Quello che segue NON è un racconto qualsiasi.
Quello che segue è il suono struggente e rabbioso una storia di ragazzi, vista da due punti di vista:
la vittima e il padre dello stupratore.
L'anima di una ragazza che la notte tra il 17 e il 18 di gennaio del 2015 ha subito uno stupro mentre era priva di sensi, ubriaca.
E l'anima di un uomo, un padre, che pur di mondare il passato, il presente e il futuro di suo figlio, rimuove completamente il danno che suo figlio ha arrecato, rimuove il valore in sé dell'esistenza altrui - proprio come ha fatto il figlio nella notte fra il 17 e il 18 gennaio del 2015 -.
Quest'uomo ha scritto qualcosa che non può più uscirmi dalla testa; quest'uomo si domanda come suo figlio possa sopportare una vita di patimenti per un'azione che è durante solo 20 minuti.
Sì, questo il tempo che c'è voluto per rovinare due vite.
La ragazza che Brock Allen Turner ha stuprato, diviene consapevole della violenza solo il giorno dopo.
Lo ricostruisce pezzo per pezzo attraverso i segni del corpo, le parole degli infermieri e del dottore, attraverso gli aghi di pino fra i capelli, attraverso i giornali che le raccontano ciò che ha subito.
La ragazza ha scritto un memoriale; un delicatissimo, lucido e dolente racconto di ciò che le è avvenuto, di come è avvenuto, di come per tutto il tempo del processo la violenza sia stata ripetuta.
Racconta il suo modo di cercare di costruirsi e ricostruirsi, il modo di stare dietro alle menzogne del coetaneo che le ha usato violenza.
Fino ad arrivare a riannodare tutti i fili in una dichiarazione che solo un'anima che sta viaggiando profondamente può fare. La ragazza arriva a dire che il percorso che lei sta facendo è lo stesso che Brock Allen Turner dovrebbe fare per ritrovare il futuro.
Ebbene, la condanna per questo ragazzo poteva arrivare a 14 anni, invece la sentenza è stata di 6 mesi di reclusione, 3 in carcere e 3 in casa.
La pena che invece la legge non potrà mai depennare è quella dell'iscrizione del giovane Brock al registro dei reati sessuali.
Il resto della storia lo troverete nelle parole di questa ragazza.
Difficili da leggere.
E nelle parole di Dan Turner.
Se le prime meritano rispetto, le secondo meritano che gli uomini facciano un esame profondo nella loro coscienza e nella loro cultura di esseri umani.
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Dichiarazione alla Corte di XXX
Vostro Onore,
Se me lo permette, vorrei
rivolgermi direttamente all’imputato per la maggior parte di questa
dichiarazione.
Tu non mi conosci, ma sei stato
dentro di me, ed è per questo che oggi siamo qui. Il 17 gennaio 2015 stavo
passando una serata tranquilla a casa. Mio padre aveva preparato la cena ed ero
a tavola con mia sorella più piccola, che era tornata per il fine settimana.
Avevo un lavoro full-time ed era quasi ora di andare a letto. Il mio programma
era rimanermene a casa da sola, guardare un po’ di TV e leggere, mentre mia
sorella sarebbe andata a una festa con i suoi amici. Poi, però, decisi che era
l’unica serata che potevo passare con lei, non avevo niente di meglio da fare,
e quindi perché no? C’era una festa a dieci minuti da casa mia, sarei andata,
avrei ballato come una scema e messo in imbarazzo la mia sorellina. Mentre
andavamo, le dissi scherzando che gli studenti avrebbero avuto l’apparecchio, e
lei mi prese in giro perché mi ero messa un cardigan beige per andare a una
festa di una confraternita e sembravo una bibliotecaria. Scherzai dicendo che
sarei stata “la mamma”, perché sapevo che sarei stata la più vecchia. Alla festa
mi misi a ballare facendo le facce stupide, abbassai la guardia e bevvi troppo
velocemente, non tenendo conto del fatto che reggevo l’alcol molto meno
rispetto a quando andavo al college.
Dopodiché, la prima cosa che mi
ricordo è di essermi risvegliata sopra una barella in un corridoio, con del
sangue secco e delle bende sul dorso delle mani e sul gomito. Pensai che forse
ero caduta e ora mi trovavo nell’ufficio del responsabile del campus. Ero calma
e mi chiedevo dove fosse mia sorella. Un agente mi disse che ero stata
violentata. Mantenni la calma, convinta che stesse parlando con la persona
sbagliata: non conoscevo nessuno a quella festa. Quando finalmente mi
lasciarono andare in bagno, mi abbassai i pantaloni che mi avevano dato in
ospedale, feci per abbassarmi le mutande e non sentii niente. Ricordo ancora la
sensazione che provai quando le mie mani toccarono la pelle, non trovando
niente. Guardai in basso e vidi che non c’era niente. Quel sottile strato di
tessuto, l’unica cosa tra la mia vagina e qualsiasi altra cosa, non c’era, e
dentro me cadde il silenzio. Non ho ancora parole per descrivere quella
sensazione. Per continuare a respirare, pensai che forse dei poliziotti le
avessero tagliate con le forbici per usarle come prova. Poi, sentii degli aghi di
pino che mi graffiavano dietro al collo, e iniziai a togliermene altri dai
capelli. Pensai che forse gli aghi erano caduti da un albero, finendomi in
testa. Il mio cervello stava parlando alla mia pancia per non farmi crollare.
Perché quello che la mia pancia stava dicendo era aiutatemi, aiutatemi.
Mi trascinai di stanza in stanza
avvolta da una coperta, lasciandomi dietro una scia di aghi di pino e
formandone un mucchietto in ogni stanza in cui passavo. Mi chiesero di firmare
documenti in cui c’era scritto «Vittima di stupro», e lì pensai che fosse
davvero successo qualcosa. Mi avevano requisito i vestiti ed ero nuda, mentre
le infermiere misuravano le diverse abrasioni sul mio corpo con un righello e
le fotografavano. Con le due infermiere mi pettinai i capelli per togliermi gli
aghi di pino, sei mani al lavoro per riempirne un sacchetto. Per calmarmi, mi
dissero che era soltanto flora e fauna, flora e fauna. Mi inserirono diversi
tamponi nella vagina e nell’ano, mi fecero delle iniezioni, mi diedero delle
pastiglie, e c’era una macchina fotografica puntata in mezzo alle mie gambe
divaricate. Inserirono dentro di me dei lunghi beccucci appuntiti e versarono
nella mia vagina una specie di vernice blu e fredda per controllare se ci
fossero abrasioni. Dopo qualche ora passata in questo modo mi lasciarono fare
una doccia. Esaminai il mio corpo sotto il getto di acqua e decisi che non lo
volevo più. Mi terrorizzava, non sapevo cosa ci fosse entrato, se era stato
contaminato, chi l’avesse toccato. Volevo togliermi il mio corpo come se fosse
una giacca e lasciarlo in ospedale insieme a tutto il resto.
