venerdì 18 marzo 2016

"L'Acchiappagiorni" di Rebecca di Santo

Caterina è seduta al banco. Il secondo, vicino alla finestra. Il quaderno di matematica sotto ai suoi occhi. Sente un gran prurito alla nuca. La mamma le ha fatto “il trattamento” ma qualche animaletto deve essere sfuggito ed ora è lì che pisticchia e mordicchia.
Quando la mamma si mette a guardare fra i capelli, Caterina ha modo di avvertirne la magrezza. Di solito dispone due sedie vicino alla finestra della sala, nel momento in cui il sole arriva, caldo e luminoso.
La mamma è un po’ scomoda, le sue gambe sono troppo secche; Caterina ha provato le cosce della nonna. Accipicchia che differenza!
Sono poche le cose che tolgono il sorriso alla mamma e la rendono brutta. Anzi bruttissima, come una strega.
Una è sicuramente la ricerca, e soprattutto il ritrovamento, dei pidocchi. A cui segue la sua frase: <<Dobbiamo fare il trattamento!>>. Quando lo dice sembra che insieme debbano salire fin sopra la piazza del paese, quella in cima alla salita. Caterina ricorda davvero bene come le sue gambe non ne volessero sapere di quella strada e ricorda le sue lagne. La mamma non era stanca di camminare ma non la sopportava più.
Così ognuna sudava sebbene per motivi diversissimi.
Ecco, quando c’è il trattamento non sudano, però iniziano la pratica come fossero già a metà di quella salita. Già stanche insomma.
Devono farle proprio schifo. Si mette lì col pettinino di metallo come se fosse una caccia al tesoro al contrario. Ogni volta che trova uova o bestioline: si perde.
L’altra cosa che le cambia il viso sono le tabelline. Qui si tratta di un misto tra ciò che le tabelline le ricordano (ha raccontato a Caterina di come la tabellina dell’otto fosse stata una piccola tortura quando era bambina) e il modo in cui Caterina si mette a ripeterle.
Per ora sono a quella del sette. A guardare il quaderno sembra cosa fatta. Tutti i disegnini e tanti colori.
Invece Caterina si impunta, anzi, a volte, proprio non parte.
A volte sembra che il tempo non passi. E non arriva la merenda, non arriva Garfield, non arriva rotolarsi sul lettone. Il tempo delle tabelline è infinito e cambia il volto della mamma ma anche quello di Caterina.
Un’altra cosa che le toglie il sorriso, è quando il papà non vuole abbracciarla. La mamma accende lo stereo e ride. Il papà è serio e mentre la mamma canta lui abbassa il volume. La mamma allora sta zitta. Il suo viso però non diventa quello della strega, piuttosto somiglia ai petali dei tulipani dopo qualche giorno che sono in vaso. I tulipani che porta il papà spesso hanno un colore che sembra ci sia una lampadina dentro che li accende. La loro luce non dura mai tanto ma quando sono lì sul tavolo mettono allegria.
La mamma poi torna a cantare e il papà le si avvicina e improvvisano un ballo pieno di giravolte e di baci.


Di colpo davanti agli occhi di Caterina si materializzano di nuovo il quaderno e le moltiplicazioni in colonna. Non ha nemmeno finito di copiare. Che vorrebbe dire che praticamente non ha nemmeno iniziato.
Matita per le colonne. Penna rossa per le decine. Penna azzurra per le unità. Sì! La mamma è riuscita a trovare le penne azzurre, non blu.
Caterina è di nuovo lì a guardare verso la finestra senza vedere nulla.
<<Caterina?! Stamattina avresti bisogno di un cuscino morbido sul banco, vero?>>, così la sveglia la maestra. Tutta la classe ride e tutta la classe, quasi tutta, si mette a fare il verso del sonno. Teste che si precipitano sugli astucci per cercare di fingere un comodo letto.
Anche Caterina sorride. Sa che la maestra Elisa è molto dolce anche se non quando chiede <<Quanto fa sette per otto?>>. Non vuole che ci stai tanto a pensare. Sonno o non sonno la risposta la vuole in fretta.
<<Allora, altri dieci minuti e poi inizio a controllare i quaderni, su!>>.

