Una grigia casa
prefabbricata in via Kachovskaja, uno dei tanti edifici a più piani, tutti
uguali, anonimi e ogni anno sempre più tetri, che caratterizzano una buona metà
di Minsk. L’appartamento dove sono venuta in visita, però, ha qualcosa di
particolare. “Qui da noi troverà due guerre”: è con queste parole che vengo
accolta sulla soglia. Olga Vasilevna Podvisenskaja ha servito come
sottufficiale in un’unità della flotta del Baltico. Suo marito, Saul
Genrichovic, è stato sergente di fanteria.
Si comincia, come
sempre, dalle foto di famiglia.
Sfoglio a lungo gli album, accuratamente e amorosamente ordinati e sempre pronti al posto d’onore. Per gli ospiti ma anche per se stessi. Ogni album ha un titolo: “Le nostre famiglie d’origine”, “La guerra”, “Le nozze”, “I figli”, “I nipoti”. Mi piace questo riguardo per le vicende della propria vita. È un amore per il vissuto che si nutre delle testimonianze fotografiche delle presenze amate che l’hanno abitato. Non mi capita spesso d’imbattermi in un tale senso della casa, della reale presenza della stirpe, di un filo d’unione che attraversa il tempo, anche se sono già stata in centinaia di case, in famiglie d’ogni genere, di intellettuali e persone semplici, in città e in campagna. Indubbiamente, la frequenza delle guerre e delle rivoluzioni per le quali siamo passati ci ha fatto perdere l’abitudine a mantenere il legame con il passato, a tessere con cura la tela della genealogia. A spingere lo sguardo in profondità nel nostro passato ed esserne orgogliosi. Ci siamo, al contrario, affrettati a rimuoverlo dalla memoria, a cancellarne le tracce, perché certi ricordi conservati con cura potevano trasformarsi in prove a carico e costare la vita. Più in là della nonna e del nonno nessuno sa niente e non cerca le proprie radici. Occupati com’eravamo a edificare la storia, vivevamo però alla giornata, della memoria breve del quotidiano.
Sfoglio a lungo gli album, accuratamente e amorosamente ordinati e sempre pronti al posto d’onore. Per gli ospiti ma anche per se stessi. Ogni album ha un titolo: “Le nostre famiglie d’origine”, “La guerra”, “Le nozze”, “I figli”, “I nipoti”. Mi piace questo riguardo per le vicende della propria vita. È un amore per il vissuto che si nutre delle testimonianze fotografiche delle presenze amate che l’hanno abitato. Non mi capita spesso d’imbattermi in un tale senso della casa, della reale presenza della stirpe, di un filo d’unione che attraversa il tempo, anche se sono già stata in centinaia di case, in famiglie d’ogni genere, di intellettuali e persone semplici, in città e in campagna. Indubbiamente, la frequenza delle guerre e delle rivoluzioni per le quali siamo passati ci ha fatto perdere l’abitudine a mantenere il legame con il passato, a tessere con cura la tela della genealogia. A spingere lo sguardo in profondità nel nostro passato ed esserne orgogliosi. Ci siamo, al contrario, affrettati a rimuoverlo dalla memoria, a cancellarne le tracce, perché certi ricordi conservati con cura potevano trasformarsi in prove a carico e costare la vita. Più in là della nonna e del nonno nessuno sa niente e non cerca le proprie radici. Occupati com’eravamo a edificare la storia, vivevamo però alla giornata, della memoria breve del quotidiano.
Ma qui è tutta
un’altra cosa.
“Sono davvero io
questa?”, ride Olga Vasilevna e si siede accanto a me sul divano, prendendo una
foto che la mostra in uniforme da marinaio, decorata di onorificenze militari.
“Ogni volta che guardo queste fotografie mi meraviglio. Saul le ha fatte vedere
alla nostra nipotina di sei anni, che mi ha domandato: ‘Nonnina, prima eri un
ragazzo, vero?’”.
“Volevo chiederle una
cosa, Olga Vasilevna: lei è partita subito per il fronte?”.
“La mia guerra è
cominciata con l’evacuazione, quando ho lasciato la casa, la mia giovinezza.
Per l’intero tragitto il convoglio è stato bombardato, mitragliato, gli aerei
scendevano in picchiata. Ricordo un gruppo di ragazzi di un istituto
professionale, erano saltati giù dal vagone, avevano tutti la divisa
scolastica, nera. Un bersaglio ideale! Sono tutti morti, presi d’infilata dalle
mitragliate degli aerei che volavano rasoterra. Forse chi gli sparava poi li
contava come birilli. Riesce a immaginarselo?