Quella mattina, le uniche cose
che mi dissero furono che ero stata trovata dietro a un cassonetto, che forse
ero stata penetrata da uno sconosciuto e che avrei dovuto rifare il test per
l’HIV perché non sempre i risultati sono corretti da subito. Per il momento,
però, sarei dovuta andare a casa e tornare alla mia vita di sempre.
Immaginatevi cosa significhi dover tornare nel mondo avendo soltanto queste
informazioni. Mi diedero dei grandi abbracci e io uscì dall’ospedale per andare
verso il parcheggio, con addosso la nuova felpa e i pantaloni della tuta che mi
avevano dato, visto che mi avevano fatto tenere solo la mia collana e le
scarpe. Mi venne a prendere mia sorella. La sua faccia era bagnata dalle
lacrime e deformata dall’angoscia. Istintivamente, ebbi subito il desiderio di
farla smettere di soffrire. Le sorrisi e le dissi di guardarmi: ero lì e stavo
bene, andava tutto bene, ero lì con lei; avevo lavato i capelli, in ospedale mi
avevano dato uno shampoo stranissimo, doveva calmarsi, e guardarmi; guardare
questi strani pantaloni della tuta e questa felpa, sembravo una professoressa
di educazione fisica; ora dovevamo andare a casa e mangiare qualcosa. Non
sapeva che sotto i pantaloni, sulla mia pelle, c’erano graffi e bende, che la
mia vagina mi faceva male e aveva preso uno strano colore scuro per via di
tutti gli esami, che non avevo le mutande e che mi sentivo troppo svuotata per
continuare a parlare. Che avevo paura, e che ero distrutta.
Quel giorno tornammo a casa e mia
sorella mi abbracciò per ore. Il mio ragazzo non sapeva cos’era successo, ma
quel giorno mi chiamò e mi disse: «Ieri sera mi sono preoccupato molto, mi hai
spaventato, sei riuscita a tornare a casa tranquilla?». Ero terrorizzata. In
quel momento scoprii che quella notte l’avevo chiamato durante il mio blackout,
che gli avevo lasciato un messaggio incomprensibile in segreteria, e che
avevamo anche parlato al telefono, ma che biascicavo così tanto da averlo fatto
spaventare, e che mi aveva detto più volte di andare a cercare mia sorella. Me
lo chiese di nuovo: «Cosa è successo ieri sera? Sei riuscita a tornare a casa
tranquilla?». Gli dissi di sì, poi riattaccai e cominciai a piangere.
Non ero pronta a raccontare al
mio ragazzo o ai miei genitori che forse mi avevano stuprata dietro un
cassonetto, ma che non sapevo chi fosse stato, né quando o come fosse successo.
Se glielo avessi raccontato, avrei visto la paura sulle loro facce, che avrebbe
fatto moltiplicare la mia di dieci volte. Quindi finsi che non fosse vero.
Cercai di spingere il pensiero fuori dalla mia testa, ma era così pesante che
non riuscii a parlare, mangiare, dormire, né interagire con nessuno. Dopo il
lavoro, prendevo la macchina per andare in qualche posto isolato e urlare. Non
parlavo, non mangiavo, non dormivo, e non interagivo con nessuno, e mi isolai
dalle persone a cui volevo più bene. Per una settimana nessuno mi chiamò o mi
diede aggiornamenti su quello notte o su cosa mi era successo. L’unica cosa che
dimostrava che non era stato solo un brutto sogno era la felpa dell’ospedale
nel mio cassetto. Un giorno al lavoro mentre scorrevo le notizie sul mio
telefono, capitai su un articolo. Leggendolo, venni a sapere per la prima volta
che ero stata trovata svenuta, con i capelli arruffati, la mia lunga collana
attorcigliata intorno al collo, il reggiseno fuori dal vestito, il vestito
tirato su dalla vita fin sopra alle spalle, che ero completamente nuda fino
agli stivali, con le gambe divaricate, e che ero stata penetrata da un corpo
estraneo da una persona che non riconobbi. Questo fu il modo in cui scoprii
cosa mi era successo, seduta alla mia scrivania mentre leggevo le notizie al
lavoro. Scoprii cosa mi era successo nello stesso momento il cui lo scoprì il
resto del mondo. In quel momento capii perché avevo degli aghi di pino tra i
capelli: non erano caduti da un albero. Mi aveva tolto le mutande e le sue dita
erano state dentro di me. Non la conoscevo nemmeno questa persona. Non la conosco
ancora oggi. Quando lessi di come mi avevano trovata, mi dissi che non potevo
essere io. Non potevo essere io. Non potevo elaborare né accettare nessuna di
quelle informazioni. Non potevo pensare che la mia famiglia avrebbe dovuto
scoprirlo da Internet. Continuai a leggere. Nel paragrafo dopo, lessi una cosa
che non perdonerò mai. Che secondo lui mi era piaciuto. Mi era piaciuto. Non ho
davvero parole per descrivere cosa provai.
È come se leggeste in un articolo
su un’auto trovata ammaccata in un fosso che magari alla macchina era piaciuto.
Che forse l’altra macchina non aveva intenzione di speronarla, solo di darle un
colpetto. Le auto fanno incidenti tutti i giorni, le persone non ci badano,
possiamo davvero dire di chi sia la colpa?
Verso la fine dell’articolo –
dopo aver letto i dettagli espliciti della violenza sessuale che avevo subito –
l’articolo parlava del periodo in cui faceva nuoto. “Quando l’hanno trovata
respirava ma non reagiva, le sue mutande erano a 15 centimetri dal suo ventre
nudo, ed era in posizione fetale”. E comunque, lui è un ottimo nuotatore. Già
che ci siamo, metteteci anche in quanto tempo corro un chilometro. Sono brava a
cucinare, scrivete anche questo. Immagino che la fine degli articoli sia il
punto in cui si parla delle capacità extracurriculari, per cancellare tutte le
cose nauseanti che sono state raccontate sopra.
La sera in cui uscì la notizia
feci sedere i miei genitori e raccontai loro che ero stata violentata, dissi
loro di non guardare il telegiornale perché era una cosa impressionante, e che
la cosa importante era che stavo bene, ero lì con loro e stavo bene. Ma mentre
parlavo mia mamma dovette sorreggermi perché non riuscivo più a stare in piedi.
Non stavo bene.
