Si era ammalata. Ma questo lo dicevano gli
altri.
Era stata posseduta. Questo lo diceva lei
stessa.
Non occorreva nessun esorcista.
Chi la
possedeva era il Padre. E il Padre non poteva essere allontanato da
lei, inutile tentare.
Il suo sguardo di ragazzina andava a cercare
amore dalle labbra socchiuse, da uno sguardo che la spaventava e dal quale non
poteva far altro che desiderare tornare.
La prima volta era davvero piccina. Non aveva
potuto riconoscerlo e le era sembrato un incubo. Aveva iniziato a singhiozzare.
Eppure, già quella volta, era stato il languore il vero segno rimasto. Ma non
avrebbe saputo nominarlo così e allora gli diede un altro nome: digiuno.
Sperimentò così seriamente l’astinenza da
spaventare tutti in casa. Approfondì fino a guadagnarsi una debolezza tale da
essere felice; l’inedia l’aveva portata a vivere una sensazione molto
simile a quella provata mentre era posseduta.
A tratti si perdeva in un sonno misto a
lucidità. Colori sparsi in un cielo lontano. Lei li attraversava coi piedi
scalzi e dolenti. Eppure sentiva delle mani rassicuranti pigiarla all'altezza
dei fianchi per farla andare ancora più in alto, come con suo fratello sull'altalena. E lei procedeva, cogli occhi chiusi per qualche febbre alta e per la
troppa luce.
C'erano i periodi in cui, poi, si riprendeva.
Ad osservarla nessuno
avrebbe detto fosse la stessa. In quei momenti sentiva dentro sé mille
sentinelle allertate e mangiava per loro.
Grazie ai loro desideri riconosceva
gli odori e si lasciava attrarre: la selvaggina, l'orzo bollito, le cicerchie e
le patate nella cenere.
Dopo i suoi digiuni, che si facevano sempre più
frequenti, tornava coi sensi acuiti.
I colori sembravano tremare fin quasi a sfaldarsi,
spinti dalla loro stessa potenza.
I sapori si arricciavano sulla lingua come
onde e raggiungevano contemporaneamente tutte le sue sponde. Sentiva, vedeva,
gustava, tutto come per potersene ricordare, poi.
Il Padre suo ne avrebbe
chiesto il conto, questo era certo.
La ragazza si andava
facendo grande e le diveniva sempre più chiaro che il tempo della rinuncia era
il vero tempo della sua vita. Il tempo in cui la fame era così forte da
divenire delirio.
E in uno di quei tempi
tutto avvenne senza trovare mai più rimedio.
Il giorno in cui venne
presa e portata via, definitivamente, era uno di quelli di digiuno inoltrato.
Il fratello più piccolo le bagnava le labbra secche e biancastre. La guardava
indurirsi sotto la pelle opaca. Giustificava il disgusto che provava nel vederla,
dicendosi che non era più lei. Che quella roba per cui aveva provato amore ora
non c'era più e che lui doveva pregare e nutrirla per farla tornare.
Sarebbe
tornata, era già accaduto.
Ma, stavolta, si era sporta troppo in fuori. Il
fratello era quasi certo stesse per cadere dall'altra parte.
Teresa in effetti non
tornò. Chi voleva sapere dove fosse doveva aspettare sull'uscio dell'anima
e attendere le parole che riportava da quei lunghi pellegrinaggi.
Dio Padre ne era bastone e
fame, cibo e delirio, uomo e fede. Alle volte le si spalancavano gli occhi e
descriveva come il suo cuore venisse bastonato dalla Verità infuocata. Come non
potesse essere altro che percossa dalla Conoscenza.
Attorno vennero chiamati
uomini di dottrina, medici, dotti di ogni genere. Ognuno di essi si fermava in
quella stanza il tempo necessario affinché Teresa riportasse una qualche
visione.
Alle volte parlava quasi
ininterrottamente per giorni, mentre sudava. Altre taceva e delirava
lamentandosi. Il corpo contorto. Il timore di tutti era di vederle esplodere il
petto. Il suo cuore di ragazza sembrava potersi osservare da sotto le vesti
bianche, da sotto le lenzuola. Balzava forte e veloce. Come quello di una
bestia braccata. Come quello dei cani che riportavano la preda dopo che il
cacciatore l’aveva colpita con la freccia.
Ma il suo cuore rimaneva
vivo e il petto, sebbene tracimasse dolore, non si squarciava.
Non pochi furono gli
uomini che al cospetto di quel trasporto e dinanzi a quel corpo in fiamme, non
provassero un turbamento da cui sentivano necessità di essere mondati grazie a un
confessore. Quando le si facevano sopra per calmarla, per trattenere le
convulsioni che potevano condurla a cadere, il corpo di Teresa, incosciente, li
abbrancava.
Durante uno dei suoi
ritorni la ragazza lo disse con chiarezza. Il dolore che provava era un dolore grandissimo e irrinunciabile.
In quel dolore il Padre Dio suo la prendeva e le
percuoteva l’anima. Non poteva separare quella sofferenza da quegli incontri.
Non poteva rinunciare a Dio e non poteva, quindi, rinunciare a quel morire
perenne.
Si era fatta santa, pazza
e donna sotto le percosse del Padre e amava quel bastone che la batteva.
Il suo corpo venne fatto a
brandelli da chi l’aveva spiata e ne aveva goduto le fughe. Indissolubile da quel
corpo era Dio, Teresa stessa aveva in sé i segni di quell'unione: qualcuno osò
prendersi le mani, altri la mandibola, altrove è conservata la trachea.
Stesso destino per il suo potente cuore, strappatole
da sotto il costato, mostrò il fuoco che l’aveva innalzata al Cielo.
Pazza e santa nel delirio del
Padre.
di Rebecca
« Gli vedevo nelle mani un
lungo dardo d'oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po' di fuoco.
Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi
giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via
lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era
così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che
mi infondeva questo enorme dolore, che non c'era da desiderarne la fine, né
l'anima poteva appagarsi che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale,
anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po', anzi molto. È un
idillio così soave quello che si svolge tra l'anima e Dio, che io supplico la
divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento. »
Santa Teresa d’Avila
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