Dicono alcuni che amore è un bambino
e alcuni che è un uccello,
alcuni che manda avanti il mondo
e alcuni che è un'assurdità
e quando ho domandato al mio vicino,
che aveva tutta l'aria di sapere,
sua moglie si è seccata e ha detto che
non era il caso, no.
Assomiglia a una coppia di pigiami
o al salame dove non c'è da bere?
Per l'odore può ricordare i lama
o avrà un profumo consolante?
È pungente a toccarlo, come un prugno
o è lieve come morbido piumino?
È tagliente o ben liscio lungo gli orli?
La verità, vi prego, sull'amore.
I manuali di storia ce ne parlano
in qualche noticina misteriosa,
ma è un argomento assai comune
a bordo delle navi da crociera;
ho trovato che vi si accenna nelle
cronache dei suicidi
e l'ho visto persino scribacchiato
sul retro degli orari ferroviari.
Ha il latrato di un alsaziano a dieta
o il bum-bum di una banda militare?
Si può farne una buona imitazione
su una sega o uno Steinway da concerto?
Quando canta alle feste è un finimondo?
Apprezzerà soltanto roba classica?
Smetterà se si vuole un po' di pace?
La verità grave, vi prego, sull'amore.
Sono andato a guardare nel bersò
lì non c'era mai stato;
ho esportato il Tamigi a Maidenhead,
e poi l'aria balsamica di Brighton.
Non so che cosa mi cantasse il merlo,
o che cosa dicesse il tulipano,
ma non era nascosto nel pollaio
e non era nemmeno sotto il letto.
Sa fare delle smorfie straordinarie?
Sull'altalena soffre di vertigini?
Passerà tutto il suo tempo alle corse
o strimpellando corde sbrindellate?
Avrà idee personali sul denaro?
È un buon patriota o mica tanto?
Ne racconta di allegre, anche se spinte?
La verità, vi prego, sull'amore..
Quando viene, verrà senza avvisare,
proprio mentre sto frugando il naso?
Busserà la mattina alla mia porta
o là sul bus mi pesterà un piede?
Accadrà come quando cambia il tempo?
Sarà cortese o spiccio il suo saluto?
Darà una svolta a tutta la mia vita?
La verità, vi prego, sull'amore.
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-17872>
sabato 30 aprile 2016
venerdì 29 aprile 2016
"Confessati. Dentro te. Pubblicamente" di Rebecca
Sono stata fortunata, nella mia adolescenza intendo. Ero una fanciulla che provocava, con le buone o con le cattive. Provocavo perché ero punk e provocavo perché ero femminile. Provocavo perché ero "femmina" ed ero curiosa. La sessualità era nascosta dietro un atteggiamento, dietro uno sberleffo, dietro una pacca sul culo. ed io? Non ero fatta per assistere. Io dovevo andare a vedere. Sono rimasta intera.
Solo un tizio. Soltanto uno, pensa.
Il papà di un'amichetta: mi mise le mani fra le gambe.
Avevo 11 anni.
Ma l'ha pagata. Forse anche troppo e forse non l'ha neanche capito.
Lo odio. Lo odio ancora con tutta me stessa.
Perché non ho capito nulla e perché so del mio silenzio. SOLTANTO IO SO DEL MIO SILENZIO.
11 anni sono stati violati e lo ricordo talmente bene da esserne confusa ogni volta che mi torna in mente.
La macchina. Il buio. Il tono di voce.
11 anni per non capirci nulla e per provare uno schifo che sapeva di buio.
Odio le Land Rover. Odio il suo sorriso diurno.
Provo una tenerezza indicibile per quella bambina.
Provo un’indicibile orrore per quel sedile didietro in cui volevo schiantarmi.
Non c'era mio padre. Non c'era mia madre. Non c'era nessuno.
Il buio di una strada notturna.
Ma mi è andata bene. Mi è andata benissimo. Ho problemi con la sessualità.
Ma è normale vero? Ne avete anche voi.
Eppure se penso al cassetto di mia figlia sento che ucciderei anche se soltanto qualcuno lo guardasse non dovendolo fare.
sento troppa rabbia.
"Inno militante" di Rebecca
Come se cantare l'odio
non fosse un canto eccezionale.
Ho spesso un'ascia nascosta fra i pensieri
(quando ti accarezzo).
Ho spesso un'ascia nascosta fra i pensieri
(quando ti accarezzo).
Un Kalašnikov puntato al tuo petto
(quando calpesti i miei fiori
senza averli lasciati sbocciare).
C'è una mina sotto il tuo incessante passo.
Chiodi, chiodi, centinaia di chiodi
ad accogliere il tuo sguardo.
Poi c'è il torbido regno del desiderio,
laddove l'odio s'incontra col gusto.
Qui, gioco col potere.
Ti lascio rassegnato
dietro il tuo angusto volere.