La notte dopo avermi violentata,
disse che non sapeva come mi chiamassi e che non sarebbe stato in grado di
riconoscere la mia faccia. Ha detto che quella sera non avevamo parlato,
nessuna parola, avevamo solo ballato e ci eravamo baciati. “Ballato” è un
termine carino. Schioccavamo le dita e facevamo delle giravolte, o erano solo
dei corpi che si strofinavano in una stanza piena di gente? Mi chiedo se “baciarsi” non sia stato solo
premere sciattamente le nostre facce una contro l’altra. Quando l’investigatore
gli chiese se avesse avuto intenzione di portarmi in camera sua, disse di no. E
quando gli chiese come eravamo finiti dietro il cassonetto, disse che non lo
sapeva. Ammise di aver baciato altre ragazze a quella festa, tra cui mia
sorella, che lo respinse. Ammise che voleva fare sesso con qualcuno. Io ero
l’antilope ferita del branco, completamente sola e vulnerabile, fisicamente
incapace di cavarmela da sola, e per questo scelse me. A volte penso che se non fossi andata alla
festa, tutto questo non sarebbe mai successo. Ma poi ho capito che invece sarebbe
successo comunque, semplicemente a qualcun altro. Eri all’inizio di quattro
anni di università in cui avresti incontrato ragazze ubriache e feste, e se
questo è stato il tuo modo di cominciare, allora è meglio che tu non abbia
continuato. La notte dopo avermi violentata, disse che pensava che mi stesse
piacendo perché gli avevo passato la mano sulla schiena. Una mano sulla
schiena. Non ha mai detto che gli avevo dato il mio consenso, o che avevamo
parlato. Una mano sulla schiena. Ancora una volta grazie ai giornali scoprii
che il mio culo e la mia vagina erano completamente scoperti, che i miei seni
erano stati palpati, e che dentro di me erano state infilate dita, insieme ad
aghi di pino e sporcizia, che la mia pelle nuda e la mia testa strisciavano a terra
dietro un cassonetto, mentre uno studente del primo anno in erezione scopava
con il mio corpo mezzo nudo e senza conoscenza. Però non me lo ricordo, quindi
come faccio a dimostrare che non mi è piaciuto?
Pensavo che non ci sarebbe mai
stato un processo. C’erano dei testimoni, nel mio corpo c’era della terra; lui
era scappato, ma l’avevano preso. Cercherà di patteggiare, si scuserà
formalmente, e tutti e due andremo avanti. Invece, mi dissero che aveva assunto
un avvocato importante, dei periti, e degli investigatori privati che avrebbero
cercato dettagli della mia vita privata da poter usare contro di me, delle
falle nella mia storia per smentire me e mia sorella, per dimostrare che questa
storia della violenza sessuale era in realtà un malinteso. Che avrebbe fatto di
tutto per convincere il mondo che era semplicemente poco lucido. Non mi dissero
solo che avevo subito una violenza, ma anche che visto che non riuscivo a
ricordare, tecnicamente non potevo dimostrare che non fossi consenziente.
Questo ha dato un’immagine distorta di me, mi ha danneggiato, e mi ha quasi
distrutto. Sentirsi dire che ero stata aggredita e stuprata, all’aperto in modo
così sfacciato, ma che ancora non era chiaro se avrebbe contato come violenza,
mi fece provare la peggior sensazione di confusione. Ho dovuto lottare per un
anno intero per far capire che c’era qualcosa di sbagliato in questa
situazione.
Quando mi fu detto di prepararmi
alla possibilità che non avremmo vinto, dissi che non potevo prepararmi a una
cosa del genere. È stato colpevole fin dal momento in cui mi sono svegliata.
Nessuno può eliminare a parole il dolore che mi ha causato. La cosa peggiore di
tutte fu quando mi avvertirono che lui avrebbe deciso come erano andate le
cose, perché ora sapeva che non mi ricordavo niente. Avrebbe potuto dire quello
che voleva, e nessuno avrebbe potuto contestare niente. Ero impotente, non
avevo voce in capitolo, ero indifesa. La mia perdita di memoria sarebbe stata
usata contro di me. La mia testimonianza era debole e incompleta, e mi fu fatto
credere che forse non era abbastanza per vincere questa causa. Fa davvero male.
Il suo avvocato ha continuato a ricordare alla giuria che l’unica persona a cui
possiamo credere è Brock, perché lei non si ricorda. Questa sensazione di impotenza
fu un trauma.
Invece di prendermi il tempo di
guarire, passavo il tempo cercando di ricordare quella notte nei suoi dettagli
strazianti, in modo da prepararmi alle domande del suo avvocato, che sarebbero
state invasive, aggressive, e pensate per mandarmi fuori strada, per far
contraddire me e mia sorella, e formulate in modo da manipolare le mie
risposte. Al posto di dirmi Hai notato abrasioni?, il suo avvocato diceva Non
hai notato abrasioni, vero? Era un gioco di strategia, come se fosse possibile
portare via il mio valore con l’inganno. Anche se la violenza sessuale era
stata evidente, ero a processo, a dover rispondere a domande come queste:
Quanti anni ha? Quanto pesa? Cosa
aveva mangiato quel giorno? E cosa aveva mangiato a cena? Chi aveva preparato
la cena? Aveva bevuto a cena? Nemmeno dell’acqua? Quando bevve? Quanto bevve?
Da che contenitore bevve? Chi le diede da bere? Quanto beve di solito? Chi
l’aveva portata alla festa? A che ora? Ma dove, esattamente? Come era vestita?
Perché era andata a quella festa? Cosa fece quando arrivò? È sicura di averlo
fatto? Ma a che ora lo fece? Cosa significa questo messaggio? A chi stava
scrivendo? Quando urinò? Dove urinò? Con chi andò a urinare fuori? Il suo
telefono era impostato sul silenzioso quando chiamò sua sorella? Si ricorda di
aver inserito il silenzioso? Vorrei far notare che a pagina 53 aveva detto che
la suoneria era inserita. Beveva all’università? Ha detto che era un “animale
da festa”? Quante volte le è capitato di svenire? Frequentava le feste delle
confraternite? Con il suo ragazzo è una cosa seria? È sessualmente attiva con
lui? Quando avete iniziato a uscire? Lo tradirebbe mai? Ha tradito in passato?
Cosa intendeva quando ha detto che lo voleva premiare? Si ricorda a che ora si
svegliò? Indossava il suo cardigan? Di che colore era il suo cardigan? Ricorda
qualcos’altro di quella notte? No? D’accordo, lasceremo che sia Brock a
dircelo.
Fui colpita da una raffica di
domande circoscritte e mirate che hanno dissezionato la mia vita privata, la
mia vita sentimentale, la mia vita passata, e quella familiare. Domande
stupide, che avevano lo scopo di accumulare dettagli irrilevanti e cercare una
scusa per il tizio che non aveva nemmeno perso il tempo di chiedermi come mi
chiamavo, che mi aveva spogliata qualche minuto dopo avermi vista per la prima
volta. Dopo essere stata aggredita fisicamente, fui aggredita con delle domande
pensate per attaccarmi, in modo da poter dire: vedete? La sua versione non
torna, è fuori di testa, praticamente è un’alcolizzata, probabilmente voleva
fare sesso, lui è un atleta, erano entrambi ubriachi, le cose che ricorda
dell’ospedale sono successe dopo il fatto, perché prenderle in considerazione?
