domenica 3 settembre 2017

Terzo giorno di Scuola. Beslan. La strage. di Rebecca

«Eccoci qui, ci avviciniamo alla fine. Manca poco, manca soltanto l'ultimo giorno - che è più breve degli altri e più terribile - poi tutto finisce. Finisce con una lotta impari, una guerra non dichiarata e orrenda, una lotta per la morte non per la vita.
Finisce come tutti sapete.
Il rumore delle due scariche è arrivato all'improvviso e mi ha ballato nello stomaco. 
Poi quello che è successo ha cominciato a succedere. È così che finisce.
Ho imbracciato il kalašnikov e sono tornato di corsa verso la palestra. Arrivano! Arrivano! ho urlato. Nella palestra era già tutto un urlare e un piangere, e diverse persone si erano già alzate dai loro posti e non riuscivano a stare calme.
Ruslan ha sparato in aria e ha urlato a Betrozov di far sedere immediatamente tutti quanti, altrimenti avremmo cominciato a sparare a occhi chiusi sugli ostaggi.»

«Ci siamo messi a correre lungo il corridoio. L'odore ha cominciato a salire per le scale, era di gomme bruciata, era l'anima nera del tetto della palestra che stava andando a fuoco. Da sotto le urla impressionanti della folla sono sembrate una voce sola, un unico grido di dolore e di morte. 
Sono comparse alcune persone che correvano disperate cercando di salvarsi dall'incendio e dalla gomma; rimanendo immobile nella sua posa, Adam ha sparato ai primi della fila. I loro corpi - tre donne e due bambini - sono crollati a terra senza un suono. Il gruppetto che li seguiva ha provato a rinfilare le scale o a buttarsi in un'aula aperta, ma i proiettili di Adam hanno raggiunto i loro corpi con una precisione implacabile e li hanno buttati a terra sopra gli altri ostaggi.»

«Sono ferito - ho detto una volta fuori, circondato dai miliziani incappucciati, - sono uno di loro, mi chiamo Marat Bazarev. - Solo la mia presentazione, solo questo, è così che finisce. Il resto, per chi vuole, lo si conosce.»

dal libro Il demone di Beslan, di Andrea Tarabbia



È mercoledì, è il primo settembre del 2004.
È il primo giorno di scuola.
Studenti, insegnanti, genitori e parenti raggiungono la scuola “Numero Uno” di Beslan.
Sono in Cecenia loro, vivono a Beslan.
Il primo giorno di scuola.
Bambini, mani che sfuggono, saluti, i più piccoli che arrivano per frequentare la prima classe daranno un fiore ai più grandi, ai bambini che faranno l'ultimo anno.
In pochi minuti circa 1.200 persone persero la loro identità. Da esseri umani si trasformarono in 1.100 ostaggi.
Era il primo settembre e c'erano tanti bambini. E tanti ragazzi.
Dai 6 ai 18 anni.
Primo giorno di scuola a Beslan, quando un commando composto da 32 persone entra nella scuola.
Dopo pochi minuti di regole assurde a cui gli ostaggi avrebbero dovuto sottostare, vengono uccisi dei ragazzi, così per dimostrare che ciò che stava accadendo era vero, tremendo, mostruoso.
E occorre stare zitti, una delle regole è il silenzio. E provateci voi a non urlare. Provateci voi a far stare in silenzio di fronte all’orrore tutti quei bambini.

Il 2 settembre, giovedì, agli ostaggi, ai bambini, alle mamme, ai nonni, ai ragazzi, viene vietato di mangiare e di bere.
Quanto faceva caldo? E poi potevano andare in bagno?
E poi dov'era scappata la vita normale?
Quella di casa, del piatto in tavola, del letto con le lenzuola.
Dove la polvere sotto il televisore, dove "Esco, vado al lavoro", dove il “Mi cambio l'assorbente”?
Il quotidiano semplice nulla che compone le giornate lasciando che siano eccezionali e nostre.
Sono rimasti quasi tutti con le mutandine bianche indosso. La loro tenera intimità. Faceva tanto caldo. Spogliarsi era l'unica cosa che potevano fare.

Il 3 settembre, venerdì, l'eccidio.
56 ore di paura e di grida, di minacce e di malori. 56 ore di paura e di impotente possibilità di comprendere. 56 ore di mondo che non torna più quello di prima. Quello del fiore che i più piccoli dovevano dare ai più grandi.











Moriranno 335 persone.
Moriranno 186 bambini.

La loro culla, la loro bara, misurava 25 metri in lunghezza per 10 in larghezza. Questa la misura delle 56 ore passate in quella palestra.
Tutti gli altri ostaggi rimasero feriti. Molti nel corpo, tutti nella mente.
Perché si passò allo scontro a fuoco non è dato sapere. Perché i soldati armarono una guerra con gli attentatori rimane nascosto nel pozzo nero della storia.
Ma io li sento. Sento come sussurrano ancora i bambini. Sussurrano tutte quelle parole che non hanno potuto gridare. Sussurrano “mamma” e qualcuno dovrebbe rispondere e dovrebbe portar loro da bere. Perché non c’è pace senza memoria.


Li senti anche tu, lo so.

















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