martedì 26 aprile 2016

Černobyl', nessuna lezione. di Rebecca

Il 26 aprile 1986, alle ore 1,23, nella Centrale Nucleare di Černobyl', accadde qualcosa che rivelò, semmai ce ne fosse stato bisogno, l'orrore in grado di essere scatenato da un "banale" incidente.
L'impianto subì una serie di danni a catena, che provocarono l'esplosione di un reattore, dando vita ad un vasto e persistente incendio.
Da questo reattore uscì materiale radioattivo, una nuvola di radiazione.
Quella nube, potente e mortifera, si comportò come ogni altra nube, ovvero seguì il corso del vento, e si propagò in tutta Europa, raggiungendo anche il Nord America.
L'evacuazione dell'area, iniziò circa 36 ore dopo e coprì un raggio di 30 chilometri.
La città di riferimento della Centrale era Pripyat.
di Ivan Fusetti



A tutt'oggi il filo spinato separa questi luoghi dal resto del mondo.
Ma la radioattività non si punge col filo spinato e ha contaminato la terra ben oltre il limite imposto. A tutt'oggi un'area di circa 300 chilometri risulta altamente inquinata.
L'emissione di vapore radioattivo ebbe fine il 10 maggio.
In tutto vennero evacuate 116.000 persone.
Per il livello di radiazioni raggiunte non esistevano misuratori.
La Centrale ha cessato la sua attività solo nel dicembre del 2000.



Erba oltre il filo spinato.


In Europa vi sono al momento molte centrali attive e specificatamente in Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Paesi Bassi, Regno Unito, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Ucraina, Ungheria.
E ovviamente ce ne sono in tutto il resto del mondo, ad esempio la Corea del Sud ne ha 6 attive, su un territorio che è circa un terzo di quello italiano.
La Cina ne ha 11, il Canada 4.

Insomma gli Stati, in gran numero, hanno ritenuto maggiore il guadagno del rischio.

E intanto i fantasmi di Černobyl' e di Pripyat non cessano di vagare fra le radiazioni.

Rebecca



Monologo su un mostricino che verrà comunque amato.
Recentemente mia figlia se ne è venuta fuori con queste parole: «Mamma, se metterò al mondo un piccolo mostro gli vorrò bene lo stesso». Ma si rende conto? Sta finendo le medie e ha già di questi pensieri in testa. Le sue amiche. Pensano tutte a questo.


A una coppia di nostri conoscenti è nato un bambino... Un bambino talmente desiderato, il primo figlio. Di una coppia giovane e bella. Ma è nato con una bocca che gli arriva fino alle orecchie, che però non ci sono... Io non vado più a trovarli con la frequenza di un tempo, ci vado anzi il meno possibile, è più forte di me, invece mia figlia, appena può, ci fa un salto. C’è qualcosa che la spinge da loro, quasi volesse vedere com’è veramente, come si fa ad abituarsi a una cosa del genere...
Ci hanno proposto di andar via, ma io e mio marito abbiamo riflettuto e deciso di rimanere.
Temiamo l'ignoto. Qui siamo tutti "cernobyliani".
Non ci facciamo paura l'un l'altro, se qualcuno ci offre una mela o un cetriolo del suo orto o frutteto,
lo prendiamo e le mangiamo, non lo nascondiamo timorosi in tasca o nella borsetta per gettarlo via appena voltato l'angolo.
Noi condividiamo una stessa memoria. Uno stesso destino.
Al contrario, in qualsiasi altro posto si vada, siamo degli estranei. Dei lebbrosi.
Tutti hanno fatto l'abitudine a espressioni come "quelli di Cernobyl", "gli evacuati di Cernobyl".
Ma, in realtà, di noi non sapete niente.
Perché ci temete.




Probabilmente se a suo tempo non ci avessero lasciati uscire di qui, se avessero circondato la zona con dei cordoni di polizia invalicabili, molti di voi sarebbero stati più tranquilli. [...] 
Nei primi giorni. Ho preso mia figlia e mi sono precipitata da mia sorella, a Minsk. Mia sorella, dico mia sorella, non ci ha neanche lasciati entrare in casa perché aveva un bambino piccolo che ancora allattava. Si rende conto? E abbiamo dovuto trascorrere la notte alla stazione. I folli propositi che non mi sono passati per la testa, allora! Dove potevamo scappare? Forse era meglio farla finita, per non dover più soffrire. Erano i primi giorni. Tutti quanti ci immaginavamo delle malattie spaventose. Inconcepibili. E io sono medico. Figuriamoci cosa potevano pensare gli altri!
Guardo i nostri figli. Dovunque vadano, si sentono estranei anche in mezzo ai propri coetanei. In un campo estivo di pionieri, dove mia figlia un anno ha trascorso le vacanze, avevano paura anche solo a toccarla. 
«Un riccio di Cernobyl. Una lucciola. Brilla al buio »
La sera la chiamavano in cortile per vedere se era vero. [...]
Cernobyl è una metafora. Un simbolo. Ed è anche la nostra vita quotidiana, il nostro modo di pensare.