Brock si gioca molto e sta passando davvero un brutto periodo in questo momento.
Poi arrivò il momento della sua
testimonianza, e tornai a essere una vittima. Voglio ricordarvi che dopo quella
notte aveva detto di non aver mai avuto intenzione di portarmi in camera sua.
Aveva detto che non sapeva perché eravamo dietro un cassonetto. Che si era
alzato e se ne era andato perché non si sentiva bene, quando all’improvviso era
stato inseguito e attaccato. Poi scoprì che non mi ricordavo niente. Così un
anno dopo, come previsto, saltò fuori una nuova storia. Brock aveva una nuova,
strana versione che sembrava un romanzo per adolescenti scritto male in cui
c’erano baci, si ballava, ci si teneva la mano e si cadeva romanticamente per
terra. La cosa più importante, però, è che nella nuova storia all’improvviso
c’era il consenso. Un anno dopo il fatto, si era ricordato che, sì, comunque
lei aveva detto sì, era d’accordo su tutto. Raccontò che mi aveva chiesto se
volevo ballare. A quanto pare, gli dissi di sì. Mi aveva chiesto se volevo
andare nel suo dormitorio, e io avevo detto di sì. Poi mi aveva chiesto se
poteva penetrarmi con le dita, e io dissi di sì. La maggior parte dei ragazzi
non chiede posso penetrarti con le dita? Di solito le cose succedono
gradualmente, in modo naturale e consensuale, non è una sessione di domande e
risposte. Ma a quanto pare, io gli avevo dato il permesso di fare tutto. Era
innocente. Anche nella sua versione della storia io ho detto soltanto tre
parole in totale prima di ritrovarmi mezza nuda per terra, sì sì sì. Per il
futuro: se hai il dubbio che una ragazza possa davvero darti il suo consenso,
assicurati che possa completare una frase intera. Non sei riuscito a fare
nemmeno quello. Una sequenza di parole coerenti. Cosa c’è di difficile da
capire? È senso comune. Decenza umana.
Secondo lui, l’unico motivo per
il quale eravamo per terra è che io ero caduta. Un appunto: se una ragazza
cade, aiutala a rialzarsi. Se è troppo ubriaca anche per camminare e cade, non
salirle sopra, non scoparla, non toglierle le mutande, e non mettere la tua
mano nella sua vagina. Se una ragazza cade, aiutala a rialzarsi. Se indossa un
cardigan sopra il vestito, non toglierglielo per toccarle il seno. Forse ha
freddo, forse è per questo che indossava il cardigan. Se il suo culo e le sue
gambe sono nudi e sfregano contro pigne e aghi mentre con il tuo peso spingi
dentro di lei, togliti da sopra di lei.
Nella tua storia, poi, si
avvicinarono due ragazzi svedesi che passavano in bicicletta. Secondo me sei
scappato perché ti avevano preso, non perché eri spaventato di due terrificanti
studenti universitari svedesi. L’idea che tu pensassi di essere stato attaccato
senza motivo è semplicemente ridicola. Che il fatto che tu fossi sopra il mio
corpo incosciente non c’entrasse niente. Sei stato colto sul fatto, non ci sono
spiegazioni. Quando ti aggredirono, perché non hai detto «Fermi! Va tutto bene,
chiedete a lei, è lì, ve lo dirà lei»? Mi avevi appena chiesto il permesso, no?
Ero sveglia, no? Quando arrivarono i poliziotti e interrogarono lo svedese
cattivo che ti aveva appena attaccato, stava piangendo così forte per quello
che aveva visto da non riuscire a parlare. E comunque, se davvero pensavi che
fossero pericolosi, quello che hai fatto è stato abbandonare una ragazza mezza
nuda per scappare e metterti in salvo. In qualsiasi modo la giri, non ha senso.
Il tuo avvocato ha sottolineato
ripetutamente che bé, non sappiamo esattamente quando la ragazza ha perso
conoscenza. Vero, magari stavo ancora sbattendo gli occhi e il mio corpo non
era ancora del tutto molle, d’accordo. Ma non è quello il punto. Ero troppo
ubriaca per poter parlare, troppo ubriaca per essere consenziente molto prima
di finire per terra. Non avrei mai dovuto essere toccata. Brock ha detto: «Non
mi sono mai accorto che non reagiva. Se in qualsiasi momento mi fossi accorto
che non reagiva, mi sarei fermato subito». Ecco. Se avevi intenzione di
fermarti solo quando avessi smesso letteralmente di reagire, allora non hai
ancora capito. E comunque non ti sei fermato nemmeno quando ho smesso di
reagire! È stato qualcun altro a fermarti. Due ragazzi in bici si erano accorti
nel buio che non mi muovevo e sono dovuti intervenire. Come hai fatto a non
accorgertene tu, mentre eri sopra di me?
Hai detto che ti saresti fermato
e avresti chiesto aiuto. L’hai detto, ma voglio che spieghi come mi avresti
aiutato, passo dopo passo, fammi capire. Voglio sapere come sarebbe andata
avanti la serata se quegli svedesi cattivi non mi avessero trovato. Te lo sto
chiedendo. Mi avresti tirato su le mutande? Avresti sbrogliato la collana
attorcigliata intorno al mio collo? Avresti chiuso le mie gambe e mi avresti
coperta? Mi avresti rimesso il reggiseno nel vestito? Mi avresti aiutata a
togliermi gli aghi di pino dai capelli? Mi avresti chiesto se le abrasioni che
avevo sul collo e sul sedere mi facevano male? Saresti andato da un tuo amico e
gli avresti chiesto di aiutarti a portarmi in un posto caldo e comodo? Quando
penso a come sarebbero potute andare le cose se gli svedesi non fossero mai
arrivati, non riesco a dormire. Cosa mi sarebbe successo? Questa è la domanda
per cui non avrai mai una risposta valida, la cosa che non sei in grado di
spiegare nemmeno dopo un anno.
E poi: lui dice che raggiunsi
l’orgasmo dopo un minuto di penetrazione con le dita. L’infermiera ha detto che
c’erano abrasioni, lacerazioni e sporcizia nei miei genitali. È successo prima
o dopo il mio orgasmo?
Dire a tutti noi, sotto
giuramento, che sì, lo volevo, che l’ho permesso, e che sei tu la vera vittima,
che sei stato attaccato da due ragazzi per ragioni sconosciute, è una cosa
ripugnante, da dementi, egoista e stupida. Dimostra che eri disposto a fare
qualsiasi cosa pur di screditarmi, smentirmi e spiegare che andava bene farmi
del male. Hai provato ostinatamente a salvare te stesso e la tua reputazione a
mie spese.