Lavoravamo in
fabbrica, avevamo i pasti assicurati, non si stava male. Ma avevo il cuore in
fiamme. E cominciai a scrivere all’ufficio di leva chiedendo di essere
arruolata. Una, due, tre volte. Nel giugno del 1942 mi arrivò la cartolina
precetto. Eravamo trenta ragazze. Per raggiungere Leningrado assediata ci
fecero attraversare il lago Ladoga su chiatte scoperte, esposte al tiro nemico.
Della mia prima giornata nella città, stretta nella morsa del blocco, ricordo
due cose: la notte bianca e un reparto di fanteria di marina, in uniformi
scure. L’atmosfera era carica di tensione, le vie deserte e silenziose, le
sciabolate di luce dei proiettori nel cielo lattiginoso e quei marinai, con le
cartucciere di mitragliatrice incrociate sul petto, come durante la guerra
civile. Mi sembrava d’essere in un film.
La città era
completamente circondata. Il fronte era a due passi. Con il tram numero tre si
potevano raggiungere le officine Kirov, e così ci si ritrovava già in prima
linea. A ogni giornata non troppo nuvolosa, ripartiva il cannoneggiamento, a
puntamento diretto. Martellavano senza sosta. C’erano alcune grandi navi
attraccate ai moli, naturalmente mimetizzate, ma non si poteva comunque
escludere un attacco a sorpresa. Venne costituito un reparto speciale di
mascheramento fumogeno, al comando del tenente di vascello Aleksandr Bogdanov, già
comandante di una divisione di motosiluranti. Le ragazze erano in maggioranza
diplomate di istituti tecnici, qualcuna stava già frequentando l’università
quando era stata richiamata. Il nostro compito era proteggere le navi con una
cortina di fumo. Non appena i cannoni ricominciavano a martellare, i marinai
imbarcati si aspettavano che intervenissimo: ‘Speriamo che le nostre ragazze si
sbrighino a tirar su la cortina, staremmo più tranquilli’. Mentre tutti si
precipitavano nei rifugi antiaerei, noi uscivamo con i nostri automezzi
attrezzati con il fumogeno. In sostanza, come si dice, facevamo da bersagli.
Perché i tedeschi sparavano su quello che vedevano, e vedevano la nostra
cortina.
Come cibo c’era lo
stretto necessario, quel che era possibile in una città sotto assedio, ma in
qualche modo si tirava avanti. Prima di tutto eravamo giovani, e questo vuol
dire molto, e in secondo luogo avevamo sotto gli occhi l’incredibile esempio
degli abitanti di Leningrado. Perché in definitiva noi, per misere che fossero
le razioni, avevamo un minimo vitale garantito, mentre loro li vedevamo
afflosciarsi sui marciapiedi, consumati dalla fame. Morivano camminando. Ogni
tanto ci venivano a trovare dei bambini e noi cercavamo di dargli qualcosa da
mangiare sperando che si riprendessero un po’.
Non erano bambini,
sembravano dei minuscoli vecchietti. Piccole mummie. Ci raccontavano del menù
dell’assedio, se così si può dire: minestra di cinture o di scarpe di pelle,
vecchie e nuove, gelatina a base di colla da falegname, frittelle di senape.
Tutti i gatti e i cani della città erano stati mangiati. Non c’era più in giro
un passero o una gazza. Si dava la caccia anche ai topi per metterli in pentola
o magari arrostirli. A un certo punto i bambini non si erano più ripresentati e
noi li avevamo aspettati a lungo. Probabilmente erano morti. E quando arrivò
l’inverno e Leningrado restò senza più combustibile, ci mandarono a demolire la
case in uno dei quartieri della città dove c’erano ancora delle costruzioni in
legno. Il momento peggiore era quando arrivavamo a un’abitazione condannata. Ci
trovavamo davanti una bella casa abitata fino a poco tempo prima, gli inquilini
erano morti o partiti, più spesso morti. Lo si capiva dalle stoviglie ancora
sul tavolo, dagli oggetti. A volte passava una buona mezz’ora prima che
qualcuno si decidesse ad alzare il piccone. S’immagina la scena? Restavamo
tutti lì in attesa di chissà cosa. Solo quando il comandante si avvicinava e
calava il suo ferro, cominciavamo anche noi a demolire.