Non ti mostro le perle
né i tacchi
né il trucco migliore.
Gli scarti del mio odio
sai indossarli
come fossero trofei.
Io non sono molto lontana,
dietro l'angolo
rasserenata da un'altra menzogna
e dall'ennesimo proiettile
che lascio ti colpisca in pieno volto.
(quando calpesti i miei fiori
senza averli lasciati sbocciare).
C'è una mina sotto il tuo incessante passo.
Chiodi, chiodi, centinaia di chiodi
ad accogliere il tuo sguardo.
Poi c'è il torbido regno del desiderio,
laddove l'odio s'incontra col gusto.
Qui, gioco col potere.
Ti lascio rassegnato
dietro il tuo angusto volere.
Non ti mostro le perle
né i tacchi
né il trucco migliore.
Gli scarti del mio odio
sai indossarli
come fossero trofei.
Io non sono molto lontana,
dietro l'angolo
rasserenata da un'altra menzogna
e dall'ennesimo proiettile
che lascio ti colpisca in pieno volto.
di Rebecca
di Helen Warner |
giovedì 28 aprile 2016
al-Quds e la morte di uno degli ultimi pediatri ad Aleppo.
Cari Amici,
sono il dottor Hatem, il direttore dell'ospedale pediatrico di Aleppo.
La scorsa notte, con una bomba lanciata da un aereo nelle vicinanze dell'ospedale al-Quds di Aleppo, sono state uccise 27 persone fra pazienti e staff medico.
Il mio amico, il dottor Muhammad Waseem Maaz, il pediatra più qualificato, è rimasto ucciso nell'attacco.
Aveva lavorato nel nostro ospedale pediatrico di giorno e doveva recarsi all'ospedale di al-Quds per il turno notturno al Pronto Soccorso.
Il dottor Maaz ed io, trascorrevamo 6 ore di lavoro insieme. Era socievole, gentile, scherzava molto con tutto lo staff medico. Era il dottore più adorabile dell'ospedale.
Io sono un Turchia adesso, lui doveva far visita alla sua famiglia dopo il mio ritorno ad Aleppo. Non li vedeva da quattro mesi
Il dottor Maaz stava ad Aleppo, la città più pericolosa al mondo, per la sua grande devozione ai pazienti. Gli ospedali sono stati l'obiettivo del governo e degli aerei russi.
Qualche giorno prima che la vita del dottore fosse presa un attacco aereo ha colpito a soli 200 metri dall'ospedale. Quando il bombardamento si è fatto più intenso, lo staff medico è scappato al piano terra portando con sé le incubatrici per proteggere i neonati.
Come molti altri qui, il dottor Maaz è stato ucciso per salvare delle vite. Oggi ricordiamo la sua umanità e il suo coraggio.
Per favore condividete la sua storia così che altri possano conoscere ciò che i medici affrontano, ad Aleppo e in tutta la Siria.
La situazione ad Aleppo è critica. Aleppo può tornare presto sotto assedio. Abbiamo bisogno della protezione del mondo.
Grazie per averci dedicato un pensiero,
dottor Hatem.
traduzione a cura di Federica Inches
testo originale pubblicato in
the-syria-campaign/last-night-my-friend-was-killed-in-an-airstrike_b_9799074.html
the-syria-campaign/last-night-my-friend-was-killed-in-an-airstrike_b_9799074.html
Giugno 2015, venne colpito un mercato ad Aleppo, diversi i morti e i feriti anche in quell'attacco. |
Il dottor Muhammad Waseem Maaz. |
Dopo le bombe sull'ospedale al-Quds. |
martedì 26 aprile 2016
Černobyl', nessuna lezione. di Rebecca
Il 26 aprile 1986, alle ore 1,23, nella Centrale Nucleare di Černobyl', accadde qualcosa che rivelò, semmai ce ne fosse stato bisogno, l'orrore in grado di essere scatenato da un "banale" incidente.
L'impianto subì una serie di danni a catena, che provocarono l'esplosione di un reattore, dando vita ad un vasto e persistente incendio.
Da questo reattore uscì materiale radioattivo, una nuvola di radiazione.
Quella nube, potente e mortifera, si comportò come ogni altra nube, ovvero seguì il corso del vento, e si propagò in tutta Europa, raggiungendo anche il Nord America.
L'evacuazione dell'area, iniziò circa 36 ore dopo e coprì un raggio di 30 chilometri.
La città di riferimento della Centrale era Pripyat.
A tutt'oggi il filo spinato separa questi luoghi dal resto del mondo.
Ma la radioattività non si punge col filo spinato e ha contaminato la terra ben oltre il limite imposto. A tutt'oggi un'area di circa 300 chilometri risulta altamente inquinata.
L'emissione di vapore radioattivo ebbe fine il 10 maggio.
In tutto vennero evacuate 116.000 persone.