La mia famiglia ha dovuto vedere
le foto della mia testa legata a una barella, piena di aghi di pino; del mio
corpo per terra con gli occhi chiusi, il vestito tirato su, braccia e gambe
molli nel buio. E anche dopo tutto questo, la mia famiglia ha dovuto ascoltare
il tuo avvocato che diceva che le foto erano state scattate dopo il fatto, che
potevamo scartarle. Ha dovuto ascoltarlo mentre diceva che, sì, l’infermiera ha
confermato il rossore e le abrasioni dentro il suo corpo, ma è questo che
succede quando penetri qualcuno con le dita, e lui questo lo ha già ammesso. Ha
dovuto ascoltarlo mentre usava mia sorella contro di me. Ascoltarlo mentre
cercava di descrivermi come un provocante animale da festa, come se in qualche
modo questo facesse sì che me la fossi andata a cercare. Ha dovuto ascoltarlo
mentre raccontava che il motivo per cui al telefono sembravo ubriaca è che sono
stupida, e che quello era il mio modo scemo di parlare. Mentre sottolineava che
nel messaggio che avevo lasciato al mio ragazzo in segreteria, gli avevo detto
che l’avrei premiato, e sappiamo tutti a cosa stavo pensando. Vi assicuro che
le mie ricompense non sono trasferibili, soprattutto non al primo sconosciuto
che mi si avvicina.
Il punto è che questo è quello
che la mia famiglia e io abbiamo dovuto sopportare durante il processo. Ho
dovuto ascoltare tutto questo seduta in silenzio, subirlo, mentre lui inventava
il racconto della serata. Dover soffrire è già abbastanza. Ma dover sentire una
persona che cerca in modo spietato di sminuire la gravità e la validità di
questa sofferenza è un’altra cosa. Alla fine, però, le sue affermazioni
infondate e la logica contorta del suo avvocato non hanno ingannato nessuno. La
verità ha vinto. La verità parla da sola.
Sei colpevole. Dodici membri
della giuria ti hanno giudicato colpevole di tre capi di accusa al di là di
ogni ragionevole dubbio; sono dodici voti per ogni capo di accusa, trentasei
“sì” che confermano la tua colpevolezza, il cento per cento: sei stato
giudicato colpevole all’unanimità. Ho pensato che fosse finalmente finita;
finalmente avrebbe confessato quello che ha fatto, si sarebbe scusato davvero,
entrambi saremmo andati avanti e le cose sarebbero migliorate. Poi ho letto la
tua dichiarazione. Se speri che uno dei miei organi imploda per la rabbia e io muoia,
ci sono quasi. Ci sei molto vicino. Un’aggressione non è un incidente. Questo
non è un altro caso di sesso tra universitari ubriachi che hanno fatto una
scelta sbagliata. In qualche modo, ancora non ci arrivi. In qualche modo,
sembri ancora confuso.
Ora vorrei leggere parti della
dichiarazione dell’imputato, e rispondere.
Tu hai detto: Ero ubriaco e non
ero in grado di prendere le decisioni migliori, e nemmeno lei.
L’alcol non è una scusa. È un
fattore? Sì. Ma non è stato l’alcol a spogliarmi, penetrarmi con le dita e
farmi strisciare la testa per terra, mentre ero quasi completamente nuda.
Ammetto che bere troppo è stato un errore da principianti, ma non è un reato.
Tutti in quest’aula abbiamo avuto una serata in cui abbiamo bevuto troppo, di
cui ci pentiamo, o conosciamo bene qualcuno che l’ha fatto e ne è pentito.
Pentirsi per aver bevuto non è uguale a doversi pentire di aver aggredito
sessualmente qualcuno. Eravamo entrambi ubriachi, ma la differenza è che io non
ti ho tolto i pantaloni e le mutande, e toccato in modo inappropriato per poi
scappare via. È questa la differenza.
Hai detto: Se avessi voluto
conoscerla avrei dovuto chiederle il numero, invece di chiederle di andare in
camera mia.
Non sono furiosa perché non mi
hai chiesto il numero. Anche se mi avessi conosciuto, non avrei voluto trovarmi
in quella situazione. Il mio ragazzo mi conosce, ma se chiedesse di penetrami
con le dita dietro un cassonetto, gli darei uno schiaffo. Nessuna ragazza vuole
trovarsi in quella situazione. Nessuna. Non mi interessa se hai il suo numero
di telefono o meno.
Hai detto: Ho pensato
stupidamente di fare quello che tutti gli altri intorno a me stavano facendo,
cioè bere. Mi sbagliavo.
Lo ripeto: non hai sbagliato
perché hai bevuto. Tutti gli altri intorno a te non mi stavano aggredendo
sessualmente. Hai sbagliato perché hai fatto una cosa che non stava facendo
nessun altro, cioè aver spinto il cazzo eretto che avevi nei pantaloni contro
il mio corpo nudo e indifeso, nascosto in una zona buia dove le altre persone
alla festa non potevano vedermi e proteggermi, e mia sorella non poteva
trovarmi. Il tuo reato non è aver bevuto uno shot. Togliermi le mutande e
buttarle come fossero la carta di una caramella per inserire le tue dita nel
mio corpo: è stato questo il tuo errore. Perché lo devo spiegare di nuovo?
Hai detto: non volevo
assolutamente accanirmi su di lei durante il processo. È stato il mio avvocato
e la sua strategia per gestire la causa.
L’avvocato non è il tuo capro
espiatorio, rappresenta te. Il tuo avvocato ha detto delle cose incredibilmente
esasperanti e umilianti? Certo. Ha detto che ti era venuta un’erezione perché
faceva freddo.
Ha detto che stai creando un
programma per studenti delle superiori e universitari in cui racconterai la tua
esperienza per «Sensibilizzare contro la cultura dell’alcol nelle università e
la promiscuità sessuale che ne deriva».
Sensibilizzare contro la cultura
dell’alcol nelle università. È di questo che vuoi parlare? Pensi sia questa la
cosa che ho passato a combattere nell’ultimo anno? Non a sensibilizzare contro
le violenze sessuali nei campus universitari, o lo stupro, o sull’imparare a
riconoscere il consenso. La cultura dell’alcol nelle università. Abbasso il
Jack Daniels. Abbasso la vodka Skyy. Se vuoi parlare ai ragazzi delle superiori
dell’alcol, vai a un incontro degli alcolisti anonimi. Capisci che avere un
problema con l’alcol è una cosa diversa dal bere e poi cercare di avere sesso
con qualcuno con la forza? Mostra agli uomini come rispettare le donne, non a
bere meno.
La cultura alcolica e la
promiscuità sessuale che ne deriva. Che ne deriva, come se fosse un effetto collaterale,
le patatine che ordini come contorno al tuo piatto. Cosa c’entra la
promiscuità? Non ho letto titoli di giornali che dicevano: Brock Turner,
colpevole di aver bevuto troppo e della promiscuità sessuale che ne deriva. La
violenza sessuale nei campus. Eccoti la prima slide per la tua presentazione.
