lunedì 4 aprile 2016

"Nel profondo della Città dei Morti. Il Cairo" di Rebecca

Anbar indossava la sua tunica. Rimaneva ferma al centro della sala e le girava la testa. Dopo tanto, tanto tempo era tornata in Egitto. Non aveva più l’età per essere una bambina eppure, se questo era oramai naturale a Parigi, ora, lì si sentiva a disagio. Lì essere donna significava abbassare lo sguardo e smettere di parlare.

Per l’occasione, la madre e le zie, le avevano preparato degli abiti tradizionali. Una tunica e, sopra, un velo di un azzurro così leggero da far esplodere di luce la sua pelle e il nero dei suoi occhi.
Anbar tremava mentre un leggero sudore le faceva sentire sulla schiena la ruvidezza del cotone grezzo.
Tutto avrebbe voluto, tranne essere lì. Esserci quel giorno. Anche il cielo le piombava addosso con quel blu intenso. I suoi occhi si erano abituati al cielo francese, ai comignoli e a quel senso di solitudine che, nel tempo, le aveva regalato una profonda conoscenza di sé.
Sapeva che sarebbe dovuta rimanere lì almeno cinque mesi. Cinque mesi per accompagnare il lutto della madre.
Cinque mesi di rispetto di regole sociali che non le appartenevano più, che non le erano mai appartenute e che aveva dovuto vivere.
Lì ad Al-Qarafa, alla Città dei Morti del Cairo, la sua era considerata una famiglia fortunata. Suo padre, Hussein, vendeva acquari. Acquari e pesci rossi, oltre a rari pesci blu, che il papà chiamava pesci chirurgo, e qualche pesce pagliaccio.
Anbar aveve visto migliaia di pesci rossi nella sua vita. Da bambina ci passava le ore davanti agli acquari. Tutto un pomeriggio a guardare il loro muoversi. Papà Hussein non li divideva per grandezza come aveva visto fare nel grande capannone dove andavano a prenderli, lui li teneva mescolati. Così carpe di 15 o 20 centimetri vivevano scivolando nella stessa acqua di alcuni pesciolini piccoli, piccoli come il piccolo mignolo di Anbar. Qualche volta i pesciolini non sopravvivevano alla convivenza.
Praticamente il suo mondo di bambina era diviso tra un quartiere in cui a stento arrivavano le fognature e i vetri trasparenti degli acquari. Le piaceva osservare come tutto quel gran movimento dei pesci non lasciasse nessuna traccia. Quando lei camminava in strada, quando pioveva e l'acqua sommergeva le strade fra le tombe e le abitazioni, i suoi piedi lasciavano orme a terra e, quando rientrava a casa, era il fango a lasciare le sue impronte. Invece i pesci no, nuotavano nuotavano e l’acqua rimaneva intonsa. Questo la affascinava. Non capiva come e perché ma trovava questo fatto importante. Trovava che avrebbe voluto poterlo vivere, farlo suo. Un po’ per giocare a nascondino e non lasciare i segni della sua corsa, un po’ perché se così fosse stato anche per gli umani, la sua casa sarebbe stata più pulita, senza tutta quella polvere. 

Al-Qarafa mostrava il suo volto migliore nei giorni di sole, quando la lunga siccità ne seccava le vie e i muri degli edifici antichi sembravano sgretolarsi e cadere al suolo. Si sdisfacevano per poi tornare a compattarsi quando la pioggia li scuriva. Ma il silenzio dell’acqua rendeva più evidente che in quel posto convivevano la vita e la morte. Anbar lo ricordava come un luogo con tutte le sfumature del marrone, dal beige chiaro al testa di moro.
Invece nel negozio di papà Hussein il mondo era colorato e perennemente bagnato. 
I colori dei pesci raccontavano il mare. E, per Anbar, i pensieri di quel mare erano così difficili da tradurre. Non avrebbe saputo metterli in ordine e non avrebbe potuto dire di quali parole fossero formati. C’erano idee tipo “luce”, “movimento”, “correre”, "andare". Era talmente tanto il tempo e lunga la solitudine di quelle giornate al negozio, che riusciva a fare tanti disegni per acchiappare quello che sentiva davanti a quegli acquari.
Per disegnare poteva usare una matita con la punta tagliata dal coltello. Disegnava sugli scatoloni in cui arrivavano gli acquari o sul retro dei fogli che il padre usava per fare i conti. Erano rari perché papà Hussein li riempiva all'inverosimile. Ad Anbar sembrava di disegnare sulle dune, le alture erano i numeri pigiati dalla matita del padre, che si imprimevano sul foglio. E lei lì tracciava l’ombra che i pesci fanno sul fondo dell’acquario. Questo le sembrava l’unico segno che potesse renderli reali. Avevano un’ombra, erano vivi e presenti.
Altre volte era il fango stesso a permetterle di disegnare. Con dei bastoni o anche con del ferro tracciava nella terra umida delle linee. Erano irriconoscibili pesci dalla forma allungata. Erano le ombre. Aveva preso anche a spiare la sua di ombra e quella delle persone in strada, a casa, ovunque, ma non si somigliavano per niente. L’acqua rendeva le ombre dei uniche. Delle saette marine. Erano ombre ma avrebbe voluto disegnarle come luci.