Per il livello di radiazioni raggiunte non esistevano misuratori.
La Centrale ha cessato la sua attività solo nel dicembre del 2000.
In Europa vi sono al momento molte centrali attive e specificatamente in Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Paesi Bassi, Regno Unito, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Ucraina, Ungheria.
E ovviamente ce ne sono in tutto il resto del mondo, ad esempio la Corea del Sud ne ha 6 attive, su un territorio che è circa un terzo di quello italiano.
La Cina ne ha 11, il Canada 4.
Insomma gli Stati, in gran numero, hanno ritenuto maggiore il guadagno del rischio.
E intanto i fantasmi di Černobyl' e di Pripyat non cessano di vagare fra le radiazioni.
Monologo su un mostricino che verrà comunque amato.
L'impianto subì una serie di danni a catena, che provocarono l'esplosione di un reattore, dando vita ad un vasto e persistente incendio.
Da questo reattore uscì materiale radioattivo, una nuvola di radiazione.
Quella nube, potente e mortifera, si comportò come ogni altra nube, ovvero seguì il corso del vento, e si propagò in tutta Europa, raggiungendo anche il Nord America.
L'evacuazione dell'area, iniziò circa 36 ore dopo e coprì un raggio di 30 chilometri.
La città di riferimento della Centrale era Pripyat.
di Ivan Fusetti |
A tutt'oggi il filo spinato separa questi luoghi dal resto del mondo.
Ma la radioattività non si punge col filo spinato e ha contaminato la terra ben oltre il limite imposto. A tutt'oggi un'area di circa 300 chilometri risulta altamente inquinata.
L'emissione di vapore radioattivo ebbe fine il 10 maggio.
In tutto vennero evacuate 116.000 persone.
Per il livello di radiazioni raggiunte non esistevano misuratori.
La Centrale ha cessato la sua attività solo nel dicembre del 2000.
Erba oltre il filo spinato. |
In Europa vi sono al momento molte centrali attive e specificatamente in Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Paesi Bassi, Regno Unito, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Ucraina, Ungheria.
E ovviamente ce ne sono in tutto il resto del mondo, ad esempio la Corea del Sud ne ha 6 attive, su un territorio che è circa un terzo di quello italiano.
La Cina ne ha 11, il Canada 4.
Insomma gli Stati, in gran numero, hanno ritenuto maggiore il guadagno del rischio.
E intanto i fantasmi di Černobyl' e di Pripyat non cessano di vagare fra le radiazioni.
Rebecca
Monologo su un mostricino che verrà comunque amato.
Recentemente mia figlia se ne è venuta fuori con queste parole: «Mamma, se metterò al mondo un piccolo mostro gli vorrò bene lo stesso». Ma si rende conto? Sta finendo le medie e ha già di questi pensieri in testa. Le sue amiche. Pensano tutte a questo.
A una coppia di nostri conoscenti è nato un bambino... Un bambino talmente desiderato, il primo figlio. Di una coppia giovane e bella. Ma è nato con una bocca che gli arriva fino alle orecchie, che però non ci sono... Io non vado più a trovarli con la frequenza di un tempo, ci vado anzi il meno possibile, è più forte di me, invece mia figlia, appena può, ci fa un salto. C’è qualcosa che la spinge da loro, quasi volesse vedere com’è veramente, come si fa ad abituarsi a una cosa del genere...
Ci hanno proposto di andar via, ma io e mio marito abbiamo riflettuto e deciso di rimanere.
Temiamo l'ignoto. Qui siamo tutti "cernobyliani".
Non ci facciamo paura l'un l'altro, se qualcuno ci offre una mela o un cetriolo del suo orto o frutteto,
lo prendiamo e le mangiamo, non lo nascondiamo timorosi in tasca o nella borsetta per gettarlo via appena voltato l'angolo.
Noi condividiamo una stessa memoria. Uno stesso destino.
Al contrario, in qualsiasi altro posto si vada, siamo degli estranei. Dei lebbrosi.
Tutti hanno fatto l'abitudine a espressioni come "quelli di Cernobyl", "gli evacuati di Cernobyl".
Ma, in realtà, di noi non sapete niente.
Probabilmente se a suo tempo non ci avessero lasciati uscire di qui, se avessero circondato la zona con dei cordoni di polizia invalicabili, molti di voi sarebbero stati più tranquilli. [...]
Nei primi giorni. Ho preso mia figlia e mi sono precipitata da mia sorella, a Minsk. Mia sorella, dico mia sorella, non ci ha neanche lasciati entrare in casa perché aveva un bambino piccolo che ancora allattava. Si rende conto? E abbiamo dovuto trascorrere la notte alla stazione. I folli propositi che non mi sono passati per la testa, allora! Dove potevamo scappare? Forse era meglio farla finita, per non dover più soffrire. Erano i primi giorni. Tutti quanti ci immaginavamo delle malattie spaventose. Inconcepibili. E io sono medico. Figuriamoci cosa potevano pensare gli altri!