Ho spiegato abbastanza. Ora non
puoi più scrollare le spalle ed essere confuso. Non puoi fare finta che non ci
siano stati dei segnali. Non puoi più non sapere perché sei scappato. Sei stato
dichiarato colpevole di avermi violato con dolo, e tutto quello che riesci ad
ammettere è di aver bevuto. Non parlare nel modo triste in cui la tua vita è
stata sconvolta per colpa dell’alcol che ti ha fatto fare brutte cose. Trova il
modo di assumerti la responsabilità della tua condotta.
Per concludere, hai detto: Voglio
far vedere alle persone che una serata da ubriachi può rovinare una vita.
Rovinare una vita, una vita sola,
la tua: ti sei dimenticato della mia. Permetti di riformulare la frase per te:
Voglio far vedere alle persone che una serata da ubriachi può rovinare due
vite. La tua e la mia. Tu sei la causa, io sono la conseguenza. Tu mi hai
trascinato con te in quest’inferno, mi hai fatto immergere di nuovo in quella
notte, volta dopo volta. Hai fatto crollare entrambi i nostri castelli. Il tuo
è stato un danno concreto: ti hanno portato via i tuoi titoli sportivi, quelli
di studio, e l’iscrizione all’università. Il mio è stato interiore, invisibile,
lo porto con me: mi hai portato via il mio valore, la mia privacy, la mia
energia, il mio tempo, la mia sicurezza, la mia intimità, la mia fiducia e la
mia voce, fino a oggi.
Una cosa che abbiamo in comune è
che tutti e due non riuscivamo ad alzarci la mattina. Non sono stata estranea
alla sofferenza. Hai fatto di me una vittima. Il mio nome sui giornali era
«donna ubriaca priva di sensi». Dieci sillabe e niente di più. Per un po’, ho
pensato di essere solo quello. Ho dovuto obbligare me stessa a imparare di
nuovo il mio vero nome e la mia identità. A imparare di nuovo di non essere
solo quello. Che non sono solo la vittima ubriaca a una festa di una
confraternita dietro un cassonetto, mentre tu saresti il nuotatore tipicamente
americano che frequenta un’università esclusiva, innocente fino a prova
contraria, con così tanto da perdere. Sono un essere umano che è stato ferito
in modo irreversibile. Che ci ha messo un anno per capire se valeva qualcosa.
La mia indipendenza, la mia gioia
di vivere, la mia delicatezza e il mio stile di vita regolare sono stati
stravolti in modo irriconoscibile. Mi sono chiusa in me stessa, sono diventata
arrabbiata, senza autostima, stanca, irritabile e vuota. A volte l’isolamento
era insopportabile. Non puoi ridarmi la vita che avevo prima di quella notte.
Mentre tu ti preoccupavi per la tua reputazione distrutta, tutte le sere io
mettevo dei cucchiai in frigo in modo che, quando la mattina dopo mi sarei
svegliata con gli occhi gonfi per il pianto, potevo mettermeli sopra gli occhi
per sgonfiarli e riuscire a vedere. Ogni mattina, mi presentavo al lavoro con
un’ora di ritardo, e mi alzavo scusandomi per andare a piangere sulle scale;
posso dirti quali sono i posti migliori in quel palazzo per piangere, quelli
dove nessuno può sentirti. Stavo così male che ho dovuto dire al mio capo che lasciavo
il lavoro, che avevo bisogno di tempo perché continuare così ogni giorno era
impossibile. Ho usato i miei risparmi per andare il più lontano possibile.
Di notte, non riesco a dormire da
sola se non ho una luce accesa, come una bambina di cinque anni, perché ho
incubi in cui vengo toccata e non riesco a svegliarmi. Allora aspettavo l’alba
per sentirmi abbastanza sicura per andare a letto. Per tre mesi, sono andata a
letto alle sei del mattino.
Una volta ero orgogliosa della
mia indipendenza. Ora ho paura di fare una passeggiata di sera, di andare a
eventi sociali dove si beve tra amici, situazioni in cui dovrei sentirmi a mio
agio. Sono diventata come quei crostacei che stanno attaccati alle rocce, ho
sempre bisogno che ci sia qualcuno al mio fianco, che il mio ragazzo stia
vicino a me, che dorma con me, e mi protegga. È imbarazzante quanto sia
diventata debole, con quanta timidezza mi muova nella mia vita, sempre in
guardia, pronta a difendermi e ad arrabbiarmi. Non hai idea di quanto duramente
io abbia lavorato per ricostruire parti di me che sono ancora deboli. Mi ci
sono voluti otto mesi solo per parlare di quello che era successo. Non riuscivo
più ad avere un rapporto con i miei amici e con le persone intorno a me. Urlavo
contro il mio ragazzo e la mia famiglia tutte le volte che tiravano fuori
l’argomento. Tu non mi permetti di dimenticare mai quello che è successo. Alla
fine di ogni udienza durante il processo, ero troppo stanca per parlare. Quando
me ne andavo ero prosciugata e rimanevo in silenzio. Andavo a casa e spegnevo
il telefono. Non parlavo per giorni. Mi hai comprato un biglietto per un
pianeta dove vivevo isolata. Ogni volta che usciva un nuovo articolo vivevo con
la paranoia che tutta la città scoprisse che la ragazza aggredita ero io. Non
volevo la compassione di nessuno e sto ancora imparando ad accettare che essere
vittima è parte della mia identità. Hai trasformato la mia città in un posto
dove mi sento a disagio. Un giorno potrai ridarmi indietro i soldi per
l’ambulanza e le cure. Ma non potrai mai ridarmi indietro le mie notti insonni.
Il modo in cui iniziavo a singhiozzare senza potermi controllare quando in un
film veniva fatto del male a una donna. Questa esperienza ha aumentato la mia
empatia verso le altre vittime, per usare un eufemismo. Sono dimagrita per lo
stress, e quando me lo facevano notare, rispondevo che stavo correndo molto in
quel periodo. Ci sono momenti in cui non voglio essere toccata. Devo imparare
di nuovo che non sono fragile, che sono una persona capace e sana, e non solo
furiosa e debole.
Voglio dire una cosa. Posso
sopportare tutti i pianti e la sofferenza che mi hai causato. Ma quando vedo la
mia sorellina che soffre, quando non riesce ad andare bene a scuola, quando è
triste, non dorme, quando piange così forte al telefono da non riuscire quasi a
respirare, ripetendomi in continuazione che le dispiace avermi lasciato sola
quella notte, quando lei si sente più in colpa di te, allora non ti perdono.
Quella notte l’avevo chiamata per cercarla, ma tu mi hai trovato prima di lei.
Il tuo avvocato ha iniziato la sua arringa finale dicendo: «Sua sorella ha
detto che stava bene: chi la conosce meglio di sua sorella?». Hai cercato di
usare mia sorella contro di me. I tuoi attacchi sono stati davvero deboli, dei
colpi bassi: erano quasi imbarazzanti. Non ti azzardare a toccare mia sorella.