La donna snella ed alta è Giulia, la madre di Caterina. Giacomo è il papà.
Giacomo è pronto ad andare. Aspetta in strada fischiettando. Giulia sta arrivando in macchina. Ha lasciato Caterina a scuola. È passata a prenotare il pesce: alici. Sì le puliranno le alici e lei le cucinerà al forno con pangrattato, uvetta e pinoli.
Il pieno di eurodiesel per l’Audi.
Ed ora, in quinta, affronta il viale esterno del paese. E canta. Insieme allo stereo. Immagina le sue piroette a piedi nudi sul parquet.
Ma alla guida è l’intermittenza della freccia per svoltare a sinistra che le dà il ritmo per far danzare i pensieri.

Caterina è riuscita a recuperare. Il sonno sta passando, il prurito meno. Ora è finalmente in classe anche se alla domanda “quanto fa sei per quattro” mica riesce a rispondere tanto velocemente!

Giacomo sale in macchina. Giulia lascia andare rapida il piede sulla frizione, dalla prima alla seconda. Di nuovo lungo il viale. In pochissimo tempo già all’imbocco della superstrada.
I loro pensieri in questo momento si somigliano. Nella totale differenza del loro procedere.
“…scarterei la possibilità di andare alle terme. Che poi a me l’acqua calda a lungo non mi rilassa anzi piuttosto mi indebolisce… Le potenzialità dell’acqua. Ecco al mare è diverso. Anche una piscina scoperta. Acqua fredda in sostanza….” poi arriva il salto logico “…chissà se sarà mai possibile incontrarlo davvero. Poterlo osservare, poter essere guardata da lui. Potergli sfiorare il profilo. La mano nei capelli… di Lisimba…”.
Giacomo invece si sta azzuffando con le sue emozioni.
“…è già ‘adesso’. È già il momento. Ed io so che arriverò in ritardo. Arriverò sicuramente dopo Giulia ed un secolo dopo Caterina. Arriverò così, credo, con loro già pronte da sempre forse. Certo che devo pur andare col mio passo eppure com’è bello inseguirle… tanto poi il fiatone lo abbiamo tutti e tre…
Giulia cambia cd. Ora è la volta degli Housemartins, “Caravan of Love”, e insieme Giacomo e Giulia si mettono a cantare.
Semplicemente.
Non accade molto di più.
Per Giulia e Giacomo è tutto qui.
Dalla carreggiata opposta un Ducato si stacca dal manto stradale e, in un assurdo volo, invade la corsia su cui Giacomo e Giulia stanno viaggiando, tagliando orizzontalmente in due l’Audi. In un brevissimo e rumoroso istante.
Ma non c’è nessun rumore anche se non c’è nessun silenzio.
L’Audi nera continua a viaggiare fino a quando la spinta inerziale e gli ostacoli lo consentono.
Al suo interno le parti disfatte di Giulia e Giacomo.
La parte superiore dell’auto è tornata indietro fra i sobbalzi e l’orrore. Il fermaglio che Giulia tiene sempre quando è alla guida. Gli occhiali da sole di Giacomo. Gli occhiali con cui stava giocherellando. Tutto ruzzola sull’asfalto, separato dal corpo. Nessuno li dovrà vedere così. Saranno ricomposti.
Una parte del canto è rimasta squarciata. Strappata e offesa.
Every woman every man Join the caravan of love stand up stand up stand………

A scuola la mensa ha accolto tutti i bimbi del primo turno. Ora che si siede Caterina ci ripensa. Al risveglio, la mattina, è stata una piccola festa. Quelle che Caterina è abituata a chiamare feste dell’acchiappagiorni. Oggi da loro sarebbe arrivato Lisimba. Un arrivo particolare fatto di una foto e qualche documento. Ma Lisimba sarebbe diventato ufficialmente il suo ‘lontano fratello’ così come Caterina l’aveva subito chiamato. Così come Giulia lo stava pensando, sognandone i capelli. Così come Giacomo sapeva già di amarlo, provando un imbarazzo tutto maschile.

Sulla superstrada il traffico è ancora deviato. Appena una decina di chilometri dal giardino in cui Caterina gioca a strega-comanda-colore. Le insegnanti sanno che quel tratto di strada non sarà mai più percorribile. Sanno che Caterina sta per entrare nel viaggio assurdo della costruzione della solitudine. Il viaggio immateriale di un cucciolo rimasto senza rifugio.