Abbattevamo gli
alberi, tagliavamo il legname, trasportavamo casse di munizioni. Ricordo che
una volta sono crollata sotto una di queste casse, pesava più di me. Da un
lato, c’era questa fatica da uomini. Ma per noi donne c’erano anche altre
difficoltà. Le faccio un esempio. A un certo punto mi hanno dato il comando di
una squadra. Tutti uomini, giovanissimi. Passavamo le giornate a bordo di una
vedetta, un’imbarcazione piccola, senza latrina sulla prua. I ragazzi si
arrangiavano, in caso di necessità si liberavano fuori bordo, senza problemi.
Ma io come facevo? Un paio di volte, non potendone più, sono saltata
direttamente in acqua tenendomi a galla nuotando. E loro avevano urlato:
‘Caposquadra in mare!’ e mi avevano recuperato. Un problema di poco conto,
sembrerebbe. Ma provi lei a trovarsi in una situazione del genere! È da
impazzire. E quanto pesavano le armi! Ne ha un’idea? All’inizio ci hanno dato
dei fucili che erano più alti di noi. Quando le ragazze marciavano, le
baionette le superavano di almeno mezzo metro.
Per gli uomini era
più facile adattarsi a questa vita di privazioni, a questo tipo di rapporti. Ma
noi provavamo una terribile nostalgia della nostra casa, della mamma, del
calore familiare. C’era una ragazza di Mosca, Nataska Zilina, che aveva
ricevuto una medaglia al valore e come ricompensa una licenza di qualche
giorno. Quando è rientrata l’abbiamo annusata, tutte quante. Ci siamo
letteralmente messe in fila per annusarla, per sentire gli odori della casa
lontana, tale era la nostalgia del focolare. E alla distribuzione della posta,
che gioia quando vedevamo il nostro nome su una busta! La calligrafia di papà!
Quando capitava un momento di riposo ricamavamo qualcosa, dei fazzolettini o
altro. Quando distribuivano le fasce per i piedi, noi ci facevamo delle
sciarpette, magari con una bordura a maglia. Avevamo sempre voglia di occuparci
di ‘cose da donna’! Sentivamo tantissimo la mancanza di questo elemento femminile,
non ne potevamo più! Cercavamo qualsiasi pretesto per prendere un ago in mano,
cucire qualcosa, recuperare sia pure brevemente la nostra vita normale.
Ovviamente c’erano anche momenti di allegria e perfino di gioia, ma non era più
come prima della guerra. Si viveva in un modo strano, come sospeso”.
Il registratore
conserva le parole, l’intonazione. Le pause. Il pianto e lo smarrimento. Però
mi rendo conto che quando una persona parla succedono molte più cose, e
diverse, rispetto a ciò che si riesce poi a fissare sulla carta. Soffro di non
poter “registrare” gli occhi, le mani, la loro vita durante la conversazione.
Il loro racconto, per così dire, autonomo. I loro “testi”.
“Sono due guerre, le
nostre. Proprio così”, interviene Saul Genrichovic. “Ogni volta che parliamo di
quegli anni, ho la sensazione che lei ricordi una guerra sua e io una mia. Ho
vissuto senz’altro anch’io dei momenti simili a quelli che le ha appena raccontato
Olga: la casa da abbattere o quella ragazza rientrata dalla licenza davanti
alla quale le altre si mettevano in fila per odorarla. Ma di queste cose non ho
conservato alcun ricordo. Mi sono passate accanto senza che le notassi. Però tu
non le hai ancora raccontato dei berretti. Olja, come hai fatto a dimenticare
una cosa del genere?”.
“Non l’ho
dimenticata. È qualcosa di talmente… mi fa paura il solo pensiero di doverne
parlare. Ogni volta. Ecco com’è andata: all’alba le nostre vedette hanno preso
il mare. Erano alcune decine. Poco dopo abbiamo sentito i rumori del
combattimento che cominciava. Aspettavamo. Tendevamo le orecchie. La battaglia
durò parecchie ore e a un certo punto sembrò avvicinarsi alla città. Ma poi i
colpi si allontanarono e piano piano si fece silenzio. Prima del tramonto sono
uscita sulla riva: sul canale del Mare galleggiavano ovunque berretti da
marinaio, i nostri. I berretti, le larghe chiazze rosse, gli spezzoni di legno
raccontavano dei nostri ragazzi scagliati fuori bordo. Sono rimasta lì a lungo
a veder passare uno dietro l’altro quei berretti. Ho cominciato a contarli, ma
poi ho rinunciato. Non riuscivo ad andarmene, ma neanche a guardare. Il canale
del Mare era diventato qualcosa come la loro tomba comune.