Se pensi che io sia stata
risparmiata, che ne sia uscita indenne, e che oggi per me sia tutto finito,
mentre tu sei qui a prenderti la botta peggiore, ti sbagli. Non ci sono
vincitori. Siamo tutti devastati, stiamo tutti cercando un significato in mezzo
a tutta questa sofferenza. Non avresti mai dovuto farmi una cosa del genere. E
in secondo luogo, non avresti mai dovuto farmi lottare per così tanto tempo,
per dirti che non avresti mai dovuto farmi una cosa del genere. Ma ora siamo
qui. Il danno è fatto e nessuno lo può cancellare. Ora entrambi abbiamo una
scelta. Possiamo lasciare che tutto questo ci distrugga. Io posso continuare a
essere arrabbiata e ferita, e tu puoi continuare a negare. Oppure possiamo
affrontare la cosa di petto: io accetto il dolore, tu accetti la pena e andiamo
avanti.
La tua vita non è finita, hai
ancora decenni davanti a te per riscrivere la tua storia. Il mondo è un posto
immenso, molto più grande di Palo Alto e di Stanford e tu ti creerai una spazio
dentro al mondo in cui puoi essere utile e felice. Adesso il tuo nome è
macchiato e io ti sfido a trovartene uno nuovo, in modo di fare qualcosa di
buono per il mondo, che lasci tutti di stucco. Hai un cervello, hai una voce e
un cuore. Usali in modo saggio. La tua famiglia ti ama moltissimo. Questo da
solo può farti superare qualsiasi cosa. La mia mi ha tenuta in piedi durante
tutto questo. La tua farà lo stesso con te e tu andrai avanti. Credo che un
giorno riuscirai a capire tutto questo meglio. Spero che diventerai una persona
migliore e più onesta, che riuscirà a usare questa storia per fare in modo di
evitare che un’altra storia come questa possa mai più succedere. Io sostengo
pienamente il tuo viaggio per guarire e ricostruire la tua vita, perché questo
è l’unico modo in cui potrai iniziare ad aiutare gli altri.
Ora vorrei parlare della
sentenza. Quando ho letto il rapporto del funzionario addetto alla libertà
vigilata sono rimasta incredula, consumata dalla rabbia che alla fine si è
placata, trasformandosi in profonda tristezza. Le mie dichiarazioni sono state
tagliate per essere distorte e messe fuori contesto. Ho combattuto duramente in
questo processo e non lascerò che il risultato sia banalizzato da un funzionario
che ha cercato di valutare il mio stato attuale e i miei desideri in una
conversazione di quindici minuti, la maggior parte dei quali passati a
rispondere alle mie domande sul sistema giudiziario. Anche il contesto è
importante. Brock doveva ancora fare una dichiarazione e io non avevo letto le
sue osservazioni.
La mia vita è rimasta in sospeso
per oltre un anno, un anno di rabbia, angoscia e incertezza, fino a che una
giuria di miei pari ha emesso un giudizio che confermava le ingiustizie che
avevo sopportato. Se Brock avesse ammesso la sua colpa, dimostrato di avere
rimorsi e si fosse offerto prima di patteggiare, avrei preso in considerazione
l’ipotesi di una condanna più lieve, rispettando la sua onestà e grata di poter
andare avanti con le nostre vite. Invece si è assunto il rischio di andare a
processo, aggiungendo insulti e ferite, e costringendomi a rivivere il dolore,
mentre i dettagli della mia vita privata e dell’aggressione sessuale venivano
brutalmente sezionati in pubblico. Ha fatto vivere a me e alla mia famiglia un
anno di sofferenze indicibili, che non erano necessarie e dovrebbe affrontare
le conseguenze per aver messo in dubbio il suo reato e il mio dolore e di
averci fatto aspettare così tanto prima che venisse fatta giustizia. Al funzionario
per la libertà vigilata ho detto che non voglio che Brock marcisca in prigione.
Non ho detto che non merita di finire dietro le sbarre. La raccomandazione del
funzionario per la libertà vigilata, che consiglia un anno o meno in una
prigione della contea, è una punizione morbida, una presa in giro per la
gravità della sua aggressione e le conseguenze del dolore che sono stata
costretta a sopportare. Al funzionario per la libertà vigilata ho anche detto
che quello che volevo veramente era che Brock ci arrivasse, che capisse e
ammettesse il suo errore. Purtroppo, dopo aver letto la dichiarazione
dell’imputato, sono rimasta molto delusa, non è riuscito a mostrare un rimorso
sincero e ad assumersi la responsabilità della sua condotta. Ho totale rispetto
del suo diritto ad avere un processo, ma anche dopo che dodici membri della
giuria lo hanno giudicato all’unanimità colpevole di tre reati, tutto quello
che ha ammesso è di aver ingerito dell’alcol. Una persona che non è in grado di
assumersi la piena responsabilità delle sue azioni non merita uno sconto di
pena. Il fatto che abbia cercato di sminuire lo stupro parlando di promiscuità
è profondamente offensivo. Per definizione lo stupro è l’assenza di
promiscuità, è l’assenza di consenso e il fatto che non riesca nemmeno a capire
la differenza mi turba profondamente.
Il funzionario per la libertà
vigilata ha tenuto conto del fatto che l’imputato è giovane e non ha condanne
alla spalle. Secondo me è abbastanza grande per sapere che quello che ha fatto
è sbagliato. In questo paese quando hai diciotto anni puoi andare in guerra.
Quando ne hai diciannove, sei abbastanza grande per pagare le conseguenze di un
tentato stupro. È giovane, ma è grande abbastanza da non essere così ingenuo.
Dal momento che questo è il suo primo reato, posso capire perché venga invocata
la clemenza. D’altra parte, però, come società non possiamo perdonare tutte le
persone che commettono un’aggressione sessuale o stuprano qualcuno con le dita
per la prima volta. Non ha senso. Bisogna comunicare la gravità di uno stupro
in modo chiaro, non dobbiamo creare una cultura che suggerisce che impariamo a
capire che lo stupro è sbagliato andando per tentativi. Le conseguenze di
un’aggressione sessuale devono essere sufficientemente gravi da far sì che le
persone abbiano abbastanza paura da usare la testa anche se sono ubriache,
abbastanza gravi da evitare che succeda. Il fatto che Brock fosse un atleta di
successo in un’università prestigiosa non dovrebbe essere visto come un diritto
alla clemenza, ma come un’opportunità per mandare un messaggio culturale forte:
l’aggressione sessuale è contro la legge indipendentemente dalla classe
sociale. Il funzionario per la libertà vigilata ha considerato il fatto che ha
dovuto rinunciare a una borsa di studio per il nuoto guadagnata con fatica. Se
fossi stata aggredita sessualmente da un ragazzo non atletico di un’università
pubblica, quale sarebbe la sua condanna? Se un ragazzo al primo reato cresciuto
senza privilegi fosse accusato di tre reati e non mostrasse di essersi assunto
la responsabilità delle proprie azioni, se non per aver bevuto, quale sarebbe
la sua condanna? La velocità con cui nuota non diminuisce l’impatto di quello
che mi è successo.
