Anbar
indossava la sua tunica. Rimaneva ferma al centro della sala e le girava la
testa. Dopo tanto, tanto tempo era tornata in Egitto. Non aveva più l’età per
essere una bambina eppure, se questo era oramai naturale a Parigi, ora, lì si
sentiva a disagio. Lì essere donna significava abbassare lo sguardo e smettere
di parlare.
Per
l’occasione, la madre e le zie, le avevano preparato degli abiti tradizionali.
Una tunica e, sopra, un velo di un azzurro così leggero da
far esplodere di luce la sua pelle e il nero dei suoi occhi.
Anbar
tremava mentre un leggero sudore le faceva sentire sulla schiena la ruvidezza
del cotone grezzo.
Tutto
avrebbe voluto, tranne essere lì. Esserci quel giorno. Anche il cielo le piombava
addosso con quel blu intenso. I suoi occhi si erano abituati al cielo francese,
ai comignoli e a quel senso di solitudine che, nel tempo, le aveva regalato una
profonda conoscenza di sé.
Sapeva
che sarebbe dovuta rimanere lì almeno cinque mesi. Cinque mesi per accompagnare
il lutto della madre.
Cinque
mesi di rispetto di regole sociali che non le appartenevano più, che non le
erano mai appartenute e che aveva dovuto vivere.
Lì
ad Al-Qarafa, alla Città dei Morti
del Cairo, la sua era considerata una famiglia fortunata. Suo padre, Hussein, vendeva acquari. Acquari e pesci rossi, oltre a
rari pesci blu, che il papà chiamava pesci chirurgo, e qualche pesce pagliaccio.
Anbar
aveve visto migliaia di pesci rossi nella sua vita. Da bambina ci passava le ore davanti agli acquari.
Tutto un pomeriggio a guardare il loro muoversi. Papà Hussein non li divideva
per grandezza come aveva visto fare nel grande capannone dove andavano a
prenderli, lui li teneva mescolati. Così carpe di 15 o 20 centimetri vivevano
scivolando nella stessa acqua di alcuni pesciolini piccoli, piccoli come il piccolo
mignolo di Anbar. Qualche volta i pesciolini non sopravvivevano alla
convivenza.
Praticamente
il suo mondo di bambina era diviso tra un quartiere in cui a stento arrivavano
le fognature e i vetri trasparenti degli acquari. Le piaceva osservare come
tutto quel gran movimento dei pesci non lasciasse nessuna traccia. Quando lei
camminava in strada, quando pioveva e l'acqua sommergeva le strade fra le
tombe e le abitazioni, i suoi piedi lasciavano orme a terra e, quando rientrava
a casa, era il fango a lasciare le sue impronte. Invece i pesci no,
nuotavano nuotavano e l’acqua rimaneva intonsa. Questo la affascinava. Non
capiva come e perché ma trovava questo fatto importante. Trovava che avrebbe
voluto poterlo vivere, farlo suo. Un po’ per giocare a nascondino e non
lasciare i segni della sua corsa, un po’ perché se così fosse stato anche per
gli umani, la sua casa sarebbe stata più pulita, senza tutta quella polvere.
Al-Qarafa mostrava il suo volto migliore
nei giorni di sole, quando la lunga siccità ne seccava le vie e i muri degli
edifici antichi sembravano sgretolarsi e cadere al suolo. Si sdisfacevano per
poi tornare a compattarsi quando la pioggia li scuriva. Ma il silenzio
dell’acqua rendeva più evidente che in quel posto convivevano la vita e la
morte. Anbar lo ricordava come un luogo con tutte le sfumature del marrone, dal
beige chiaro al testa di moro.
Invece
nel negozio di papà Hussein il mondo era colorato e perennemente bagnato.
I colori dei pesci raccontavano il mare. E, per Anbar, i pensieri di quel mare erano così difficili da tradurre. Non avrebbe saputo metterli in ordine e non avrebbe potuto dire di quali parole fossero formati. C’erano idee tipo “luce”, “movimento”, “correre”, "andare". Era talmente tanto il tempo e lunga la solitudine di quelle giornate al negozio, che riusciva a fare tanti disegni per acchiappare quello che sentiva davanti a quegli acquari.
I colori dei pesci raccontavano il mare. E, per Anbar, i pensieri di quel mare erano così difficili da tradurre. Non avrebbe saputo metterli in ordine e non avrebbe potuto dire di quali parole fossero formati. C’erano idee tipo “luce”, “movimento”, “correre”, "andare". Era talmente tanto il tempo e lunga la solitudine di quelle giornate al negozio, che riusciva a fare tanti disegni per acchiappare quello che sentiva davanti a quegli acquari.