Nadezda Afanas'evna Burakova, abitante della cittadina di Chijniki
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Monologo su tutta una vita registrata sulla porta di casa
Voglio rendere testimonianza. È successo allora, dieci anni fa, e ogni giorno lo rinvio di nuovo. È sempre con me. Vivevamo nella città di Pripjat'. Proprio in quella. 




Non sono uno scrittore. Non sarei in grado di descriverlo. La mia ragione non arriva a comprenderlo. E neanche gli studi superiori aiutano. Stai vivendo. Da uomo qualsiasi. Piccolo. Come tutti gli altri, vai al lavoro e ritorni dal lavoro. Ricevi una retribuzione media. Una volta l'anno vai in ferie. Un uomo normale. E, di punto in bianco, un giorno ti trasformi in un uomo di Cernobyl. In un fenomeno da baraccone. In qualcosa che incuriosisce tutti e che nessuno sa cosa sia.
Tu vorresti essere come tutti, ma non puoi. Non ti è più possibile. Ti guardano con occhi diversi. 
Ti fanno delle domande: hai avuto paura laggiù?
Com'era? Cos'hai visto? E, in generale, puoi avere dei figli?
Tua moglie non t'ha lasciato?
All'inizio siamo diventati dei fenomeni ambulanti. Tuttora la parola 'Cernobyliano' è come un segnale acustico. [...]
Abbiamo lasciato la nostra casa il terzo giorno. Il reattore stava bruciando. Mi sono rimaste impresse le parole di un nostro conoscente: «C'è odore di reattore». Un odore indescrivibile. [...]
È andata in questo modo. L'avevano annunciato per radio: proibito portare via i gatti!
Subito la gatta nella valigia. Ma non ci voleva stare, si divincolava. Ha graffiato tutti. Proibito portare con sé le proprie cose. E io non mi sarei portato via niente comunque. Tranne una cosa, una cosa sola! Dovevo togliere la porta d'ingresso dell'appartamento e portarla via, non potevo in nessun caso lasciarla lì. E avrei sbarrato l'ingresso con assi e chiodi. La nostra porta. Il nostro talismano, La reliquia della famiglia. Quand'era morto, mio padre era stato messo disteso su questa porta. Non so in base a quale usanza, e se sia diffusa e dove, ma da noi, mi ha detto mia madre, si usava mettere il defunto sulla porta di casa. Avrebbe aspettato lì l'arrivo della bara. Ho vegliato tutta la notte mio padre disteso su quel catafalco. E la casa è rimasta aperta. Tutta la notte. Sulla porta ci sono delle tacche fin quasi al bordo superiore. Di quanto crescevo. E c'è anche indicato: classe prima, seconda. Settima. Inizio del servizio militare. E accanto, la crescita di mio figlio. Di mia figlia. Su questa porta è registrata tutta la nostra vita. Come potevo lasciarla?

Momenti dell'evacuazione.


Pripyat, di Ivano Fusetti

Pripyat, ciò che resta, di Ivano Fusetti

Ho chiesto a un vicino che aveva la macchina: «Dammi una mano!». Mi ha fatto capire gesticolando che dovevo avere qualche rotella fuori posto. Ma l’ho recuperata lo stesso... Due anni dopo... La porta... Di notte... In motocicletta... Attraverso la foresta... Il nostro appartamento era ormai stato depredato. Ripulito. Avevo alle calcagna quelli della milizia: «Fermo o spariamo! Fermo o spariamo!». Sicuramente mi avevano preso per un saccheggiatore. Non ci avrebbero mai creduto che stavo rubando la porta di casa mia...
...Ho fatto ricoverare in ospedale mia moglie e mia figlia. Avevano delle macchie nere diffuse su tutto il corpo. Che apparivano e scomparivano. Grandi come monete da cinque copechi... Indolori... Hanno fatto tutti gli esami. Ho chiesto: «E i risultati?». «Non sono per lei». «E per chi sono, allora?». A quel tempo, tutti non facevano altro che ripetere: moriremo moriremo... E dicevano che per l’anno 2000 sarebbero scomparsi tutti i bielorussi. Mia figlia aveva sei anni. La metto a letto e lei mi sussurra all’orecchio: «Papà. Voglio vivere, sono ancora piccola». E io che pensavo non potesse capire...
Riesce a immaginarsele sette bambine piccole completamente calve, tutte in una volta? Nella stanza erano in sette... No, ne ho abbastanza! Ho finito! Quando racconto di questo ho come la sensazione, è il cuore a suggerirmelo, di commettere un tradimento. Perché devo descriverla come un’estranea... Le sue sofferenze... Mia moglie rientra dall’ospedale... Non ce la fa più a resistere: «Sarebbe meglio se morisse, invece di soffrire a quel modo! O che muoia io piuttosto, per non doverla più vedere!». No, basta! Ho finito! Non posso. No! L’abbiamo posata sulla porta... Su quella porta dove a suo tempo era stato disteso mio padre. Finché non hanno portato la piccola bara... Era piccola, come la scatola di una bambola, di quelle grandi.
Voglio rendere testimonianza che mia figlia è morta a causa di Cernobyl’. E si pretenderebbe da noi che dimenticassimo...
Nikolaj Fomic Kalugin, un padre
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Monologo su un paesaggio lunare
A un tratto ho cominciato ad avere dei dubbi. Cos'era meglio: ricordare o dimenticare?