Il funzionario per la libertà
vigilata ha dichiarato che questa causa, se la confrontiamo ad altri reati di
natura simile, potrebbe essere considerata meno grave visto l’alto stato di
ebbrezza dell’imputato. Sembrava serio, non dirò altro.
La sua aggressione sessuale
rimarrà nei registri per sempre. Non ha scadenza. Come non ce l’ha quello che
mi ha fatto, non sparisce dopo un numero definito di anni. Rimarrà con me; è
parte della mia identità; ha cambiato per sempre il modo in cui mi comporto e
quello in cui vivo per il resto della mia vita. È passato un anno e ha avuto un
sacco di tempo. È andato da uno psicologo? Cosa ha fatto nell’ultimo anno per
dimostrare che sta facendo progressi? Ha detto di voler creare un programma?
Cosa ha fatto per dimostrarlo?
Spero che durante il suo periodo
in carcere gli vengano fornite le terapie e le risorse necessarie per
ricostruire la sua vita. Chiedo che si istruisca sul tema delle aggressioni
sessuali nei campus. Spero che accetti la giusta pena e che si sforzi a
rientrare nella società da persona migliore.
Per finire, vorrei fare dei
ringraziamenti. A tutti, dal medico che mi preparò la colazione quando mi
svegliai in ospedale quella mattina, all’agente che aspettò di fianco a me,
alle infermiere che mi calmarono, all’investigatore che mi ascoltò senza mai
giudicarmi, ai miei avvocati che sono sempre stati saldamente al mio fianco, al
mio terapista che mi ha insegnato a trovare il coraggio nella vulnerabilità, al
mio capo per essere stato gentile e comprensivo, ai miei incredibili genitori
che mi hanno insegnato a trasformare il dolore in forza, ai miei amici che mi
ricordano come essere felice, al mio ragazzo, che è paziente e affettuoso, alla
mia indomabile sorella, che è l’altra metà del mio cuore, ad Alaleh [Alaleh
Kianerci, il viceprocuratore distrettuale che ha curato il caso] il mio idolo,
che ha lottato instancabilmente e non ha mai dubitato di me. Grazie a tutte le
persone coinvolte nel processo per il loro tempo e la loro attenzione. Grazie
alle ragazze in tutto il paese che hanno scritto bigliettini al mio procuratore
distrettuale perché me li consegnasse, tantissimi sconosciuti che tenevano a
me. Soprattutto, grazie ai due uomini che mi hanno salvata, che non ho ancora
conosciuto. Dormo con due biciclette che ho disegnato e attaccato sopra il mio
letto, per ricordarmi che ci sono degli eroi in questa storia. Che ci prendiamo
cura l’uno dell’altra. Non dimenticherò mai di aver conosciuto tutte queste
persone, di aver sentito la loro protezione e il loro amore.
Infine, alle ragazze di tutto il
mondo: sono con voi. Sono con voi nelle notti in cui vi sentite sole. Sono con
voi quando le persone dubitano di voi o vi ignorano. Lotto ogni giorno per voi.
Quindi non smettete mai di lottare, io credo in voi. I fari non se ne vanno in
giro per un’isola cercando barche da salvare; rimangono semplicemente dove
sono, a fare luce. Anche se non posso salvare ogni barca, spero che oggi,
parlando, abbiate assorbito un po’ di luce, la piccola consapevolezza che non
possono mettervi a tacere, la piccola soddisfazione che giustizia è stata fatta,
la piccola rassicurazione del fatto che stiamo raggiungendo un obiettivo, e la
grande, grande consapevolezza che siete importanti, indiscutibilmente, che
siete intoccabili, siete belle, che dovete essere apprezzate, rispettate,
innegabilmente, ogni minuto di ogni giorno, siete potenti e nessuno ve lo può
togliere. Alle ragazze, in tutto il mondo, sono con voi. Grazie.
Testo originale buzzfeed.the-powerful-letter
Questo, invece il testo scritto e postato su Twitter da Dan Allen Turner, padre di Brock.
La vita di Brock è stata modificata per sempre dagli eventi di quella notte fra il 17 e il 18 gennaio. Brock non sarà mai più felice, ha perso la sua personalità semplice e il suo sorriso. Ogni suo minuto da sveglio è consumato da preoccupazione, ansia, paura e dalla depressione. Glielo si vede in faccia, dal modo in cui cammina, dalla voce bassa, dalla mancanza di appetito. A Brock sono sempre piaciuti certi cibi e lui stesso è un ottimo cuoco. Ero sempre felice quando gli compravo una grossa bistecca da fare alla griglia, o i suoi snack preferiti. Ho sempre dovuto nascondere salatini e patatine perché sapevo che, al ritorno da uno dei suoi allenamenti in piscina li avrebbe mangiati tutti ed io non avrei trovato più niente. Questa sentenza ha distrutto lui e tutta la nostra famiglia. La sua vita non sarà più quella che aveva sognato, quella per cui ha faticato.
La vita di Brock è stata modificata per sempre dagli eventi di quella notte fra il 17 e il 18 gennaio. Brock non sarà mai più felice, ha perso la sua personalità semplice e il suo sorriso. Ogni suo minuto da sveglio è consumato da preoccupazione, ansia, paura e dalla depressione. Glielo si vede in faccia, dal modo in cui cammina, dalla voce bassa, dalla mancanza di appetito. A Brock sono sempre piaciuti certi cibi e lui stesso è un ottimo cuoco. Ero sempre felice quando gli compravo una grossa bistecca da fare alla griglia, o i suoi snack preferiti. Ho sempre dovuto nascondere salatini e patatine perché sapevo che, al ritorno da uno dei suoi allenamenti in piscina li avrebbe mangiati tutti ed io non avrei trovato più niente. Questa sentenza ha distrutto lui e tutta la nostra famiglia. La sua vita non sarà più quella che aveva sognato, quella per cui ha faticato.
Questo è il prezzo che dovrà pagare per un’azione durata venti minuti, venti minuti nei suoi oltre vent’anni di vita. Il fatto che verrà segnalato come stupratore influenzerà il resto della sua vita, influenzerà la scelta dei luoghi dove potrà vivere, che potrà visitare, dove potrà lavorare e modificherà il suo modo di interagire con le persone. Quello che so, come padre, è che il carcere non è la giusta punizione per Brock. Non ha precedenti penali e non è mai stato violento. Brock potrebbe fare molte cose positive per la società, potrebbe continuare ad impegnarsi con gli studenti del college parlandogli dei pericoli legati al consumo di alcol e alla promiscuità sessuale.
Con persone come Brock, la società può educare i ragazzi e rompere il ciclo delle sbronze coi loro esiti negativi. La sospensione della pena è ciò che ci vuole per Brock, questo gli permetterebbe di rientrare in società in modo positivo.
Dan Allen Turner
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