“Saul, dov’è il mio
fazzoletto? Ce l’avevo adesso in mano. Ma insomma, dov’è?”.
“Ho imparato a
memoria parecchi dei suoi racconti e li ho, come dire, adattati per i nostri
nipoti”, continua Saul Genrichovic. “E spesso non racconto la mia, di guerra,
ma la sua. Per loro è più interessante, l’ho proprio notato. Io ho più
competenze militari concrete, lei più sentimenti. E i sentimenti sono sempre
più forti dei fatti. Anche da noi in fanteria c’erano delle ragazze. E bastava
la presenza di una sola di loro perché noi ci dessimo un contegno, ci curassimo
di più nella persona e nei modi. Non può immaginarsi quanto. Non può davvero
immaginarselo!”. E subito aggiunge: “Anche questa espressione l’ho presa da
lei. Non può immaginarsi come sia bello, in guerra, sentire il riso di una
donna! Una voce femminile!
“Poteva nascere
l’amore, in guerra? Sì! E le donne che abbiamo conosciuto in quelle circostanze
sono state delle mogli meravigliose, delle amiche fedeli. Quelli che si sono
sposati al fronte sono le persone, le coppie, più felici. Anche noi ci siamo
incontrati e innamorati in guerra. In mezzo al fuoco e alla morte. È un legame
solido. Non voglio sostenere che sia andata sempre così, perché la guerra è
stata lunga, eravamo tanti, ed è successo di tutto. Ma ricordo di più le cose
buone.
“La guerra mi ha reso
migliore. Senza ombra di dubbio! Sono diventato un uomo migliore perché lì si
soffre molto. Ho visto soffrire e ho sofferto molto anch’io. Tutto quel che non
è essenziale viene spazzato via in un attimo. Lo capisci da te. Ma c’è una cosa
che abbiamo paura di confessare, di dire perfino a noi stessi. Ed è che la guerra
si è vendicata di noi. Ci ha raggiunti nel destino personale di alcune delle
nostre figlie, che non è stato felice. Le madri, che avevano combattuto, le
hanno cresciute come erano state cresciute loro, nell’esperienza del fronte. E
anche i padri. Secondo quella stessa morale. E al fronte, come le ho detto,
saltava subito fuori di che pasta era fatto ognuno di noi, com’eravamo e quanto
valevamo, non c’era modo di tenerlo nascosto. Le nostre figlie, quindi, non
avevano idea che la vita fuori casa potesse essere tutta un’altra cosa rispetto
a com’era in famiglia. Non erano abbastanza preparate al lato crudele
dell’esistenza. Si sposavano fiduciose e finivano nelle mani di farabutti che
le ingannavano, perché ingannarle era facile come bere un bicchier d’acqua.
Storie del genere sono capitate spesso alle figlie di molti nostri compagni al
fronte. E anche alla nostra”.
Foto di Jo Hedwig Teeuwisse
La fotografa sovrappone foto della seconda guerra mondiale a foto attuali degli stessi luoghi.
In questo modo la realtà rivela i suoi fantasmi. |
Foto di Jo Hedwig Teeuwisse
La fotografa sovrappone foto della seconda guerra mondiale a foto attuali degli stessi luoghi.
In questo modo la realtà rivela i suoi fantasmi. |
Foto di Eugeniusz Lokajsk
Varsavia 1944 |
“Non so bene perché,
ma ai nostri figli non raccontavamo mai della guerra. Probabilmente per
risparmiarli. Ma abbiamo fatto bene?”, si chiede con aria pensierosa Olga
Vasilevna. “Non portavo neanche i nastrini delle decorazioni. Me li sono
strappati una volta e ho smesso di appuntarmeli. Ecco com’è andata: dopo la
guerra lavoravo come direttrice di un panificio. Durante una riunione, il capo
del consorzio, anche lei una donna, ha notato i nastrini e mi ha rimproverata
davanti a tutti perché li esibivo, neanche fossi stata un uomo. Anche lei aveva
una medaglia al merito del lavoro, inalberata in permanenza sulla giacca, ma le
mie decorazioni chissà perché non le andavano a genio. Quando rimanemmo sole le
dissi, con tutta la mia franchezza marinara, quel che pensavo, la svergognai
ben bene, ma mi passò la voglia di portare le decorazioni. Anche adesso
preferisco lasciarle nel cassetto. Però ne vado fiera.
