutto i maschi - si svegliava all'improvviso spaventato; allora i corpi si spostavano e qualche testa si sollevava allarmata per controllare che non stesse succedendo niente.
Così la mattina è arrivata.
Poche ora più tardi - si era già nel pomeriggio e avevamo già liberato i ventisei ostaggi - Shamil si è affacciato a una finestra del primo piano e ha lanciato due granate. Poi ha imbracciato il fucile e si è messo a sparare contro gli alberi del giardino. Noi abbiamo sentito il rumore della detonazione e abbiamo pensato che il blitz fosse iniziato. C'è stato un minuto di caos, tutti gli ostaggi si sono messi a gridare, e anche noi; qualcuno ha afferrato per il collo la prima persona che si è trovata vicino e le ha puntato un'arma alla tempia.»
Andrea Tarabbia, Il demone di Beslan


È mercoledì, è il primo settembre del 2004.
È il primo giorno di scuola.
Studenti, insegnanti, genitori e parenti raggiungono la scuola “Numero Uno” di Beslan.
Sono in Cecenia loro, vivono a Beslan.
Il primo giorno di scuola.
Bambini, mani che sfuggono, saluti, i più piccoli che arrivano per frequentare la prima classe daranno un fiore ai più grandi, ai bambini che faranno l'ultimo anno.
In pochi minuti circa 1.200 persone persero la loro identità. Da esseri umani si trasformarono in 1.100 ostaggi.
Era il primo settembre e c'erano tanti bambini. E tanti ragazzi.
Dai 6 ai 18 anni.
Primo giorno di scuola a Beslan, quando un commando composto da 32 persone entra nella scuola.
Dopo pochi minuti di regole assurde a cui gli ostaggi avrebbero dovuto sottostare, vengono uccisi dei ragazzi, così per dimostrare che ciò che stava accadendo era vero, tremendo, mostruoso.
E occorre stare zitti, una delle regole è il silenzio. E provateci voi a non urlare. Provateci voi a far stare in silenzio di fronte all’orrore tutti quei bambini.
Il 2 settembre, giovedì, agli ostaggi, ai bambini, alle mamme, ai nonni, ai ragazzi, viene vietato di mangiare e di bere.
Quanto faceva caldo? E poi potevano andare in bagno?
E poi dov'era scappata la vita normale?
Quella di casa, del piatto in tavola, del letto con le lenzuola.
Dove la polvere sotto il televisore, dove "Esco, vado al lavoro", dove il “Mi cambio l'assorbente”?
Il quotidiano semplice nulla che compone le giornate lasciando che siano eccezionali e nostre.
Sono rimasti quasi tutti con le mutandine bianche indosso. La loro tenera intimità. Faceva tanto caldo. Spogliarsi era l'unica cosa che potevano fare.
Il 3 settembre, venerdì, l'eccidio.









56 ore di paura e di grida, di minacce e di malori. 56 ore di paura e di impotente possibilità di comprendere. 56 ore di mondo che non torna più quello di prima. Quello del fiore che i più piccoli dovevano dare ai più grandi.

Moriranno 335 persone.
Moriranno 186 bambini.
La loro culla, la loro bara, misurava 25 metri in lunghezza per 10 in larghezza. Questa la misura delle 56 ore passate in quella palestra.
Tutti gli altri ostaggi rimasero feriti. Molti nel corpo, tutti nella mente.
Perché si passò allo scontro a fuoco non è dato sapere. Perché i soldati armarono una guerra con gli attentatori rimane nascosto nel pozzo nero della storia.
Ma io li sento. Sento come sussurrano ancora i bambini. Sussurrano tutte quelle parole che non hanno potuto gridare. Sussurrano “mamma” e qualcuno dovrebbe rispondere e dovrebbe portar loro da bere. Perché non c’è pace senza memoria.



Li senti anche tu, lo so.














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