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Hanno provato tutti a compiere l’impossibile e non soltanto perché fosse un percorso difficile. Ero io che non volevo essere raggiunta. Mia madre, mio padre ed io eravamo in un luogo meraviglioso. Un luogo inarrivabile; nient’affatto impervio ma di sicuro segreto. Ed io non avevo avuto il tempo per avere in consegna le chiavi che aprivano tutti gli scrigni.
Ho pianto tanto, tantissimo. Ho odiato mia nonna. Ho odiato tutti. Finalmente ho odiato i pidocchi perché loro senza la mamma non avevano diritto di esistere. Ho odiato i tulipani con la loro crudele luce dentro.
E più odiavo e più volevo il silenzio attorno.
Fortunatamente è durato poco.
Fortunatamente avevo un fratello. A quello la mia famiglia si era preparata nell’attimo in cui si è trovata sospesa. Mia nonna ha mantenuto vivo questo legame. Anno dopo anno ha compilato il bollettino postale e, insieme a me, ha letto le lettere che Lisimba ci inviava.
Ed io ho riacciuffato questo sogno per potermi tenere il senso. Il senso di vivere.
Amare Lisimba è stato amare la vita. L’ho recuperato con la lunghissima lentezza del risveglio da un incubo. Non in senso figurato.
Quando è notte e ti svegli e l’incubo sembra essersi attaccato al buio. E se anche accendi la luce il buio è così scaltro da nascondersi dietro l’armadio. Oppure si appoggia sulle tue spalle dove senti un poco di freddo.
Ma la vita è tornata ed ora sono qui, in tutt’altra luce.

Appena arrivata ho avvertito la secchezza della mia pelle. Il viso mi tirava. Dall’esterno a causa dell’aria, un vento duro. Da dentro per la sete, generata dall’agitazione.
Ho cominciato a prepararmi a questo viaggio poco prima degli otto anni. Ed ora vedo rincorrersi  la polvere di una terra straniera sotto i miei piedi.
Ho un corpo magro che calca i passi. I capelli lunghi trattenuti da uno dei fermagli di mia madre. Porto al collo un anello che ho scelto fra tanti piccoli oggetti dalla scatola che ho chiamato scatola dell’acchiappagiorni. La scatola che conserva le tracce di quella vita speciale. È una fede d’argento abbastanza grande. Prima di partire ho fatto incidere i nomi: Giulia e Giacomo. Ed ora è con me.

L’aeroplano fino a Kigali. L’auto fino a Murambi.
Questo l’avevo detto a Lisimba. Prima di incontrarlo avevo bisogno di andare al Murambi Genocide Memorial Centre. Da sola. Ovviamente Lisimba mi ha fatto venire a prendere da un suo collega, medico e artigiano: Chewe Miriwua. Chewe mi guida fino all’entrata.
Il suo francese è limpido mentre il mio è emozionato. Chewe ha una voce roca e modulata:
<<Il faut que je reste à tes côtés.>>.
Ed io sento che vorrei essere presa per mano ed allora devo rispondere: <<Oui Chewe, reste avec moi. En silence.>>.

Non ci sono teche all’interno e c’è un odore impensabile; un odore prematuro, di qualcosa di non compiuto. Polveroso, anche.
È chiarissimo come tutto ciò che ho davanti agli occhi sia reale. C’è un’evidenza di follia in questi corpi mummificati. Un’evidenza che torce la possibilità di connettere,
Il dolore rimane impresso nella materia. Qui al Memoriale c’è di più. C’è la mostruosa essenza delle tenebre, senza nessuna poesia. Io ho vissuto il dolore. L’assenza delle braccia. L’assenza fisicamente tangibile e dolente delle parole e dei sorrisi.
Ma nei resti barbari dei morti conservati al Centro c’è un vuoto rovente nel petto. Una disumana offesa. I corpi sono nella posizione in cui sono stati uccisi. Evidente il terrore come evidenti i colpi che hanno squarciato il loro scheletro.
Ho imparato una sola parola per riassumere tutto. Lisimba me l’ha detta. Lisimba stesso quando me l’ha scritta, ha lasciato che ci fosse attorno a quelle poche lettere un vuoto di sospensione e allucinata accoglienza.
Suo padre è finito così. I suoi fratelli e sorelle. Circa un milione di persone sono finite così. In quattro mesi. Circa ottomilatrecento al giorno. Trecentoquarantacinque vite ogni ora. Cinque al minuto.
Lisimba è nato a giugno. Giugno dell’anno millenovecentonovantaquattro. È nato mentre tutti attorno morivano. Eppure lui ed io siamo stati conquistati dall’esserci. Ci proviene da fonti diverse. Il suo esserci percorre montagne e terre ed è composto da una salda memoria del futuro.
Il mio mi sorride vicino. Si è cibato, per crescere, della storia e dell’amore dei miei genitori.
Ho visto molto. Ho visto ciò che nessuno dovrebbe anche solo immaginare.
La parola, nel vuoto buio della storia e della coscienza è questa: machete.