Guardo i nostri figli. Dovunque vadano, si sentono estranei anche in mezzo ai propri coetanei. In un campo estivo di pionieri, dove mia figlia un anno ha trascorso le vacanze, avevano paura anche solo a toccarla.
«Un riccio di Cernobyl. Una lucciola. Brilla al buio »
La sera la chiamavano in cortile per vedere se era vero. [...]
Cernobyl è una metafora. Un simbolo. Ed è anche la nostra vita quotidiana, il nostro modo di pensare.
Nadezda Afanas'evna Burakova, abitante della cittadina di Chijniki
________________________________________________________________
Monologo su tutta una vita registrata sulla porta di casa
Voglio rendere testimonianza. È successo allora, dieci anni fa, e ogni giorno lo rinvio di nuovo. È sempre con me. Vivevamo nella città di Pripjat'. Proprio in quella.
Non sono uno scrittore. Non sarei in grado di descriverlo. La mia ragione non arriva a comprenderlo. E neanche gli studi superiori aiutano. Stai vivendo. Da uomo qualsiasi. Piccolo. Come tutti gli altri, vai al lavoro e ritorni dal lavoro. Ricevi una retribuzione media. Una volta l'anno vai in ferie. Un uomo normale. E, di punto in bianco, un giorno ti trasformi in un uomo di Cernobyl. In un fenomeno da baraccone. In qualcosa che incuriosisce tutti e che nessuno sa cosa sia.
Tu vorresti essere come tutti, ma non puoi. Non ti è più possibile. Ti guardano con occhi diversi.
Ti fanno delle domande: hai avuto paura laggiù?
Com'era? Cos'hai visto? E, in generale, puoi avere dei figli?
Tua moglie non t'ha lasciato?
All'inizio siamo diventati dei fenomeni ambulanti. Tuttora la parola 'Cernobyliano' è come un segnale acustico. [...]
Abbiamo lasciato la nostra casa il terzo giorno. Il reattore stava bruciando. Mi sono rimaste impresse le parole di un nostro conoscente: «C'è odore di reattore». Un odore indescrivibile. [...]
È andata in questo modo. L'avevano annunciato per radio: proibito portare via i gatti!
Subito la gatta nella valigia. Ma non ci voleva stare, si divincolava. Ha graffiato tutti. Proibito portare con sé le proprie cose. E io non mi sarei portato via niente comunque. Tranne una cosa, una cosa sola! Dovevo togliere la porta d'ingresso dell'appartamento e portarla via, non potevo in nessun caso lasciarla lì. E avrei sbarrato l'ingresso con assi e chiodi. La nostra porta. Il nostro talismano, La reliquia della famiglia. Quand'era morto, mio padre era stato messo disteso su questa porta. Non so in base a quale usanza, e se sia diffusa e dove, ma da noi, mi ha detto mia madre, si usava mettere il defunto sulla porta di casa. Avrebbe aspettato lì l'arrivo della bara. Ho vegliato tutta la notte mio padre disteso su quel catafalco. E la casa è rimasta aperta. Tutta la notte. Sulla porta ci sono delle tacche fin quasi al bordo superiore. Di quanto crescevo. E c'è anche indicato: classe prima, seconda. Settima. Inizio del servizio militare. E accanto, la crescita di mio figlio. Di mia figlia. Su questa porta è registrata tutta la nostra vita. Come potevo lasciarla?
Voglio rendere testimonianza. È successo allora, dieci anni fa, e ogni giorno lo rinvio di nuovo. È sempre con me. Vivevamo nella città di Pripjat'. Proprio in quella.
Non sono uno scrittore. Non sarei in grado di descriverlo. La mia ragione non arriva a comprenderlo. E neanche gli studi superiori aiutano. Stai vivendo. Da uomo qualsiasi. Piccolo. Come tutti gli altri, vai al lavoro e ritorni dal lavoro. Ricevi una retribuzione media. Una volta l'anno vai in ferie. Un uomo normale. E, di punto in bianco, un giorno ti trasformi in un uomo di Cernobyl. In un fenomeno da baraccone. In qualcosa che incuriosisce tutti e che nessuno sa cosa sia.
Tu vorresti essere come tutti, ma non puoi. Non ti è più possibile. Ti guardano con occhi diversi.
Ti fanno delle domande: hai avuto paura laggiù?
Com'era? Cos'hai visto? E, in generale, puoi avere dei figli?
Tua moglie non t'ha lasciato?
All'inizio siamo diventati dei fenomeni ambulanti. Tuttora la parola 'Cernobyliano' è come un segnale acustico. [...]
Abbiamo lasciato la nostra casa il terzo giorno. Il reattore stava bruciando. Mi sono rimaste impresse le parole di un nostro conoscente: «C'è odore di reattore». Un odore indescrivibile. [...]