di Ivano Fusetti

di Ivano Fusetti

Questo bimbo era in un orfanotrofio bielorusso quando Igor Kostin lo fotografò nel 1988.
In seguito alla divulgazione della foto il bimbo venne adottato da una famiglia britannica.

Pripyat, di Ivano Fusetti


Ho sottoposto la questione ai miei conoscenti. Alcuni hanno dimenticato, altri non vogliono ricordare, perché tanto non possiamo nemmeno andarcene da qui. Quel che mi ricordo. Nei giorni immediatamente successivi all'incidente, dalle biblioteche sono spariti i libri sulle radiaizoni, su Hiroshima e Nagasaki e perfino sui röntgen [unità di misura dell'esposizione ad una radiazione ionizzante]. Circolava la voce che fosse un ordine delle autorità, per evitare il panico. Comunque sia sono mancate completamente sia le indicazioni mediche che l'informazione in generale. Chi poteva, acquistava delle pastiglie di ioduro di potassio (nelle farmacia della nostra città non erano in vendita, e per procurarsene ci volevano le conoscenze giuste).
Capitava che qualcuno inghiottisse un pugno di queste pastiglie accompagnandole con un bicchiere di alcol puro. Accorreva l'ambulanza e lo rianimavano in extremis.

Poi si è individuato un segno indicatore, e tutti hanno cominciato a prestarci attenzione: finché in città o nel villaggio c’erano passeri e colombi, ci poteva vivere anche l’uomo. Ricordo la perplessità di un conducente di taxi: non riusciva a capire perché gli uccelli, come ciechi, si buttassero contro il suo parabrezza, ammazzandosi. Come impazziti... Era qualcosa che somigliava a un suicidio...
Un’altra cosa che ricordo è il mio viaggio di ritorno da quei luoghi. Un vero paesaggio lunare... da una parte e dall’altra della strada si stendevano fino all’orizzonte i campi coperti di dolomite bianca. Lo strato superficiale contaminato del suolo era stato asportato e interrato altrove, e al suo posto era stato sparso un uniforme strato di sabbia di dolomite. Non sembrava più la nostra terra.
Biblioteca, foto di Ivan Fusetti

Questa visione mi ha tormentato per molto tempo e ho perfino tentato di trarne un racconto. Vi immaginavo ciò che sarebbe successo tra cent’anni: un uomo, o quel che è diventato, stando a quattro zampe avanza a grandi balzi slanciando all’indietro le lunghe gambe posteriori con le ginocchia voltate, è notte ma vede tutto distintamente col suo terzo occhio e il suo unico orecchio sulla nuca sente perfino l’andirivieni di una formica. Sono rimaste solo le formiche, tutti gli altri esseri che popolavano la terra e il cielo sono morti...
Ho mandato il racconto a una rivista. Mi hanno risposto che la mia non era un’opera letteraria, ma l’esposizione di un incubo notturno. Naturalmente è anche questione di scarso talento, ma secondo me c’è dell’altro. E ho cominciato a chiedermi come mai Cernobyl' interessi così poco i nostri scrittori, i quali continuano a scrivere sulla guerra, i lager, ma di questo tacciono. Pensate che sia un caso? Se noi avessimo vinto Cernobyl’, se ne parlerebbe e scriverebbe di più. O se l’avessimo almeno compreso. E invece non sappiamo che senso trarre da tutto questo orrore. Non ne siamo capaci. Perché non è commisurabile né alla nostra esperienza di uomini né al nostro tempo umano. E allora, cos’è meglio: ricordare o dimenticare?
Evgenij Aleksandrovic’ Brovkin, docente dell’Università statale di Gomel




i Monologhi sono tratti dal libro "Preghiera per Cernobyl", e/o, 2002.
traduzione dal russo di Sergio Rapetti

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