Quando esco mi ritrovo a vomitare. È una reazione sana del corpo guidata dall’indigestione della mente. Basta ora.

Un volo fino a Kamembe per ritrovarci a Cyangugu, sul lago. Ed ora mi sembra tutto veloce. A confronto con la lunghezza del tempo che è passato. L’odore attorno è forte. Le mie narici ricevono sollecitazioni da ogni direzione. L’influenza del lago. La presenza umida e viva delle colline che vanno verso la foresta Nyungwe. Mi sono ripetuta spesso questi nomi nella testa. Li ho associati a foto, racconti e idee di avventura.

Ed ora eccoti.
Alle spalle le montagne. Alle spalle e dentro il Ruanda. Davanti a te. Intorno.
Come pensavo, non sono all’altezza. E va bene.
Ero così sicura dodici anni fa davanti alla tua foto. Ti ho riconosciuto fra una trentina di ragazzi. Ho riconosciuto lo sguardo da una foto silenziosa. Ti ho trovato mentre mamma e papà continuavano a rimanere incerti. L’ho capito adesso, avrebbero voluto poter scegliere tutti quei ragazzi.
Ero fortunata. Come solo i bambini possono essere.
Il mondo era totalmente manifesto. Poi ho iniziato a conoscerti. Il progetto prevedeva che noi dovessimo sostenerti e tu hai imparato nel giro di poco a tenermi in piedi. Con ogni nuovo dettaglio hai nutrito il mio bisogno di interezza.

Ora essere qui è disperato e bellissimo. Lisimba occhi neri e gambe lunghe. Lisimba che appena può si inoltra nella foresta. Lisimba che qui a Cyangugu mi sta venendo incontro.
Avevo quasi otto anni. Lisimba ne aveva sedici. Aveva retto fin lì. Poi l’irresistibile necessità di studiare. Amande, sua mamma, c’era ancora. Ed insieme non hanno avuto paura. Impossibile averne ancora. E così la bellezza del poter chiedere aiuto.
Dall’altra parte, qualche filo invisibile e solido li ha legati a noi. Alla mia famiglia. Poi Amande è morta.
Sono felice di essere finalmente arrivata.
Oggi è il 24 giugno del 2020.
Appena varcata la soglia del Memoriale, verso l’uscita, ho saputo di poter proseguire.


Sei per quattro è uguale a ventiquattro. I pidocchi sono scomparsi. Mio padre e mia madre non sono su di una stella a vegliare su di me. Giulia e Giacomo sono qui. Sento muoversi il vento quando li nomino. Sento farsi più forte il temporale. Sobbalzo e mi si arrossano le guance quando so che sto pensando qualche pensiero che appartiene a loro.
Ho il vizio di ballare a piedi nudi sul parquet. Ho il vizio di non avere paura di nulla.
Sono rimasta smarrita. Mi fa ancora male, a volte, quel vuoto che brucia nella pancia. Ma ce l’ho fatta.
L’acchiappagiorni mi ha tenuto viva all’interno di un sogno ed ora posso aprire gli occhi mentre Lisimba mi abbraccia.
di Rebecca di Santo

più di un milione di persone fuggirono dal Rwanda.

...ciò che resta.

Kigali Memorial Centre, Rwanda

Kigali Memorial Centre, Rwanda


i vestiti delle vittime, raccolti in una sala del Murambi Genocide Memorial Centre




Un pezzo di storia.
In 100 giorni, dal 7 aprile alla metà di luglio del 1994, in Rwanda circa un milione di persone furono massacrate.
Con armi rudimentali, coi machete, con bastoni chiodati e con armi da fuoco.
Ci furono decine di migliaia di stupri.
Incalcolabile il numero di bambini arruolati come soldati.
La vita di circa un milione di persone è finita così.
Senza motivo e con assoluta violenza.
In quattro mesi.
Circa ottomilatrecento al giorno.
Trecentoquarantacinque vite ogni ora.
Cinque al minuto.
Non è vero che i genocidi sono rari.
L'umanità non impara.
La storia non insegna.
Riposino in pace.

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