È andata in questo modo. L'avevano annunciato per radio: proibito portare via i gatti!
Subito la gatta nella valigia. Ma non ci voleva stare, si divincolava. Ha graffiato tutti. Proibito portare con sé le proprie cose. E io non mi sarei portato via niente comunque. Tranne una cosa, una cosa sola! Dovevo togliere la porta d'ingresso dell'appartamento e portarla via, non potevo in nessun caso lasciarla lì. E avrei sbarrato l'ingresso con assi e chiodi. La nostra porta. Il nostro talismano, La reliquia della famiglia. Quand'era morto, mio padre era stato messo disteso su questa porta. Non so in base a quale usanza, e se sia diffusa e dove, ma da noi, mi ha detto mia madre, si usava mettere il defunto sulla porta di casa. Avrebbe aspettato lì l'arrivo della bara. Ho vegliato tutta la notte mio padre disteso su quel catafalco. E la casa è rimasta aperta. Tutta la notte. Sulla porta ci sono delle tacche fin quasi al bordo superiore. Di quanto crescevo. E c'è anche indicato: classe prima, seconda. Settima. Inizio del servizio militare. E accanto, la crescita di mio figlio. Di mia figlia. Su questa porta è registrata tutta la nostra vita. Come potevo lasciarla?
Momenti dell'evacuazione. |
Pripyat, di Ivano Fusetti |
Pripyat, ciò che resta, di Ivano Fusetti |
Ho chiesto a un vicino che aveva la macchina: «Dammi una mano!». Mi ha fatto capire gesticolando che dovevo avere qualche rotella fuori posto. Ma l’ho recuperata lo stesso... Due anni dopo... La porta... Di notte... In motocicletta... Attraverso la foresta... Il nostro appartamento era ormai stato depredato. Ripulito. Avevo alle calcagna quelli della milizia: «Fermo o spariamo! Fermo o spariamo!». Sicuramente mi avevano preso per un saccheggiatore. Non ci avrebbero mai creduto che stavo rubando la porta di casa mia...
...Ho fatto ricoverare in ospedale mia moglie e mia figlia. Avevano delle macchie nere diffuse su tutto il corpo. Che apparivano e scomparivano. Grandi come monete da cinque copechi... Indolori... Hanno fatto tutti gli esami. Ho chiesto: «E i risultati?». «Non sono per lei». «E per chi sono, allora?». A quel tempo, tutti non facevano altro che ripetere: moriremo moriremo... E dicevano che per l’anno 2000 sarebbero scomparsi tutti i bielorussi. Mia figlia aveva sei anni. La metto a letto e lei mi sussurra all’orecchio: «Papà. Voglio vivere, sono ancora piccola». E io che pensavo non potesse capire...
Riesce a immaginarsele sette bambine piccole completamente calve, tutte in una volta? Nella stanza erano in sette... No, ne ho abbastanza! Ho finito! Quando racconto di questo ho come la sensazione, è il cuore a suggerirmelo, di commettere un tradimento. Perché devo descriverla come un’estranea... Le sue sofferenze... Mia moglie rientra dall’ospedale... Non ce la fa più a resistere: «Sarebbe meglio se morisse, invece di soffrire a quel modo! O che muoia io piuttosto, per non doverla più vedere!». No, basta! Ho finito! Non posso. No! L’abbiamo posata sulla porta... Su quella porta dove a suo tempo era stato disteso mio padre. Finché non hanno portato la piccola bara... Era piccola, come la scatola di una bambola, di quelle grandi.
Voglio rendere testimonianza che mia figlia è morta a causa di Cernobyl’. E si pretenderebbe da noi che dimenticassimo...
Nikolaj Fomic Kalugin, un padre
________________________________________________________________
Monologo su un paesaggio lunare
A un tratto ho cominciato ad avere dei dubbi. Cos'era meglio: ricordare o dimenticare?
di Ivano Fusetti |
di Ivano Fusetti |
Questo bimbo era in un orfanotrofio bielorusso quando Igor Kostin lo fotografò nel 1988. In seguito alla divulgazione della foto il bimbo venne adottato da una famiglia britannica. |
Pripyat, di Ivano Fusetti |
Ho sottoposto la questione ai miei conoscenti. Alcuni hanno dimenticato, altri non vogliono ricordare, perché tanto non possiamo nemmeno andarcene da qui. Quel che mi ricordo. Nei giorni immediatamente successivi all'incidente, dalle biblioteche sono spariti i libri sulle radiaizoni, su Hiroshima e Nagasaki e perfino sui röntgen [unità di misura dell'esposizione ad una radiazione ionizzante]. Circolava la voce che fosse un ordine delle autorità, per evitare il panico. Comunque sia sono mancate completamente sia le indicazioni mediche che l'informazione in generale. Chi poteva, acquistava delle pastiglie di ioduro di potassio (nelle farmacia della nostra città non erano in vendita, e per procurarsene ci volevano le conoscenze giuste).