Ora era lì con il suo abito. Si guardò ancora, riflessa sul vetro della finestra. E decise di cambiarsi. Indossò comunque un abito cerimoniale ma un abito che sentiva più suo. La galabia che scelse era grigio perla. Dalla finestra poteva vedere ciò che aveva sempre visto: lapidi, lapidi ovunque, e poco di lato panni stesi, qualche macchina e i parenti in attesa. Le lapidi per lei erano orizzonte di vita e quotidianità, andare in Europa e non trovarne l’aveva fatta sentire spaesata. Così aveva fatto visita più volte ai cimiteri parigini. Ma non era la stessa cosa, quei cimiteri erano tristi, silenziosi, lei era abituata a sentire la morte come la compagna di giochi. Anche quando andava in bagno, fuori dalla finestra, erano ancora lapidi.
Stavolta sarebbe toccato a suo padre venire sepolto, poco lontano da lì. Nella nuda terra, coperto solo da un drappo durante il trasporto. Seppellito sul fianco destro e con la testa rivolta, ancora e per sempre, rispettando la direzione della qibla.
Anbar non sentiva dolore. La morte non era questo. Sapeva che il negozio dei pesci avrebbe continuato a esserci. Anche se nel tempo tutto era cambiato. I pesci ora erano divisi per grandezza e tipo. I quaderni e le matite erano vicino alla cassa, sul bancone.

Fuori la città premeva. La primavera araba urlava e moriva tutt’attorno. Ma questo non sembrava intaccare la quotidianità, nella Città dei Morti. Quella primavera era un fiume di uomini di cui era impossibile vedere l’ombra riflessa, fitti com’erano. Qualcuno si elevava fino in cielo, dandosi fuoco. Ecco Anbar era voluta fuggire da quel tipo di morte. Da quel tipo di disperazione.
Solo l’ombra negli acquari poteva darle sollievo.
Era cresciuta sapendo che la morte e la vita se ne andavano a braccetto e che, tutto sommato, forse quel loro camminare fianco a fianco era come il non lasciare traccia dei pesci. Era come farsi leggeri.

Avrebbe fatto tutto ciò che doveva.

Passarono i cinque mesi. Ne passarono di più. Finalmente Anbar riuscì ad andare via. Appena fu a Parigi si recò alla piscina Château des Rentiers. Nello spogliatoio sentiva il suo corpo stonato. La sua nudità ferita dal caldo e dall’umidità. Si sentiva ferita dagli sguardi distratti delle altre donne. 
Indossò il suo costume intero, verde smeraldo. E si mosse in direzione della sala delle vasche.
Si tuffò dal trampolino e iniziò a nuotare.
Sotto di lei, a seguirla, la sua ombra allungata. E lì, con tutta la delicatezza di un pesce pagliaccio, lasciò che le sue lacrime sgorgassero.
Perlopiù sconosciuta e sola nuotò per un’ora intera, senza mai fermarsi.

Ritrovandosi libera e senza traccia.
di Rebecca di Santo

La Città dei Morti, Il Cairo.
foto dal sito tpi.it

La Città dei Morti, Il Cairo.


La Città dei Morti, Il Cairo.
foto da larepubblica.it

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