Sono passati decenni
prima che la famosa giornalista Vera Tkachenko scrivesse un articolo sulla
Pravda nel quale ricordava che anche noi donne eravamo state in guerra. E che
c’erano delle veterane rimaste sole, perché non avevano potuto farsi una
famiglia e non avevano un alloggio individuale, ma vivevano in appartamenti di
coabitazione. E diceva anche che eravamo tutti in debito nei confronti di
queste donne eroiche e sante. E da allora, pian piano, si è cominciato a
trattarle un po’ meglio. Avevano tra i quaranta e i cinquant’anni e vivevano
quasi tutte nei pensionati. Qua e là si cominciò a tenerle presenti
nell’assegnazione degli appartamenti. C’era una mia amica, non dirò come si
chiama, perché magari la prende male. Un aiuto medico militare. Ferita tre
volte. Ritornata dal fronte, si era iscritta alla facoltà di medicina. Non
aveva più nessuno, erano tutti morti durante la guerra. Viveva in assoluta
miseria, di notte lavava gli androni delle case per poter avere qualcosa da
mangiare. Ma non aveva mai rivelato a nessuno di essere invalida di guerra e di
aver diritto a delle agevolazioni. Aveva distrutto tutti i documenti che
attestavano il suo stato e il suo servizio. Le ho chiesto: ‘Ma perché li hai
stracciati?’. Lei piangeva: ‘Chi mi avrebbe sposata?’. ‘Be’, allora hai fatto
bene’. Ma lei piangeva ancora più forte: ‘Adesso queste carte mi farebbero
comodo. Sono gravemente malata’. Riesce a immaginarselo? Piangeva sconsolata.
A Sebastopoli, città
che ha visto la gloria marinara russa, per il trentacinquesimo anniversario
della vittoria sono stati invitati per la prima volta cento marinai veterani
della Grande guerra patriottica, tra cui tre donne. Io ero tra queste, e anche
una mia amica. L’ammiraglio comandante della flotta ha fatto un inchino a
ognuna di noi, ci ha pubblicamente ringraziate e ci ha baciato la mano. Come
dimenticare la guerra, dopo una cosa del genere?”.
“Vuol dire che
avrebbe voluto dimenticarla, la guerra?”.
“Dimenticarla?
Dimenticarla…”, mi fa eco Olga Vasilevna. “Non possiamo dimenticarla. È più
forte di noi”.
Saul Genrichovic
interrompe la pausa, che si è fatta troppo lunga: “Ti ricordi Olja, è stato a
un altro anniversario della vittoria, quando abbiamo incontrato quella vecchina
che portava appeso al collo un cartoncino vecchio come lei, con scritto: ‘Cerco
Kulnev Tomas Vladimirovic, scomparso nel 1942 durante il blocco di Leningrado’.
Doveva avere passato da molto gli ottant’anni. Da quanti anni lo cercava?
Quaranta, cinquanta? E lo cercherà fino alla sua ultima ora di vita. Così anche
noi”.
“Io però vorrei
dimenticare. Voglio…”, dice Olga Vasilevna lentamente, quasi sussurrando,
“voglio vivere almeno un giorno senza la guerra. Senza la nostra memoria della
guerra. Anche solo un giorno”.
Me li ricorderò
insieme come nelle foto al fronte, una me l’hanno regalata. Sono giovani, poco
più giovani di me. All’improvviso, tutto assume un senso diverso. Più prossimo.
Guardo la foto, e quel che ho appena sentito e registrato comincia ad assumere
un significato diverso. La frattura del tempo tra di noi scompare.
Questo testo, di Svetlana
Aleksievič Premio Nobel per la Letteratura 2015, è stato pubblicato il 26 marzo
2010 a pagina 92 di Internazionale
https://www.internazionale.it/notizie/2015/10/08/svetlana-aleksievic-raccontohttps://www.internazionale.it/notizie/2015/10/08/svetlana-aleksievic-racconto
Svetlana Aleksievič Premio Nobel 2015
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