Capitava che qualcuno inghiottisse un pugno di queste pastiglie accompagnandole con un bicchiere di alcol puro. Accorreva l'ambulanza e lo rianimavano in extremis.
Poi si è individuato un segno
indicatore, e tutti hanno cominciato a prestarci attenzione: finché in città o nel
villaggio c’erano passeri e colombi, ci poteva vivere anche l’uomo. Ricordo la
perplessità di un conducente di taxi: non riusciva a capire perché gli uccelli,
come ciechi, si buttassero contro il suo parabrezza, ammazzandosi. Come
impazziti... Era qualcosa che somigliava a un suicidio...
Un’altra cosa che ricordo è il mio
viaggio di ritorno da quei luoghi. Un vero paesaggio lunare... da una parte e
dall’altra della strada si stendevano fino all’orizzonte i campi coperti di
dolomite bianca. Lo strato superficiale contaminato del suolo era stato
asportato e interrato altrove, e al suo posto era stato sparso un uniforme
strato di sabbia di dolomite. Non sembrava più la nostra terra.
Biblioteca, foto di Ivan Fusetti |
Questa visione mi ha tormentato per molto tempo e ho perfino tentato di trarne un racconto. Vi immaginavo ciò che sarebbe successo tra cent’anni: un uomo, o quel che è diventato, stando a quattro zampe avanza a grandi balzi slanciando all’indietro le lunghe gambe posteriori con le ginocchia voltate, è notte ma vede tutto distintamente col suo terzo occhio e il suo unico orecchio sulla nuca sente perfino l’andirivieni di una formica. Sono rimaste solo le formiche, tutti gli altri esseri che popolavano la terra e il cielo sono morti...
Ho mandato il racconto a una rivista. Mi hanno risposto che la mia non era un’opera letteraria, ma l’esposizione di un incubo notturno. Naturalmente è anche questione di scarso talento, ma secondo me c’è dell’altro. E ho cominciato a chiedermi come mai Cernobyl' interessi così poco i nostri scrittori, i quali continuano a scrivere sulla guerra, i lager, ma di questo tacciono. Pensate che sia un caso? Se noi avessimo vinto Cernobyl’, se ne parlerebbe e scriverebbe di più. O se l’avessimo almeno compreso. E invece non sappiamo che senso trarre da tutto questo orrore. Non ne siamo capaci. Perché non è commisurabile né alla nostra esperienza di uomini né al nostro tempo umano. E allora, cos’è meglio: ricordare o dimenticare?
Evgenij Aleksandrovic’ Brovkin, docente dell’Università statale di Gomel
i Monologhi sono tratti dal libro "Preghiera per Cernobyl", e/o, 2002.
traduzione dal russo di Sergio Rapetti
domenica 24 aprile 2016
"Attacco di Panico" di Rebecca
La macchina mi si chiude sul petto.
L'aria si è prosciugata.
Devo fermarmi, uscire.
Il mondo eclissato e tachicardico.
Non vedo.
La luce acceca e il frastuono del cuore mi confonde.
Sulle labbra un tremore.
Questi non sono i miei pensieri.
I miei pensieri sfuggono
si distribuiscono in movimenti a scatti.
Topi terrorizzati che se ne vanno
calpestandosi furiosi.
Smodato il sudore fa scivolare le mani sul volante.
Non sto per morire, lo so. Lo so.
Lo so.
Ma sono qui, sul confine più esposto alla perdita del senso.
Non è nero qui
è un luogo di nebbia acustica.
Cerco la vetta,
l'apice da cui sprofondare
e uscire da questo corpo
che non riconosco.
Ha una durata,
dura un po'
poi va via
dura questo tempo
e poi il sangue ridistribuisce i colori.
Questo infinito si appropria dei secondi
li strappa alla continuità
li incaglia nel fondo melmoso della paura.
Domani guarirò.
Domani la luna volterà la parte scura verso me
la ruota della bicicletta girerà sul suo mozzo
e tic tac tic tac tic
tornerà il battito perduto
e sarò, per quel lasso di presente,
la ragazzina che si rialza.
Eccolo, ritorna:
maniglioni antipanico,
disegnati sul muro:
nessuna porta.
Almeno, per ora.
L'aria si è prosciugata.
Devo fermarmi, uscire.
Il mondo eclissato e tachicardico.
Non vedo.
La luce acceca e il frastuono del cuore mi confonde.
Sulle labbra un tremore.
Questi non sono i miei pensieri.
I miei pensieri sfuggono
si distribuiscono in movimenti a scatti.
Topi terrorizzati che se ne vanno
calpestandosi furiosi.
Smodato il sudore fa scivolare le mani sul volante.
Non sto per morire, lo so. Lo so.