Per disegnare poteva usare una
matita con la punta tagliata dal coltello. Disegnava sugli scatoloni in cui arrivavano
gli acquari o sul retro dei fogli che il padre usava per fare i conti. Erano
rari perché papà Hussein li riempiva all'inverosimile. Ad Anbar sembrava di
disegnare sulle dune, le alture erano i numeri pigiati dalla matita del padre,
che si imprimevano sul foglio. E lei lì tracciava l’ombra che i pesci fanno sul
fondo dell’acquario. Questo le sembrava l’unico segno che potesse renderli
reali. Avevano un’ombra, erano vivi e presenti.
Altre volte era il fango stesso a
permetterle di disegnare. Con dei bastoni o anche con del ferro tracciava nella terra umida delle linee. Erano irriconoscibili pesci dalla forma allungata. Erano
le ombre. Aveva preso anche a spiare la sua di ombra e quella delle persone in
strada, a casa, ovunque, ma non si somigliavano per niente. L’acqua rendeva le ombre dei uniche. Delle saette marine. Erano ombre ma avrebbe voluto disegnarle come
luci.
Ora era lì con il suo abito. Si
guardò ancora, riflessa sul vetro della finestra. E decise di cambiarsi.
Indossò comunque un abito cerimoniale ma un abito che sentiva più suo. La galabia che scelse era grigio perla.
Dalla finestra poteva vedere ciò che aveva sempre visto: lapidi, lapidi
ovunque, e poco di lato panni stesi, qualche macchina e i parenti in attesa. Le
lapidi per lei erano orizzonte di vita e quotidianità, andare in Europa e non
trovarne l’aveva fatta sentire spaesata. Così aveva fatto visita più volte ai
cimiteri parigini. Ma non era la stessa cosa, quei cimiteri erano tristi,
silenziosi, lei era abituata a sentire la morte come la compagna di giochi.
Anche quando andava in bagno, fuori
dalla finestra, erano ancora lapidi.
Stavolta sarebbe toccato a suo
padre venire sepolto, poco lontano da lì. Nella nuda terra, coperto solo da un
drappo durante il trasporto. Seppellito sul fianco destro e con la testa
rivolta, ancora e per sempre, rispettando la direzione della qibla.
Anbar non sentiva dolore. La morte non era questo. Sapeva che il negozio
dei pesci avrebbe continuato a esserci. Anche se nel tempo tutto era cambiato.
I pesci ora erano divisi per grandezza e tipo. I quaderni e le matite erano
vicino alla cassa, sul bancone.
Fuori la città premeva. La primavera araba urlava e moriva tutt’attorno.
Ma questo non sembrava intaccare la quotidianità, nella Città dei Morti. Quella
primavera era un fiume di uomini di cui era impossibile vedere l’ombra
riflessa, fitti com’erano. Qualcuno si elevava fino in cielo, dandosi fuoco.
Ecco Anbar era voluta fuggire da quel tipo di morte. Da quel tipo di
disperazione.
Solo l’ombra negli acquari poteva darle sollievo.
Era
cresciuta sapendo che la morte e la vita se ne andavano a braccetto e che,
tutto sommato, forse quel loro camminare fianco a fianco era come il non
lasciare traccia dei pesci. Era come farsi leggeri.
Avrebbe
fatto tutto ciò che doveva.
Passarono
i cinque mesi. Ne passarono di più. Finalmente Anbar riuscì ad andare via. Appena fu a
Parigi si recò alla piscina Château des Rentiers. Nello spogliatoio sentiva il suo corpo
stonato. La sua nudità ferita dal caldo e dall’umidità. Si sentiva ferita dagli sguardi distratti delle altre
donne.
Indossò il suo costume intero, verde smeraldo. E si mosse in direzione
della sala delle vasche.
Si
tuffò dal trampolino e iniziò a nuotare.
Sotto
di lei, a seguirla, la sua ombra allungata. E lì, con tutta la delicatezza di
un pesce pagliaccio, lasciò che le sue lacrime sgorgassero.
Perlopiù
sconosciuta e sola nuotò per un’ora intera, senza mai fermarsi.
Ritrovandosi
libera e senza traccia.
di Rebecca di Santo
La Città dei Morti, Il Cairo.
foto dal sito tpi.it
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La Città dei Morti, Il Cairo. |
La Città dei Morti, Il Cairo.
foto da larepubblica.it
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