Lo so.
Ma sono qui, sul confine più esposto alla perdita del senso.
Non è nero qui
è un luogo di nebbia acustica.
Cerco la vetta,
l'apice da cui sprofondare
e uscire da questo corpo
che non riconosco.
Ha una durata,
dura un po'
poi va via
dura questo tempo
e poi il sangue ridistribuisce i colori.
Questo infinito si appropria dei secondi
li strappa alla continuità
li incaglia nel fondo melmoso della paura.
Domani guarirò.
Domani la luna volterà la parte scura verso me
la ruota della bicicletta girerà sul suo mozzo
e tic tac tic tac tic
tornerà il battito perduto
e sarò, per quel lasso di presente,
la ragazzina che si rialza.
Eccolo, ritorna:
maniglioni antipanico,
disegnati sul muro:
nessuna porta.
Almeno, per ora.
mercoledì 20 aprile 2016
La Strage di Utøya e Anders Breivik. Rebecca
Eirin Kristin Kjaer e le sue ferite in un disegno di Laurel. |
Il ventidue luglio del duemilaundici, Anders Behring Breivik fece esplodere un'autobomba nella città di Oslo, i morti furono otto e numerosi i feriti, poi si recò sull'Isola di Utøya, sempre in Norvegia.
Sull'isola estrasse le sue armi e uccise, con pieno agio, 69 ragazzi.
I ragazzi erano sull'isola per il campo estivo dei giovani socialdemocratici.
Nel duemilaquindici è stato fissato, fra gli abeti nel bosco di Utøya, un grande anello d'acciaio su cui sono incisi i nomi di tutte le 77 vittime. L'anello in norvegese si chiama Lysningen. La sua presenza nel bosco, nel silenzio verde dell'isola, vuole ricordare anche tutti coloro che erano presenti durante gli omicidi e tutti coloro che, in quei novanta minuti, hanno perso i figli, i fratelli, gli amici, il futuro.
La commemorazione del duemilaquindici ha visto anche la riapertura del Campus coi suoi seminari.
I ragazzi uccisi avevano fra i quattordici e i vent'anni.
I sopravvissuti sono circa cinquecento e molti di loro hanno una memoria di cicatrici sul corpo, tutti hanno una memoria di incubi nell'anima:
Ylva Schwenke, aveva 15 anni, Breivik l'ha colpita alla spalla sinistra, allo stomaco, alle cosce;
Viljar Hansen, aveva 18 anni, è stato colpito alla testa, alla spalla e alla mano sinistra, alla coscia, è diventato cieco all'occhio destro e ha subito l'amputazione di tre dita;
Cecilie Herlovsen, aveva 17 anni, ha subito l'amputazione del braccio;
Cecilie Herlovsen, aveva 17 anni, ha subito l'amputazione del braccio;
Eirin Kristin Kjaer, aveva 20 anni, i colpi l'hanno raggiunta allo stomaco, alle braccia, alle gambe;
Mohamad Hamed Hadi, aveva 21 anni, è stato in coma per due mesi dopo che Breivik lo ha colpito alla spalla destra, alla gamba sinistra e al petto; gamba e braccio sono stati amputati.
La giustizia ha fatto il suo corso.
Anders Behring Breivik, colto in flagranza di reato, è stato riconosciuto "sano di mente" e condannato al massimo della pena previsto dalla legislazione norvegese: 21 anni.
Anders Behring Breivik è stato ammesso agli studi nella Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Oslo, in Norvegia c'è la garanzia della pena, ma anche la piena valutazione dei diritti civili.
Anders Behring Breivik ha intentato causa contro il suo Paese per "trattamento disumano", poiché è in isolamento totale da circa cinque anni.
Il 20 aprile 2016, un tribunale di Oslo riconosce che il regime di privazione nel quale il prigioniero viene tenuto è da considerarsi regime di "tortura".
Oggi, 1° marzo 2017 la Corte d'Appello norvegese di Borgarting ha stabilito che non c'è stata violazione dei diritti umani.
Ma questa è la storia di Anders Behring Breivik e non mi interessa più. È giusto che interessi la giustizia. È giusto che la giustizia non sia bestiale. Di fronte ad un uomo che oggi, come sempre, è entrato nell'aula del Tribunale con il saluto nazista e la sua faccia ariana (il suo naso è frutto di un intervento di chirurgia per essere più ariano fra gli ariani).
Per tutti quei ragazzi, per tutte quelle persone coinvolte nel suo lucidissimo piano, l'oscenità di trovarsi di fronte a quella faccia, tanti dei sopravvissuti hanno raccontato di essersi trovati occhi negli occhi con lui, ma questo non è valso a nulla. A nulla cercare un contatto di umanità. In novanta minuti, nulla lo ha dissuaso da ciò che stava compiendo.
Ciò che fa molto male è che Anders Behring Breivik sopravvive a tutto questo, ne gode tuttora, poiché la sua opera è stata compiuta e la punizione ne è solo un frutto.
Le immagini del fotografo norvegese Andrea Gjestvang sono testimonianza sensoriale ed emotiva di ciò che i ragazzi che erano ad Utøya conservano intatto e visibile sul corpo. Il resto è invisibile, forse.
Hanne Hesto Ness, ha subito circa quindici interventi chirurgici.
È stata in sedia a rotelle e, a tutt'oggi, le sue gambe faticano e i dolori raggiungono picchi importanti, ha perso il mignolo.
"One Week Last Summer" è il tatuaggio che ha sul braccio.
La legislazione norvegese non ha dato ragione ad Anders Behring Breivik, ma ha dato ragione al suo stesso essere legge.
Lo stato detentivo in cui il prigioniero versava da cinque anni era stato considerato lesivo dei diritti umani.
Ci sono stati interventi molto duri in merito, ma dobbiamo accettare di fare uno sforzo molto molto grande, dobbiamo riconoscere la differenza fra ciò che la legge deve garantire e ciò che la legge non deve essere.
La giustizia deve garantire il riconoscimento del reato, deve commisurare la pena, deve garantire la durata della condanna. Solo se fino in fondo manterrà questo equilibrio sarà vera legge.
Per la mostruosità che Breivik ha commesso la pena è lì, ferma su di lui; nessuno sconto è previsto.
Ma la legge deve essere civile, perché il legislatore non è un anonimo burocrate; il legislatore fa i conti con la propria coscienza e non la rabbia inestinguibile o la vendetta.
Nessun figlio, nessun genitore, nessuna sorella, nessuno riavrà al suo fianco le persone che Breivik ha ucciso con crudeltà e freddezza, ma la legge deve prendere le distanze dalla crudeltà.
Quella della Corte d'Appello norvegese è stata la decisione di una giustizia matura, in un percorso in cui Stato di Norvegia ha accettato con estremo coraggio di poter essere stesso colpevole di tortura.
Coraggio e coerenza etica, binomio rarissimo nella storia dell'uomo.
La legislazione norvegese non ha dato ragione ad Anders Behring Breivik, ma ha dato ragione al suo stesso essere legge.
Lo stato detentivo in cui il prigioniero versava da cinque anni era stato considerato lesivo dei diritti umani.
Ci sono stati interventi molto duri in merito, ma dobbiamo accettare di fare uno sforzo molto molto grande, dobbiamo riconoscere la differenza fra ciò che la legge deve garantire e ciò che la legge non deve essere.
La giustizia deve garantire il riconoscimento del reato, deve commisurare la pena, deve garantire la durata della condanna. Solo se fino in fondo manterrà questo equilibrio sarà vera legge.
Per la mostruosità che Breivik ha commesso la pena è lì, ferma su di lui; nessuno sconto è previsto.
Ma la legge deve essere civile, perché il legislatore non è un anonimo burocrate; il legislatore fa i conti con la propria coscienza e non la rabbia inestinguibile o la vendetta.
Nessun figlio, nessun genitore, nessuna sorella, nessuno riavrà al suo fianco le persone che Breivik ha ucciso con crudeltà e freddezza, ma la legge deve prendere le distanze dalla crudeltà.
Quella della Corte d'Appello norvegese è stata la decisione di una giustizia matura, in un percorso in cui Stato di Norvegia ha accettato con estremo coraggio di poter essere stesso colpevole di tortura.
Coraggio e coerenza etica, binomio rarissimo nella storia dell'uomo.
Rebecca
Mohamad Hamed Hadi, aveva 21 anni.
foto di Andrea Gjestvang |
Hanne Hesto Ness, ha subito circa quindici interventi chirurgici.
"One Week Last Summer" è il suo tatuaggio.
foto di Andrea Gjestvang
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Viljar Hansen, aveva 18 anni.
foto di Andrea Gjestvang |
Iselin Rose Borch, 15 anni al momento dell'assalto. Iselin ora ha paura del buio e ha difficoltà a dormire. foto di Andrea Gjestvang |
Ina Libak, 21 anni quando Breivik assale l'isola. è stata colpita da 5 proiettili. foto di Andrea Gjestvang |
Eirin Kristin Kjaer, aveva 20 anni. foto di Andrea Gjestvang |
Cecilie Herlovsen, aveva 17 anni.
foto di Andrea Gjestvang
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Il tatuaggio di Cecilie Herlovsen, rappresenta il suo percorso dopo Utøya. |
il Memoriale: un grande anello di acciaio su cui sono incisi i nomi delle 77 vittime. |
Ylva Schwenke, aveva 15 anni.
foto di Andrea Gjestvang |
Ida Karoline Broholm, 21 anni. il tatuaggio con la data della strage. foto di Andrea Gjestvang |
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